ALLE RAUS!

I movimenti sociali, lo spazio euromediterraneo e la costituzione materiale dell’Europa.

Un contributo dei Centri Sociali del Nordest

19 / 3 / 2013

 

Ci voleva il “lunedì nero” dell’isola di Cipro per ricordare a tutti che la crisi finanziaria dell’Eurozona è un dato strutturale con cui fare i conti ancora per un lungo periodo? Che troppo facili ottimismi sono ogni giorno costretti a misurarsi con l’andamento “a spirale” di una crisi in cui l’instabilità dei mercati, consustanziale al funzionamento dei meccanismi della speculazione finanziaria, si combina con il progressivo avvitamento tra politiche di austerità, impoverimento di massa e recessione?

L’Europa reale non è quella sognata dai suoi “padri fondatori”, né quella desiderata da chi aspira alla trasformazione dello stato di cose presenti. Ma neppure quella definita dai Trattati e dalla sua attuale architettura istituzionale. E’ piuttosto quella che sta prendendo forma tra Cipro e Francoforte, tra Tunisi e Bruxelles, tra Sofia e Strasburgo.

Per spiegarci meglio, prima di ripercorrere alcuni fatti salienti delle ultime settimane, giova tentare di proiettare la classica distinzione tra “costituzione formale” e “costituzione materiale” sul nuovo scenario europeo.

 

L’Unione Europea è stata definita come un “ircocervo” proprio per le caratteristiche della sua sovranità, sfuggenti ai principi del costituzionalismo degli ultimi due secoli. Ma, seppur priva di una Costituzione comparabile con quella dei moderni stati sovrani, fin dai Trattati di Roma (1957) e, sempre per via di accordi stipulati tra governi nazionali e poi ratificati in seconda battuta dai parlamenti nazionali, tappa dopo tappa fino al Trattato di Lisbona (firmato nel 2007 e in vigore dal 2009) e passando per l’adozione della Carta dei Diritti Fondamentali (Nizza 2000), essa si è dotata di una cornice formale di definizione dei poteri e di funzionamento delle sue istituzioni. Un assetto ab origine sbilanciato, in quanto non originato da un potere costituente espressione diretta dei cittadini europei, per quanto problematica potesse esserne la definizione, ma derivato da una permanente negoziazione inter-governativa e segnato dalla concentrazione delle competenze in capo a organismi espressione degli stessi esecutivi nazionali, quali ad esempio la Commissione.

 

Abbiamo già osservato come il tempo della crisi sia coinciso con una vera e propria “fase costituente dall’alto” e come gli ultimi quattro anni (e gli ultimi due in particolare) abbiano profondamente mutato la costituzione materiale dell’Europa, ovvero l’ordinamento de facto prodotto dai sottostanti rapporti di forza economici, sociali e politici. La cosiddetta Troika non è altro che il luogo della decisione politica espressione di tale nuova costituzione materiale, che fa strame della stessa cornice formale precedentemente definita dai Trattati, già connotati da un pesante deficit democratico. Quando cioè le scelte fondamentali che concernono la gestione della crisi e, più in generale, le politiche economiche e finanziarie della UE vengono assunte in una permanente triangolazione tra la Commissione (i cui componenti sono nominati dai governi nazionali), il Consiglio Europeo (ovvero il vertice dei capi di governo dei paesi membri dell’Unione) e la Banca Centrale Europea (il cui board è il risultato della trattativa tra i governi stessi), e implementate da una tecno-struttura burocratica orientata dalla continua attività di pressione delle lobby delle imprese transnazionali, siano esse manifatturiere o di servizi, compresi quelli bancari e finanziari, è evidente come qualsiasi altro livello istituzionale ne risulti automaticamente esautorato.

In altri momenti il voto, con cui il 12 marzo scorso il Parlamento Europeo riunito a Strasburgo ha bocciato il bilancio pluriennale di austerity deciso dai governi dell’Unione, avrebbe significato (e in parte significa) una clamorosa rottura tra le istituzioni comunitarie, una crepa, un primo produttivo spazio di contraddizione da lavorare a fondo. Oggi è una notizia che passa in secondo piano, proprio perché lo svuotamento dei poteri già residuali dell’assemblea parlamentare costituisce un dato di fatto consolidato e nulla pare muoversi per invertire questa tendenza, paralizzante le stesse famiglie politiche “progressiste” che si muovono su scala continentale.

