I curdi, da Ocalan ai peshmerga

by Gianni Sartori del 22/09/2014

Venticinque anni di ricerche, interviste, analisi geopolitiche e testimonianze dirette: un saggio fondamentale per capire le vicende di questo popolo leggendario

1) Storia di una nazione senza stato
2) Intervista con Sarajil Jalal, presidente della Comunità curda in Italia (1991)
3) Cercando un altro Saddam (autunno 1991)
4) Curdi contro curdi (marzo 1993)
5) Storia del Pkk (e partiti curdi in Turchia)
6) Sciopero della fame del 1996 (dicembre 1996)
7) Il ruolo della mafia turca nella “guerra sporca” contro i curdi (dicembre 1996)
8) Autodeterminazione per vivere, intervista con Ahmet Yaman, portavoce dell’ERNK (16 gennaio 1997)
9) Si ritira l’Onu, avanzano i turchi (19 gennaio 1997)
10) Conferenza per il Kurdistan convocata da “Un ponte per Dijarbakir” (24 gennaio 1997)
11) Un tragico epilogo: dalla “Ederle” alla fucilazione in Turchia (1 febbraio 1997)
12) La soluzione finale di Ankara per i curdi (2 marzo 1997)
13) La festa di Newroz, fuochi di libertà (20 marzo 1997)
14) Centinaia di migliaia di curdi festeggiano Newroz (25 marzo 1997)
15) Democrazia alla sbarra: Corte speciale per l’HADEP e armi contro il pubblico (11 aprile 1997)
16) Galera a vita per “separatismo”: il caso Ismail Besikci (12 aprile 1997)
17) I curdi di Atrush rischiano la strage (17 aprile 1997)
18) Giornata di pace fra curdi e turchi: Conferenza internazionale di Roma (18 aprile 1997)
19) Kurdistan: il pugno di ferro di Ankara (aprile 1997)
20) “Lupi grigi” anche contro gli armeni (24 aprile 1997)
21) Due mesi di sciopero della fame (7 maggio 1997)
22) Sospeso lo sciopero della fame dei prigionieri curdi. In settembre il “treno della pace” (11 maggio 1997)
23) Beffati i curdi in sciopero della fame (14 maggio 1997)
24) Kurdistan verso la guerra totale? (20 maggio 1997)
25) Bilancio a due settimane dall’inizio dell’offensiva turca (29 maggio 1997)
26) Ventidue anni di prigione al curdo che ammainò la bandiera turca (6 giugno 1997)
27) Azadi in curdo vuol dire libertà (luglio 1997)
28) Intervista a Verena Graf, rappresentante all’ONU della Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli -1 (15 agosto 1997)
29) L’Italia si prepara a estradare in Turchia il prigioniero politico Faruk Kizilaslan (25 settembre 1997)
30) Napalm turco su guerriglieri e civili curdi (4 novembre 1997)
31) Il mondo si accorge dei curdi (9 novembre 1997)
32) Giro di vite contro curdi e opposizione turca (12 luglio 1998)
33) Convegno sulla questione curda a Roma (17 luglio 1998)
34) Mentre aumenta il numero dei profughi curdi, l’Italia vende armi alla Turchia (28 luglio 1998)
35) Ma boicottare i complici di un genocidio è o non è reato? (1998)
36) È moralmente accettabile fare affari con un regime genocida? (7 agosto 1998)
37) La “democrazia” turca e i curdi (gennaio 1999)
38) Turchia: ancora violenza nell’indifferenza dell’Europa (2 gennaio 2002)
39) Sciopero della fame dei prigionieri politici (ottobre 2003)
40) Curdi in sciopero della fame a Venezia per lo status di rifugiati (novembre 2004)
41) Intervista a Verena Graf – 2 (2005)
42) Turchia in Europa senza discutere dei curdi (gennaio 2006)
43) Armenia, genocidio dimenticato: intervista a Baykar Sivazliyan -1 (febbraio 2006)
44) Riesplode l’intifada curda, ma a fare notizia sono le bombe del TAK (agosto 2006)
45) Continua il massacro dei curdi (dall’estrema destra: “Ne uccidiamo dieci per ogni turco…”) (7 ottobre 2006)
46) Un Incontro con Xavier Jacob, assunzionista francese in Turchia dal 1959, autore di “Islam e Cristianesimo a confronto – conversazioni sul Bosforo”
47) Gli USA ridisegnano (a tavolino!) un nuovo Medioriente (21 gennaio 2007)
48) Due appelli in difesa del diritto dei popoli (marzo 2007)
49) Armeni e curdi: ne parliamo con Baykar Sivazliyan – 2 (maggio 2007)
50) Intervista con don Renato Sacco – 1 (20 maggio 2007)
51) I curdi del nord Irak nel mirino di Ankara e al-Qaeda (2 settembre 2007)
52) Turchia: la nuova Costituzione preoccupa le gerarchie militari – Iran: repressione contro i curdi (settembre 2007)
53) È morto lo scrittore curdo Mehmed Uzun (21 ottobre 2007)
54) Basi USA nel Kurdistan iracheno (20 gennaio 2008)
55) L’AKP cerca di “conquistare” i curdi partendo da Diyarbakir (20 aprile 2008)
56) Donne curde
57) Intervista a Hevi Dilara, esponente di UIKI (4 novembre 2007)
58) Intervista a Leyla Zana, la voce dei curdi (dicembre 2008)
59) Una nuova invasione turca del Kurdistan “iracheno” (marzo 2008)
60) I popoli del Medio oriente come “pedine sulla scacchiera” (novembre 2009)
61) Curdi fuorilegge (gennaio 2010)
62) Tra Grecia e Turchia ci rimettono i curdi (maggio 2010)
63) Curdi impiccati in Iran mentre in Turchia rischiano di rimanere in carcere gli esponenti del BDP (giugno 2010)
64) Turchia dopo il referendum del 12 settembre e breve storia dei colpi di stato (16 settembre 2010)
65) Intervista con Riccardo Redaelli (11 settembre 2010)
66) Intervista con Baykar Sivazliyan – 3 (febbraio 2011)
67) Nuova vittoria dell’AKP in un contesto di pericolose inquietudini mediorientali (2011)
68) Minoranze a rischio tra Irak e Siria (intervista con don Renato Sacco di Pax Christi ) -2 (2011)
69) I curdi in Siria (2011)
70) Intervista con Adel Jabbar (2012)
71) Il conflitto tra sunniti e sciiti (2012)
72) Il curdo? Seconda lingua facoltativa (giugno 2012)
73) I curdi in un Iraq diviso (agosto 2012)
74) “…e per amici soltanto i monti…” (2012)
75) Il 2012 finisce con altri prigionieri politici in sciopero della fame (gennaio 2013)
76) L’esecuzione di rue La Fayette: un “effetto collaterale” dei mutamenti in atto nello scacchiere mediorientale? (gennaio 2013)
77) Addio alle armi del PKK? Per ora i guerriglieri si limitano a ritirarsi (maggio 2013)
78) Siria: tentativi di pulizia etnica contro i curdi
79) Postfazione: cosa resta dell’autodeterminazione dei popoli?

