58770_200Dallo zingaro a te, il passo è più breve di quel che credi

di Marco Palma

Sulla questione dei nomadi siamo – quasi tutti – discretamente ignoranti. Non ne conosciamo, in linea di massima, la storia, la cultura, le consuetudini, gli stili di vita; e, spesso, ci aggrappiamo a stereotipi che abbiamo interiorizzato fin da piccoli per valutare la questione, magari riconoscendo quello stesso stereotipo senza però essere capaci di liberarcene fino in fondo. Perché la distanza culturale è ampia, grandissima: quella che separa chi ha uno stile di vita stanziale da chi ha una propensione nomade.

 

Proprio per questo, discutere intorno al tema del nomadismo è quanto mai difficile. Farlo – come avviene in questi giorni sulla questione delle bollette del campo nomadi saldate dall’amministrazione comunale vicentina – col piglio del moralista giustiziere è il modo più semplice per soffiare sulle braci della crisi e coprire, con un folto strato di cenere, alcuni nodi che, invece, andrebbero presi in considerazione.

 

Non si tratta di fare l’avvocato difensore di un gruppo sociale: perché, a priori, nessun gruppo va difeso o condannato a causa delle sue caratteristiche culturali; ne, tanto meno, di mettere sulla bilancia meriti e demeriti, per vedere se il bene supera il male. Semplicemente, si tratta di non essere schizofrenici: poche settimane fa Vicenza si svegliava stupefatta per l’eroe zingaro che salvava la donna dall’annegamento gettandosi nel gelido fiume Bacchiglione; oggi, una parte della stessa città, va a letto indignata perché a quegli stessi zingari è riconosciuto un minimo di welfare.

 

Perché, si dice, non si integrano; non accettano i requisiti minimi dello stare in una comunità; rubano; fanno l’elemosina; e, poi, insomma, non è mica giusto che il Comune gli sistemi il campo nomadi, a noi cittadini “normali” nessuno paga la ristrutturazione della casa. Potrebbero smetterla di pretendere una roulotte come alloggio, e accettare le quattro mura dentro le quali noi dormiamo. Fare come tutti.

 

E, così facendo, si dimentica un nodo centrale del rifiuto al razzismo. Perché, è bene dirlo, nel giudizio che si da del nomadismo, un filo di razzismo c’è anche tra coloro che, pure, guardano al resto del mondo con tolleranza. E questo nodo è che la diversità non va giudicata, tanto meno “normalizzata”. Va, invece, conosciuta, approfondita, vissuta. Senza pensare che la distanza culturale sia lo spartiacque sul quale costruire l’accesso a diritti e meccanismi di welfare.

 

D’altronde basterebbe una ricerca per capire che la vicenda dei nomadi è ben più complessa di quel che vogliamo credere. Essere nomadi, infatti, ha prima di tutto dei significati storici e sociali. Storici, perché queste famiglie hanno le radici in popolazioni dedite al nomadismo e non avezze alla vita stanziale; sociali, perché queste comunità si fondano sul ruolo centrale della famiglia allargata, che può avere fino a 60 componenti.

 

E, storicamente, i nomadi sono stati pastori, piccoli artigiani itineranti, in alcuni casi anche ladri e rapinatori, come del resto lo sono stati una parte dei milioni di italiani emigrati all’estero. Non è un segreto che la società contemporanea abbia cancellato una parte dei mestieri a cui erano dediti; e che la crescente occupazione del territorio da parte delle popolazioni stanziali e delle infrastrutture che a queste ultime servono abbiano di fatto tolto lo “spazio di manovra” alle carovane. Da questo punto di vista, i campi nomadi che alcuni mettono all’indice come privilegi, rappresentano invece delle riserve, come è stato per gli indiani d’america (anche loro, e a modo loro, nomadi, per altro); l’unico spazio nel quale mantenere un legame, per quanto flebile, con la propria storia e le proprie tradizioni, con il proprio modello sociale e familiare oggi messo ai margini da una società che ha fatto della stanzialità – e, nel caso della società italiana, della casa di proprietà – uno dei dogmi intorno ai quali costruire la propria identità economica e sociale.

 

Decidere che chi vuole un welfare deve adottare i nostri stessi stili di vita è un atto d’arroganza. E misurare servizi e diritti sulla diversità è un segno d’intolleranza e inciviltà. Un luogo in cui stare, la possibilità di esprimere le proprie tradizioni, il riscaldamento, il servizio sanitario, sono diritti che, se misurati su questi temi o in punta di diritto (ovvero sul presunto numero di reati commessi) diventano, automaticamente, privilegi legati alla propria buona condotta; con qualcuno (ma chi?) che questa buona condotta dovrà certificarla. E nessuno, un domani, potrà impedire che a qualcun altro, diverso perché omosessuale, nero o giallo, povero o ribelle, siano negati gli stessi diritti con analoghe argomentazioni.

 

Perché, se passa il ragionamento che per avere diritto a un sostegno economico non basta essere in stato di bisogno, ma è necessario rispettare certi parametri sociali, questo meccanismo vale per tutti. E, per dirla con Bertold Brecht, quel che oggi tolgono allo zingaro, perché nessuno si è sporcato le mani per difenderlo, domani potrebbero toglierlo a te, e potresti trovarti col deserto intorno.

 

Alcuni affermano che le popolazioni nomadi, di questo sostegno, non ne hanno bisogno. Ma un’amministrazione comunale non paga il conto del pub, copre piuttosto le spese di servizi essenziali come l’energia elettrica. Può darsi che alcuni nomadi non ne abbiano bisogno, come non ne hanno bisogno tanti italiani che, per far avere la borsa di studio universitaria al figlio, trovano il modo di abbassare l’Isee passando davanti a tanti altri in condizioni economiche meno agiate. Ma, allora, il problema non è la radice culturale del destinatario, è il sistema  diseguale della società che viviamo. Che si dovrebbe avere il coraggio di mettere all’indice, invece di cercare il comodo capro espiatorio vangando nel terreno fertile dello stereotipo.

 

Chi dice che tra i nomadi vi siano anche ladri e furbetti ha ragione. Ma dare a un gruppo caratterizzato da alcuni tratti distintivi uno stereotipo omologante è razzismo; come lo è quando, all’estero, chiamano gli italiani mafiosi e assassini. Perché è vero che tra gli italiani vi sono mafiosi e assassini. Ma questo non significa che ognuno di noi lo sia.

 

Le poche righe scritte da Brecht illuminano lo scenario a cui porta l’intolleranza o l’indifferenza verso i più diversi. E’ un insegnamento a cui dovremmo prestare attenzione. Perché, per le leggi che normano la nostra vita, è diverso – e deviante – anche chi taglia la rete di una base militare o fa un picchetto non autorizzato in difesa del proprio lavoro o entra in Italia senza un regolare permesso di soggiorno. E domani qualcuno potrebbe dire che chi commette uno di questi reati non deve aver diritto al welfare. E tu, che queste cose le hai fatte e le consideri un diritto, potresti trovarti da solo, con quelli più deboli di te già allontanati e marginalizzati e quelli un pò più forti a cullarsi nelle proprie condizioni, sicuri che mors tua è vita mea. Perchè è proprio questo quello che stai pensando quando, di fronte all’1,6% del totale della spesa per il sociale destinato da un’amministrazione comunale ai nomadi, ti indigni. Ma a metterti in difficoltà nell’arrivare a fine mese non è un “pericoloso” nomade, bensì un sistema economico che fonda sulle tue stesse difficoltà e sulla guerra tra poveri il proprio successo e il proprio profitto.