 

Paradossalmente, per quanti avevano nel tempo sostenuto l’equazione “più integrazione, più democrazia”, il processo costituente dall’alto cui stiamo assistendo procede invece nel senso di una maggiore integrazione orientata da una governance marcatamente “post-democratica”. Basti guardare alle esplicite conclusioni degli ultimi summit del Consiglio Europeo e, in particolare, a quello del dicembre scorso. Il documento preparatorio Towards a genuine Economic and Monetary Union, redatto per l’occasione da Van Rompuy ma pensato “in stretta collaborazione” con il presidente della Commissione Barroso, quello dell’Eurogruppo Juncker e quello della BCE Draghi, è una lettura estremamente istruttiva per la roadmap che descrive e i concetti che impiega per supportarla. Il nodo è come consolidare la cornice definita dagli accordi (“Six-Pack”; TSCG e “Two-Pack”) che negli ultimi due anni hanno progressivamente sottratto sovranità ai singoli stati nazionali in materia di bilancio, politiche fiscali e di spesa, e gestione del debito pubblico, per fondare sui principi di “stabilità e integrità” un’autentica Unione Economica e Monetaria. E’ un percorso che arriva a traguardare il 2014, rafforzando i meccanismi di supervisione dei sistemi bancari nazionali verso un mercato finanziario unificato, anche con l’intervento diretto della Banca Centrale per la ricapitalizzazione, attraverso l’ESM (European Stability Mechanism), di singoli istituti in crisi. Per quanto riguarda le politiche budgetarie, il controllo sui bilanci dei singoli stati nazionali viene definito come “materia di vitale interesse comune”, prospettando la costruzione di un quadro finanziario integrato da spingere fino ad una “competenza fiscale centralizzata”, una sorta di “Tesoro centralizzato, con responsabilità chiaramente definite”. Senza dare eccessivo credito alla ripetuta retorica della “condivisione dei rischi” e della “solidarietà fiscale” come elementi guida per l’assorbimento indolore di prevedibili shock finanziari asimmetrici (il piccolo esperimento cipriota ci rammenta, infatti, quanto questi interventi possano essere “indolori” e soprattutto per chi …), preme qui invece insistere su due concetti ricorrenti nel documento che, tra le nebbie dell’ideologia monetarista, emergono con ancora maggior forza quando la Troika delinea l’ulteriore scenario di un “quadro integrato di politica economica”. Qui si parla di un “completamento del Mercato Unico, come strumento potente per la promozione dello sviluppo”, ma ancora una volta l’unica ricetta accennata sta nel governo disciplinare della precarizzazione del lavoro vivo (smantellamento delle “rigidità strutturali”, promozione della “mobilità transfrontaliera” e intervento sullo “skills mismatch”).

 

L’obiettivo è, da oltre vent’anni, sempre lo stesso: rendere il mercato unico europeo “competitivo su scala globale” e ridurre le “eccessive divergenze nella competitività tra i singoli membri dell’UEM.” Nuovi e rivelatori sono i due concetti qui indicati come strumenti per raggiungerlo: la progressiva “convergenza” tra gli stati membri e, soprattutto, la definizione di “rapporti contrattuali tra le istituzioni dell’Unione Europea e i singoli stati”, dove per “istituzioni” si deve leggere l’assetto materiale dei poteri della Troika e per “stati” il riferimento esclusivo è ai governi in carica.

E’ fin dalla pericolosa innovazione che Thomas Hobbes introduce nel giusnaturalismo cinque e seicentesco che i concetti di “contract” e “pact” mostrano una differenza costitutiva. Il “contratto” è qualcosa di ben diverso dal “patto”: là dove quest’ultimo presuppone una relazione orizzontale, tra eguali e solidali che in esso si stringono, una relazione cioè originariamente di carattere federativo, il primo sancisce invece una fondamentale asimmetria tra i contraenti, un dislivello di proprietà e di potere tra le parti che la forma contrattuale non fa altro che confermare e rafforzare, neutralizzando gli elementi di conflitto che l’ineguaglianza di partenza può generare.