durante-newroz

1) Storia di una nazione senza stato

Il popolo curdo, tra i più antichi del vicino oriente e con più di tremila anni di storia, non ha mai avuto un’entità statale duratura e stabile. Nel 612 a.C., insieme ai Persiani, sconfisse gli Assiri, leggendari per la loro ferocia. Leader della rivolta fu un fabbro curdo di nome Kawa.
 Il carattere nomade e feudale della società curda, con il potere esercitato nelle diverse regioni dai rispettivi capitribù, non ha favorito una mentalità disponibile a riconoscersi in un’autorità centrale: volontà egemoniche, estranee agli interessi del popolo curdo, hanno cercato in ogni modo di spezzare e cancellarne unità e identità.
 Nel 1639 (accordo di Kasiri-Sirin) si è avuta la prima divisione del Kurdistan, tra l’impero ottomano e quello persiano. La seconda divisione, dopo alcuni secoli, venne decisa dal trattato di Losanna del 24 luglio 1923 – con l’influenza decisiva dei paesi europei – ed è quella che ha sancito la divisione del Kurdistan tra la Turchia, l’Iran, l’Iraq, la Siria.
 Per capire come ciò sia stato possibile, occorre considerare che i curdi hanno combattuto durante la 1ª guerra mondiale per la Repubblica Turca contro francesi e inglesi – stati europei che, come la Germania, avevano occupato il Kurdistan – in cambio della promessa di veder riconosciuta la propria identità. Ma alla fine della guerra, nonostante nel 1920 il Trattato di Sevres, avesse posto le condizioni per la creazione di uno stato curdo indipendente (progetto a cui era favorevole il presidente statunitense Wilson), i kemalisti, fautori dell’ideologia che afferma l’esistenza della sola identità turca all’interno dei confini dello stato, non rispettarono gli accordi e imposero una politica di assimilazione e di fortissima repressione.
 Tenendo conto della non omogeneità della popolazione curda – un sistema feudale all’interno del quale si parlavano diversi dialetti e venivano praticate le più diverse religioni – si mirava a occupare una alla volta le diverse regioni, in vista di un controllo di massa nel territorio curdo. Inevitabilmente scoppiarono molte rivolte (1925, 1930, 1937), soffocate nel sangue: i kemalisti trucidarono milioni di curdi che si erano rifiutati di rinnegare la propria identità per confondersi con quella turca. Fu il periodo denominato dello “sterminio rosso”.
 Dopo il 1940 i turchi usarono una strategia diversa per raggiungere il medesimo obiettivo, attraverso l’assimilazione, con l’insediamento di scuole turche in ogni paese e villaggio. I bambini, sottratti alle famiglie, erano obbligati a frequentare le scuole fino all’età di 16-17 anni con il divieto assoluto di parlare curdo (una lingua di origine iranica) e la possibilità di incontrare i genitori solo una o due volte l’anno. Gran parte dei familiari di quelli che avevano partecipato alle rivolte, intanto, erano costretti all’esilio. Questo periodo è passato alla storia (la storia curda, naturalmente) come quello dello “sterminio bianco”. 
Va sottolineata la doppiezza della diplomazia turca che riuscì, durante tutto il periodo della guerra fredda, ad avere l’appoggio sia degli Stati Uniti sia dell’Unione Sovietica. Va ricordato che durante l’impero ottomano, benché si tendesse ad assimilare i popoli dell’impero alla cultura turca (lo stesso generale Kenan Evren, responsabile del colpo di stato negli anni Ottanta – quando i colpi di stato in Turchia si susseguivano con scadenza decennale – era di origine balcanica), al Kurdistan era tuttavia concessa una certa autonomia. Veniva anche consentita l’istituzione di scuole locali nelle quali trovavano spazio la lingua e la cultura curda.
 Lo stato secolare turco, invece, portò alle estreme conseguenze la politica nazional-assimilazionista.