Ma qual è il concreto contenuto di questa “sistemazione contrattuale”? Una volta sottoposte le politiche fiscali, economiche e finanziarie dei singoli paesi alla profonda “review” europea, una volta definite dal Consiglio su proposta della Commissione le “raccomandazioni country-specific” e tradotte queste in un “piano per le riforme”, cogente fino al dettaglio delle misure da assumere e accompagnato da un’altrettanto stringente definizione della tempistica d’applicazione, spetta alla Commissione “informare i Parlamenti nazionali ed europeo della necessità di queste riforme nel quadro dell’Unione Economica e Monetaria”. Letteralmente: la necessità. In base alla quale i parlamenti vengono, a ogni livello, esclusivamente consultati e informati. Le decisioni politiche si prendono altrove. E la “relazione contrattuale” sostituisce l’ultima parvenza di democrazia formale in Europa e travolge l’architettura istituzionale comunitaria definita dai Trattati.

 

Se questa è effettivamente la tendenza che, non senza qualche contraddizione, si sta affermando, viene da interrogarsi: c’è spazio oggi in Europa, in quell’Europa che coincide con gli attuali confini dell’Unione, per una battaglia per la “democratizzazione” delle sue Istituzioni? Quali sono oggi i margini per una campagna, anche quando condotta “dal basso e a sinistra”, per una Costituzione europea che conquisti la sua riforma in uno spazio di democrazia e libertà? Se guardassimo, come abbiamo cercato di fare, ai processi reali che innervano la costituzione materiale di questo continente-mercato, diremmo proprio di no. Ma proviamo ad arricchire ulteriormente la riflessione.

 

Questa volta da una prospettiva storica. Senza evocare radici e culture di qualsivoglia tipo, e le molteplici e differenti che in essa hanno convissuto e conflitto, convivono e confliggono, sono comunque un ricco e positivo attributo dell’idea di Europa che amiamo, rivolgiamo lo sguardo alle due diverse Europe che hanno segnato la storia politica di questo secondo Dopoguerra.

L’idea democratica e federativa degli Stati Uniti d’Europa, propria del più avanzato Manifesto antifascista di Ventotene, il sogno di liberi ed eguali di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, viene tradita fin da subito dal processo di costruzione delle Comunità che approda ai Trattati di Roma.

Pur con alterne simpatie e fortune nel consenso dall’altra parte dell’Atlantico, è sotto il segno della divisione del continente nei due blocchi contrapposti che esso si determina: la costruzione europea è funzione dipendente nello scontro tra l’Occidente capitalistico e il campo sovietico. Essa può svilupparsi come “comunità del carbone e dell’acciaio” prima, “dell’atomo” poi, in quanto variabile dipendente dallo sviluppo multinazionale del capitale statunitense. Spazio produttivo e di scambio commerciale segnato dalle migrazioni interne Nord-Sud, là dove le funzioni politico-diplomatiche e di difesa sono riservate alla relazione tra élite nazionali e dispositivi imperiali, NATO in primis. E’ perciò un’ “Europa atlantica” quella che si struttura tra gli anni Cinquanta e Ottanta e tale resterà, nonostante gli svariati tentativi di affermare una propria autonomia, nell’economia e nella politica internazionale, fino al crollo del muro di Berlino.

Qui il crollo dei sistemi socialisti e la travolgente violenza dei processi di globalizzazione economica, l’innesco di quella nuova accumulazione originaria nel segno dell’estrema finanziarizzazione dei rapporti di capitale che stiamo imparando a conoscere, aprono la strada, o sarebbe meglio dire impongono la seconda Europa. E’ quella che, ben più decisamente osteggiata da Washington, ha come solo esplicito obiettivo quello della costruzione di un “mercato unico” di produzione e di scambio, capace di “competere” alla pari con la potenza economica statunitense e le nuove potenze emergenti. A partire dal 1992, con il Trattato di Maastricht, questa prospettiva si organizza ristrutturando le precedenti istituzioni comunitarie, definendo il percorso di costruzione della “moneta unica”, avviando la costituzione della propria Banca Centrale e dotandosi – nei fatti e non senza limiti e contraddizioni tra sovranità europea e nazionale, che emergeranno dolorosamente nel corso della presente crisi – di una propria linea di politica economica, ispirata ai dogmi delle più arretrate dottrine neoliberiste e monetariste. Fin dai primi anni Novanta i suoi capisaldi sono, nella logica dei Patti di Stabilità europei ed interni, il “contenimento” della spesa pubblica e, in particolare, di quella ritenuta “improduttiva” dei sistemi di Welfare; la “flessibilizzazione” del mercato del lavoro attraverso l’eliminazione di tutte le “rigidità” sia sul terreno salariale che su quello dei diritti; la “liberalizzazione” dei mercati, a partire dalla privatizzazione dei servizi pubblici e dei beni comuni … e l’elenco potrebbe continuare a lungo attraverso l’imposizione delle amare ricette che ben conosciamo.

L’esplosione su scala globale della crisi finanziaria ha trovato questa seconda Europa impreparata. Ancora troppo dipendente dalla potenza economica statunitense in declino; impoverita dal disinvestimento sulla formazione, la ricerca, i saperi più in generale; immiserita da una logica per cui la “competitività globale” si sarebbe dovuta giocare esclusivamente sul terreno della precarizzazione e della compressione delle condizioni reddituali e riproduttive del lavoro vivo; vincolata al controllo sulle materie prime esercitato, in particolare in campo energetico, dalla vicina Russia e dai paesi del Golfo; inadeguata nella gestione differenziale dei fenomeni migratori. Ma ben determinata, nelle sue oligarchie economiche e politiche, feroci nel difendere il proprio status di privilegio in un mondo in rapida trasformazione, a perseverare negli errori, in tutto subalterna alla logica del capitale finanziario, ai suoi flussi, alla sua strutturale tendenza al realizzo della rendita speculativa a breve, brevissimo termine.

 

Mentre l’ex presidente dell’Eurogruppo Juncker, uno degli alfieri delle politiche di austerity a senso unico, che negli ultimi anni hanno trasferito ingenti quote della ricchezza socialmente e comunemente prodotta ai forzieri della privata appropriazione nei circuiti del capitale finanziario, senza sciogliere uno solo dei nodi del “declino europeo”, balbetta della necessità di “trovare una nuova intersezione tra le politiche per la crescita e quelle per il consolidamento” di fronte al rischio di una “ribellione sociale”, ci pare evidente come con queste oligarchie sia difficile, se non praticamente impossibile qualsiasi “compromesso costituzionale”. Perché non vi è in questa gestione della crisi alcuno spazio materiale, prima ancora che la volontà politica, per trovarlo.

 

Dobbiamo perciò, ad ogni costo, evitare di compiere i loro stessi errori. E qui, lo sguardo si sposta ancora una volta: dalla prospettiva istituzionale a quella storica, da questa a quella geopolitica. Anche se la geopolitica è una delle discipline del dominio par excellence: traduce i rapporti di forza sociali in politica di potenza, contorna sfere d’influenza, decostruisce e ricostruisce equilibri di potere, tratteggia e colora sul globo le mappe del comando. Se noi vogliamo dunque essere tra i protagonisti, e non tra gli spettatori, del cambiamento radicale di un mondo in profonda metamorfosi, dobbiamo provare a disegnare altre mappe, definire una topografia delle lotte, che tiene certo in conto la cartografia del dominio e dello sfruttamento, ma costruisce i propri territori e i propri spazi d’azione politica in termini non perfettamente sovrapponibili, a partire dalle soggettività in lotta, dalla loro composizione, dai loro conflitti. Dobbiamo essere consapevoli che i confini dell’Europa dell’Unione, così pesantemente e forse irreversibilmente segnata dalla sua storia recente e dalla sua costituzione materiale, così come si stanno rivelando inadeguati ad affrontare il permanente rivolgimento delle dinamiche produttive e riproduttive del presente globale, sono spazio troppo angusto per un adeguato sviluppo delle più radicali domande di libertà ed eguaglianza, per la crescita di una prospettiva rivoluzionaria di parte.

E non è casuale che la più recente sperimentazione di un intervento di governance finanziaria della Troika si sia esercitata sulla piccola isola nel cuore del Mediterraneo, crocevia di flussi legati al capitale russo e ad interessi mediorientali.

Così come vi è una vitalità economica che corre tra le sponde africane, asiatiche ed europee del mare, che intreccia reti produttive materiali e immateriali lungo le filiere lunghe che dal bacino mediterraneo si diramano verso i nuovi spazi atlantici e pacifici, verso il Far East e un Africa in impetuoso sviluppo; allo stesso modo non può esservi spazio politico transnazionale che non sia immediatamente “euro-mediterraneo”, che non guardi simultaneamente verso Est e verso Sud.