Tra il gennaio e il dicembre 1946 si realizza la breve esperienza di autogoverno curdo della “Repubblica curda di Mohabad”. Fondata in Iran da Mustafa Barzani approfittando delle presenza delle truppe sovietiche, finì in un bagno di sangue. Il presidente del governo curdo, il religioso Qazi Muhammad, venne catturato e poi impiccato dagli iraniani. Per alcuni storici curdi si sarebbe trattato di “un vero tradimento da parte di Stalin che preferì richiamare i suoi soldati e abbandonare i curdi al loro destino”. Per sfuggire alla forca Mustafa Barzani si rifugiò in Unione sovietica per 11 anni. Sarebbe rientrato nel Kurdistan “iracheno” (da dove nel 1946 aveva raggiunto Mahabad) con l’avvento al potere del regime repubblicano di Kassem. Dopo in breve periodo di riconciliazione e convivenza, Barzani e il suo movimento, il Partito democratico curdo (PDK), ripresero le armi per combattere contro il governo centrale di Bagdad (1962-1963). L’11 marzo 1970 il nuovo regime baasista iracheno firmava un accordo con il PDK che accoglieva in parte le richieste dei curdi riconoscendoli come la seconda nazione (insieme agli arabi) del paese. In seguito Barzani, ormai apertamente schierato con gli Usa, ritornerà in Iran per poi, fino alla morte nel marzo 1979, andare a vivere negli Stati Uniti. Una parte del PDK, quella diretta dal figlio di Barzani, entrerà a far parte del Fronte nazionale progressista iracheno. L’11 marzo 1974 nell’area curda dell’Irak si era costituita una regione autonoma con capitale Erbil (ma con l’esclusione dell’area petrolifera di Kirkuk). Il conflitto tra curdi e Bagdad riprenderà comunque nella seconda metà degli anni settanta.
In Turchia per qualche anno l’identità curda era sembrata rimanere “in letargo” e il popolo sembrava avviato a perderne la piena coscienza. Con una legge discriminatoria la lingua curda era stata messa fuori legge dal governo di Ankara (assolutamente proibito parlarla): un tentativo per estirpare il “problema curdo” alle radici e impedire che altre rivolte potessero mettere in crisi l’autorità egemonica dello stato turco. Ma il vento rivoluzionario che all’epoca spirava in tutto il mondo (l’esempio di Che Guevara e del Vietnam, il divampare delle lotte di liberazione in Africa, Asia e America latina…) portò nuova linfa anche alla resistenza curda.
 A riprendere la lotta, insieme ad alcuni compagni, sarà uno studente in scienze politiche all’università di Ankara, il curdo Abdullah Ocalan, futuro leader del PKK. Dopo gli anni di dura repressione di ogni dissenso seguiti al golpe del 1980, il governo di Turgut Opzal (Partito della Madre Patria) cercò di promuovere alcuni progetti di rinnovamento sociale, politico ed economico (tra cui la liberalizzazione del commercio estero, la riforma dell’amministrazione pubblica e il ripristino di un sistema democratico). Mentre la Turchia chiedeva di aprirsi all’Europa, la Ue decideva di bloccare un assegno di 600 milioni di dollari per le evidenti carenze di Ankara in materia di diritti umani. Poco male: l’ospitalità offerta agli Usa (sei basi militari Nato) consentiva al governo turco di incassare oltre un miliardo di dollari. E intanto per i curdi la situazione rimaneva sostanzialmente la medesima. Dal 1988 al 1993 si contano più di 40 azioni militari di ampia portata nelle zone curde. L’esercito turco fece anche uso di armi chimiche – gas nervino – in particolare nel villaggio di Hani (nei pressi di Dijarbakir), sulle aree forestali (Ovarcik, Pertek…) e sul monte Gabar dove si nascondevano i guerriglieri del PKK. Interi distretti (Yayladere, Perwari, Silvan, Siirt…) vennero bombardati dai turchi con armi chimiche tra il 1991 e il 1992. Duramente colpite le località di Palamut, Umurlu, Eskicek, Bassine, Emte, Erzurum. Nel 1993 è la volta dell’area del monte Nurhak (Musabag, Tilkiler…) con molti villaggi rasi al suolo per costringere i curdi ad abbandonare i loro territori. Quanto al PKK, nel 1993 compie decine di spettacolari azioni dimostrative in territorio europeo contro consolati turchi, uffici turistici e banche che hanno rapporti con la Turchia.
Nel frattempo il regime iracheno non era rimasto a guardare. Il 18 marzo 1988 nel villaggio di Halabja (Kurdistan “iracheno”) almeno 5mila persone avevano perso la vita a causa del gas nervino (ma anche napalm, fosforo bianco, cianuro…) sganciato dalle truppe di Saddam Hussein, in quel momento “baluardo” e alleato dell’occidente.