Se non ci fossero bastate a dimostrarlo la stagione delle cosiddette “primavere arabe”, la modernità e la similarità della composizione sociale che le ha animate, la persistenza e la tensione costituente verso la costruzione di altri e più giusti rapporti sociali che le percorre, ci aiuterebbero a comprenderlo le più recenti piazze insorgenti nei Balcani, i movimenti di Slovenia e Bulgaria, di Budapest e di Zagabria.

 

Ecco perché, se più volte abbiamo ribadito che l’Europa è il nostro spazio politico di azione, oggi questa affermazione non può che qualificarsi come “euromediterranea”.

E’ perciò a Tunisi come a Bruxelles, a Sofia come a Francoforte che l’“Europa dei movimenti” deve guardare. Se l’astrazione sovrana è il tratto connotativo del comando della finanza e del debito, la definizione di “Europa dei movimenti” non può restare generica, o peggio risultare confinata negli spazi istituzionali dell’Unione e ridotta ad esercitare il ruolo di sua “ala sinistra costituzionale”. Così come non è più sufficiente la disorganica sommatoria di tutti i puntuali conflitti sociali che la attraversano.

Essa non può che misurarsi con una realtà costituita da una molteplicità di territori sociali, e non preformata dalle istituzioni dell’Unione, dal solo spazio dell’Euro, da entità statuali o macroregionali. E’ un “Euromediterraneo dei territori”, intesi al plurale non come dato oggettivo, geografico e organicistico, perché punteggiata da mille città e dai movimenti che, in questa pluralità di contesti metropolitani, sulle diverse sponde del Mediterraneo, si formano ed agiscono.

Questa nozione rinnovata di spazio politico è, tra l’altro, in diretta contrapposizione con qualsiasi idea di un governo centralizzato sulla società, sia esso articolato in una rinnovata funzionalità degli Stati nazionali, nella riorganizzazione verticale di Macroregioni economiche, o in un Superstato continentale. Ecco perché, se “Euromediterraneo dei movimenti” significa nello stesso tempo uno spazio dei territori e delle città, la vocazione allo sviluppo delle autonomie, la rielaborazione del tema dell’indipendenza, tutt’uno con il possibile concreto rilancio di percorsi reali di autogoverno locale in relazione con altri simili, si rivelano qui elementi decisivi per l’avvio di qualsiasi processo costituente “dal basso” dello spazio europeo.

 

Il comune contenuto di questo inedito orizzonte di lotta non può che essere quello dettato dalla pluralità dei conflitti euromediterranei e dalla loro composizione sociale: la radicale e irriducibile domanda di libertà e di ricchezza comune, dalla libertà di movimento, contro e oltre i confini, alla rivendicazione di un reddito dignitoso per tutte e tutti, contro la rendita parassitaria della finanza, per la decisione collettiva su beni e servizi comuni.

E questo processo costituente non può che partire oggi da tutte le differenti pratiche del comune che resistono ai militari del Cairo, agli integralisti di Tunisi, ai corrotti di Maribor, ai nazionalisti di Budapest, ai burocrati di Bruxelles, ai banchieri di Francoforte, alle politiche di austerity delle oligarchie europee rappresentate dalla Troika, così come alla chiusura di spazi di libertà e autodeterminazione da parte dei governi del Nordafrica. “Che se ne vadano tutti” è la premessa necessaria, ma non sufficiente, di ogni processo di liberazione e di autovalorizzazione del comune. Dobbiamo imparare a tradurre il “que se vayan todos” in arabo come in tedesco. E se a Bruxelles, il 13 e 14 marzo scorso abbiamo iniziato a sillabarlo, facendo le prime prove di inedite forme di coalizione sociale, dobbiamo parlare questo linguaggio nelle carovane che attraverseranno il Maghreb nelle prossime settimane e gridarlo, forte e in tanti, sotto i grattacieli della BCE nel Blockupy dei prossimi maggio e giugno. In tedesco si dice ALLE RAUS, in quanti siamo disposti a tradurlo?

 

Centri sociali del Nordest

 

marzo 2013