 

2) Intervista con Sarajil Jalal, presidente della Comunità curda in Italia (1991)

La situazione del popolo curdo. Come definirla tenendo conto dei precedenti storici e in una prospettiva internazionale?
Innanzitutto vorrei rilevare come, anche in questa fase, la nostra lotta per l’autodeterminazione resti sostanzialmente misconosciuta. Almeno rispetto ad altre lotte di liberazione, altrettanto legittime, come quella del popolo palestinese. Con la guerra del Golfo qualcosa è venuto a galla, si è parlato del problema dei curdi, ma in maniera strumentale. I curdi sono un popolo costituito da circa 25-30 milioni di abitanti (non esistono stime precise), ossia più degli arabi dell’Iraq, più dei persiani…
Ma questo popolo, non avendo un riconoscimento a livello internazionale, non conta niente. Come è noto le prime tribù che arrivarono sull’altopiano iranico furono i parti e i medi. Ebbene: i curdi sono i discendenti diretti dei medi. La nostra è quindi una delle culture più antiche. La lingua in particolare non ha subito modifiche rilevanti. Il popolo curdo fino al secolo scorso viveva in una situazione di parità con i suoi vicini, governando insieme ai persiani, ai turchi…Poi venne diviso tra l’Impero Ottomano e l’Iran. Dopo la caduta dell’Impero Ottomano si era sperato in un riconoscimento internazionale e infatti nel 1921 questo diritto venne formalmente riconosciuto. Nel 1922 il protettorato britannico, il governo turco e quello iracheno presero un impegno ben preciso: in due, tre anni il popolo curdo avrebbe potuto eleggere i propri rappresentanti per un Kurdistan autonomo. Ma la scoperta di giacimenti di petrolio a Kirkuk e i contrasti franco-inglesi cambiarono radicalmente la situazione. La mappa del Medio oriente venne ridisegnata e il Kurdistan spartito tra cinque stati (Iran, Iraq, Turchia, Siria e Urss). Da allora il popolo curdo, in quanto popolo diverso e distinto, ha ripetutamente cercato di formare un proprio Stato.
Dal 1922 ad oggi siamo periodicamente di fronte a rivolte popolari, sempre represse duramente. Pensiamo soltanto al massacro operato dallo Scià nel 1946-47 (25mila morti). Si tratta della prima Repubblica del Kurdistan, la Repubblica di Mhabad. In quella occasione vennero giustiziati tutti i dirigenti curdi, con esecuzioni definite “esemplari”. Vennero impiccati e lasciati esposti per giorni, a monito. Tra loro anche il presidente, il religioso Qazi Muhammad. Pensiamo poi ai massacri quasi quotidiani di questi ultimi anni: in Siria, Iran, Iraq, Turchia.

Le vicende della Repubblica di Mahabad ebbero poi un seguito negli anni sessanta in Iraq. Ce ne puoi parlare?
Dopo la repressione operata dall’esercito iraniano, Mustafa Barzani, comandante dell’esercito curdo di Mohabad, si rifugiò in Unione sovietica dove rimase con i suoi seguaci per circa dieci anni. Poi si trasferì nel Kurdistan iracheno. Qui agli inizi degli anni sessanta insorse alla testa di 70mila peshmerga (guerriglieri, letteralmente “combattenti della morte”). Da queste insurrezioni derivano gli accordi tra Iraq e Iran conosciuti come “accordi di Algeri”. Generalmente vengono ricordati per aver provvisoriamente risolto la questione dello Shatt al Arab. In realtà rappresentano soprattutto un accordo stipulato tra i due Stati per la repressione congiunta del popolo curdo. Togliendo ogni aiuto iraniano ai curdi dell’Iraq (compresa la possibilità di ritirata) la rivoluzione venne soffocata.

Questo per le feroci repressioni operate in Iran e Iraq. E in Turchia?
Per certi aspetti la Turchia è il paese dove la repressione è più dura, soprattutto sul piano culturale. Non era consentito nemmeno l’uso della lingua curda e del resto i curdi non venivano considerati tali, ma “turchi di montagna”. Probabilmente ricorderai il caso di quel regista curdo, Yilmaz Guney (Yol e Il gregge) che finì più volte in carcere perché osava dirsi curdo. C’è un altro caso analogo, più recente. Quello del sindaco di una cittadina che ha tenuto una conferenza in curdo ed è stato condannato a 27 anni di carcere.

Dopo la caduta dello scià Reza Pahlevi, in Iran è cambiato qualcosa per i curdi?
Anche con la Repubblica islamica la nostra resta una storia intrisa di sangue. Dopo la caduta dello scià i curdi avevano sperato in una maggiore autonomia. Cercavano la convivenza con il popolo iraniano, in attesa di una futura maggiore possibilità di autodeterminazione. ma la risposta di Teheran alle aspettative curde fu molto dura. Prima il Kurdistan venne bombardato a tappeto (nel 1980 e 1981) e poi venne rioccupato da qualche migliaio di soldati. Dopo la guerra Iran-Iraq le truppe vennero immediatamente inviate quasi tutte nel Kurdistan. Anche perché la maggior parte dell’opposizione iraniana nel frattempo aveva trovato rifugio nelle città e campagne curde.

Oggi [1991] “finalmente” si parla almeno della repressione contro i curdi per mano del regime di Bagdad…
Sì, ma soltanto perché conviene all’Occidente. Fino a qualche anno fa il genocidio perpetrato con le armi e i consiglieri delle varie potenze e superpotenze avveniva nella totale indifferenza. Qualche esempio: nel solo 1981 si registrarono 10mila morti in sette minuti di bombardamenti aerei contro i villaggi curdi. A questi vanno aggiunti 100mila profughi passati in Turchia per sfuggire a ulteriori attacchi.

Resta il fatto che tutti i regimi che occupano il Kurdistan, prima o poi sono stati fedeli alleati dell’Occidente. Questo potrebbe fornire una spiegazione alla scarsità di informazione sulla tragica situazione dei curdi (repressione, violazioni dei diritti umani…)?
Naturalmente. Nel 1980 Saddam ha deportato 200mila curdi sul confine con il Kuwait cercando nel contempo di arabizzare i territori curdi. Prima con i coloni, poi dichiarando il Kurdistan “zona militare”. Nessuno, dico nessuno, ne ha parlato in Occidente. C’è poi il caso dei circa ottomila desaparecidos tra il 1983 e il 1984. Tutti appartenenti alla stessa tribù, quella di Barzani. Anche in questo caso il silenzio stampa fu la regola in Occidente*.
Sia chiaro: non siamo dispiaciuti che finalmente si parli del nostro popolo. Ci auguriamo che ne derivi un riconoscimento preciso sul diritto di tutti i popoli del Medio oriente all’autodeterminazione.

Su questo apro un inciso. La vicenda degli ottomila desaparecisos curdi risale alla metà degli anni ottanta, quando gli elicotteri iracheni con i relativi piloti venivano in Italia per addestrarsi. A suo tempo suscitò un certo scalpore la notizia di un elicottero anti-guerriglia precipitato per la nebbia nei pressi di Fongara-Recoaro, nel vicentino. Era giunto a tappe dall’Iraq pernottando nelle basi Nato. Un po’ quello che accadeva in materia di “assistenza e cooperazione” tra l’Italia e la Somalia di Siad Barre e che avviene regolarmente con il regime di Hassan II. In Marocco numerosi ufficiali italiani addestrano da più di un decennio i militari marocchini all’uso di elicotteri di fabbricazione italiana – accordo del 1977 poi rinnovato nel 1986, gli stessi elicotteri che poi vengono impiegati contro la popolazione sahrawi. Tornando a noi, in merito alla Guerra del Golfo, buona parte della stampa occidentale sostiene che, in pratica, i curdi si sono schierati con gli statunitensi. Forse per fornire un’ulteriore giustificazione ai devastanti bombardamenti sul territorio iracheno. Qual è la posizione delle organizzazioni curde?
C’è una comune convinzione tra tutte le forze curde. Quella di sapere che comunque questa non è stata e non sarà guerra loro: è una guerra del petrolio per un nuovo ordine mondiale sotto l’egemonia americana. La nostra posizione è molto chiara da sempre: non abbiamo niente da spartire con i vari regimi dell’area. Sono tutti regimi reazionari; non solo nei nostri confronti, ma anche all’interno del loro paese. Infatti sia in Iran che in Iraq, sia in Turchia che in Siria, lottiamo assieme alle varie opposizioni progressiste. Se gli occidentali stanno organizzando una nuova mappa geografica del Medio oriente, questo non significa che siano nostri amici o alleati. Senza illuderci in proposito, cercheremo comunque di trarne dei benefici. Voglio comunque ribadire che non abbiamo niente da spartire con chi finanzia regimi antipopolari. Non mi riferisco solo alla Siria e alla Turchia, ma anche a Israele. Sono paesi mantenuti dall’Occidente a livello politico-economico-militare. Da parte nostra comunque non c’è stata partecipazione alla Guerra del Golfo, né contro gli Stati Uniti, né contro Saddam. Piuttosto c’è stata attesa per il dopoguerra, per il momento in cui dare inizio alla rivolta popolare contro il regime. Per noi il problema è garantirci il diritto all’autodeterminazione, non solo in Iraq.

Perché allora alcune componenti del movimento curdo si sono lasciate suggestionare sul presunto ruolo di “liberatori” di francesi e statunitensi?
Tieni presente che nel movimento curdo esiste ogni componente politica: da un’area di destra (tribale, feudale…) fino alle posizioni più progressiste, rivoluzionarie. Questo avviene sia per la composizione socio-economica della comunità curda, sia per il costante dialogo bilaterale con tutti i movimenti di liberazione presenti nell’area (iraniani, turchi, iracheni…).

Da un punto di vista economico i curdi si dedicano ad attività particolari? La situazione economica può spiegare, almeno in parte, perché il Kurdistan non è riuscito ad ottenere l’indipendenza o almeno una larga autonomia? E dal punto di vista culturale?
Le principali attività economiche sono l’agricoltura e la pastorizia. Nonostante le sue ricchezze naturali (oro, petrolio…) resta un’area sottosviluppata a causa di precise scelte politiche dei vari governi centrali. Questo perché da sempre i curdi sono la “minoranza” più consistente e – nonostante i confini – la possibilità di un processo di riunificazione è sempre presente (da sottolineare quanto la situazione sia cambiata, in particolare dal punto di vista economico. Per esempio, l’economia del Kurdistan “iracheno” oggi è sicuramente ben più sviluppata e differenziata rispetto alla descrizione che ne faceva all’epoca, poco più di 20 anni fa, Sarajil Jalal nda).
Mantenendoli arretrati, bloccando lo sviluppo economico si scoraggia l’unificazione. Anche la cultura curda è stata molto perseguitata. Al tempo dello scià chi parlava curdo (a scuola, al lavoro…) doveva pagare una grossa multa. In questo modo si è impedito al Kurdistan di arrivare all’autogoverno. O almeno finora. In passato esistevano solo tre governi: l’Iran (comprendente allora l’Azerbaigian) la Russia e l’Impero ottomano. In Iran, anche se non c’erano forme di autogoverno curdo, c’era una buona convivenza, favorita dal comune retroterra culturale. Il capodanno curdo è lo stesso di quello persiano e entrambe le lingue derivano dal ceppo indo-iranico. C’era insomma una storia comune, la consuetudine di governare insieme dal tempo della dinastia dei medi. Si può dire che in passato all’interno dell’Iran l’oppressione era meno sentita. Contemporaneamente invece all’interno dell’impero ottomano c’erano state molte rivolte popolari. Come all’inizio del XX secolo per esempio. Avevamo sperato che i buoni rapporti con gli iraniani potessero restaurarsi alla caduta di Reza Pahlevi, ma poi il regime di Khomeini non volle saperne di accettare le nostre richieste.
Nel 1980 ci fu un’importante conferenza unitaria dei curdi dell’Iran. Chiedevamo democrazia e autonomia. La risposta furono i bombardamenti indiscriminati sulle città curde. Le località in mano alla resistenza vennero attaccate per mesi e mesi.

Pensi che anche in questo caso ci fossero ragioni di ordine internazionale?
Ci sono sempre. Il Kurdistan riveste una notevole importanza dal punto di vista della strategia militare. Non solo per l’Occidente. Nessuna delle due superpotenze [all’epoca Usa e Urss] poteva rischiare che – con la concessione dell’autonomia a una parte del Kurdistan – si accendessero anche le altre. E questo aiuta a comprendere il gioco delle alleanze nell’area. Ieri era lo scià a svolgere la funzione di gendarme per conto degli americani, oggi è la Turchia. L’Urss da parte sua contava sull’alleato iracheno.

Cosa puoi dirci sulle persecuzioni subite in Italia dai rifugiati curdi?
Il regime iracheno in particolare non ha mai sopportato l’attività dei dissidenti all’estero. La “gioventù Baas”, composta soprattutto da studenti, ha cercato di reprimere le attività degli studenti curdi. Più volte in occasione di conferenze e congressi ci sono stati attentati. Come a Francoforte dove agenti del partito Baas hanno piazzato una bomba. In Italia non si contano i casi di aggressioni fisiche: a Perugia, a Torino, a Venezia…e dovunque c’erano studenti curdi e iracheni. Il regime trovava sempre il modo di intervenire, o direttamente, fisicamente, o togliendo la possibilità di ricevere denaro da casa. Inoltre venivano represse le famiglie dei dissidenti.

E sulla situazione dei campi profughi?
A volte sono dei veri e propri lager. Qui i curdi vivono sottoposti a ogni genere di umiliazioni, in condizioni disumane. In teoria dovrebbero essere gestiti dalle organizzazioni internazionali, ma in realtà sono sottoposti ai vari governi, gestiti da funzionari statali. Intere famiglie vivono in una sola tenda, anche d’inverno. Manca il lavoro, l’assistenza. Abbondano solo i soprusi e le angherie. Come comunità curda in Italia cerchiamo di finanziare i più bisognosi inviando medicine, vestiti, denaro. Purtroppo in molti casi i nostri aiuti non sono nemmeno arrivati. Cerchiamo soprattutto di inviare denaro. Cambiando i dollari al mercato nero c’è una certa rivalutazione. Con 50 dollari una famiglia curda vive un mese. Attualmente manteniamo circa novanta famiglie, in Iran. Purtroppo dopo la guerra ci sono altri problemi; molte persone che spesso erano l’unico sostentamento della famiglia hanno perso il posto di lavoro. Un fatto molto grave è accaduto in un campo profughi della Turchia. Poiché le autorità sospettavano la presenza di guerriglieri tra i rifugiati, hanno fatto avvelenare il pane e l’acqua. Risultato: circa 200 morti. Soltanto Amnesty International ha denunciato questi fatti mentre la stampa occidentale ha preferito ignorarli. A.I. ha denunciato anche la tortura praticata sui bambini curdi per ottenere informazioni sui parenti. La situazione non è migliore in Iran dove la repressione è la stessa, durissima, per tutte le forze di opposizione. Recentemente sono stati catturati alcuni partigiani curdi feriti. Contro ogni convenzione internazionale, dato che non erano in grado di camminare, sono stati condotti davanti al plotone di esecuzione legati su una sedia a rotelle.

In conclusione, da cosa dipende questo vero e proprio accanimento contro il tuo popolo?
È la conseguenza del fatto che il Kurdistan è un territorio unitario, anche in assenza di Stato. Quindi come tale può dare oggettivamente un valido appoggio logistico alle opposizioni dei vari regimi presenti nell’area.

3) Cercando un altro Saddam (autunno 1991)

Prima le rivelazioni su “Monthly Statistics of Foreign Trade”; poi la conferma che il “Vincennes” era in missione di appoggio all’Iraq quando abbatté l’airbus iraniano (quasi trecento morti); infine le dichiarazioni di Hassan al Alawi (uno dei più prestigiosi oppositori del rais di Baghdad) sul ruolo degli Stati Uniti nella repressione della rivolta sciita, gettano una luce inquietante sulla sostanziale continuità dell’appoggio occidentale al repressivo regime iracheno.
 Merita senz’altro una rilettura la pubblicazione nel maggio 1991 di molti dati interessanti sui rapporti tra i paesi occidentali e Saddam, in pieno embargo ONU, da parte dell’OCSE, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico. Dalla lettura dei dati import-export dei paesi occidentali risultava che le esportazioni in Iraq tendevano ad azzerarsi più o meno dal mese di settembre 1990. Con l’eccezione della Germania (che ancora in novembre esportava per oltre due milioni di dollari) e della Gran Bretagna (in settembre vendeva merci all’Iraq per un valore di 2,1 milioni di dollari), pilastro della coalizione anti-Saddam.
 Niente di strano visto che lo stesso Major, a seguito dello scandalo della Bank of Credit and Commerce International, ha dovuto riconoscere di aver permesso la vendita a Baghdad di componenti per armi chimiche e nucleari, fino a tre giorni dopo l’invasione del Kuwait. Da ricordare che il “Financial Times” rincarò la dose sostenendo che la BCCI avrebbe continuato a finanziare acquisti di armi da parte dell’Iraq anche dopo quella data. Comunque nel complesso sembra che l’embargo sia riuscito (almeno nei confronti delle esportazioni legali); fin troppo riuscito, verrebbe da dire, visto che anche attualmente è assai difficile far arrivare viveri e medicinali per le popolazioni così duramente colpite.
 Ben diverso invece è il discorso delle importazioni occidentali dall’ Iraq, soprattutto del petrolio. In settembre (1990) sembrava quasi che l’embargo non fosse mai stato decretato; in modo particolare per gli Stati Uniti. Gli USA, principali esponenti della coalizione anti-Saddam, importarono da Baghdad per circa 470 milioni di dollari nell’agosto 1990 e per 312 milioni di dollari a settembre. La stessa cosa vale per il Giappone che in settembre comprava petrolio iracheno per quasi 40 milioni di dollari.
 Sempre nel settembre 1990, la Comunità Europea ha importato dall’Iraq per ben 147 milioni di dollari. Ma la CEE non si fermava qui: comprava per 12 milioni di dollari a ottobre, per 2 a novembre e per oltre 16 milioni di dollari nel dicembre 1990. Sempre in ottobre la Gran Bretagna importava per 9 milioni di dollari, la Germania per 2. A dicembre importavano la Spagna (9 milioni di dollari), la Grecia e l’Italia (2,7 milioni di dollari).
 Queste cifre, per quanto inferiori ai valori precedenti l’embargo, rappresentano notevoli entrate di valuta, soprattutto per un paese sotto “assedio economico”. Di sicuro non vennero usate per acquistare viveri per la popolazione. Indicazioni in tal senso vengono dalle numerose inchieste tenute in Italia e altrove (v. fra tutte quella sulla filiale di Atlanta della Banca nazionale del lavoro) sulla prosecuzione di rapporti tra aziende occidentali e vari enti iracheni per la fornitura di materiali impiegabili in laboratori di ricerca chimica e nucleare. È quindi ben più di un sospetto la convinzione che, anche durante il conflitto, tra il regime di Baghdad e i suoi nemici-soci in affari i legami più o meno sotterranei siano rimasti numerosi e solidi. Del resto Saddam era notoriamente in buona parte una creatura dell’Occidente. Ne è stata ulteriore conferma l’ammissione che l’abbattimento nel 1988 dell’Airbus iraniano non fu “un tragico errore” (come aveva invece sempre sostenuto il Pentagono). L’episodio risaliva a due anni prima della Guerra del Golfo, ma la verità è venuta fuori soltanto nel 1991.
 Come hanno documentato ABC e “Newsweek” (anche se dopo tanto tempo la notizia non ha suscitato particolare sdegno) l’incrociatore lanciamissili Vincennes, quando abbatté l’aereo civile iraniano con i suoi 290 passeggeri, era nelle acque territoriali iraniane e non, come avevano sempre sostenuto gli Usa, in quelle internazionali. Alla fine, nonostante le bugie di Reagan, di Bush (allora vicepresidente) e dei vari capi di stato maggiore, la verità è saltata fuori. Assieme ad altre unità navali l’incrociatore partecipava a una operazione segreta contro la marina iraniana, in appoggio all’Iraq (e a quel Saddam che proprio pochi mesi prima aveva anche compiuto l’ennesimo efferato massacro contro le popolazioni curde, grazie anche all’armamento occidentale). 
La conferma è venuta da una fonte insospettabile come l’ex ammiraglio Crowe. Val la pena di ricordare l’episodio, così come lo ricostruì “Newsweek”. Quel giorno l’incrociatore Vincennes e un’altra nave da guerra americana, il Montgomery, impegnarono battaglia contro alcuni scafi iraniani (motovedette, presumibilmente). Il pretesto (risultato poi fasullo) fu di essere stati chiamati da un SOS di un mercantile pakistano (che smentì categoricamente) e da uno libanese (risultato poi inesistente). Durante la battaglia che si svolgeva in acque territoriali iraniane si alzò in volo l’Airbus civile. Il Comandante del Vincennes avrebbe potuto facilmente informarsi sulla natura del velivolo, grazie ai numerosi caccia americani presenti nell’area ma, ritenendosi “vittima” di un attacco iraniano, ordinò il lancio dei missili. Come ha sostenuto “Newsweek” questa sezione della task force statunitense rientrava in un piano per favorire la vittoria irachena, nonostante gli Usa si dichiarassero neutrali. L’anno prima un caccia iracheno aveva scambiato la fregata americana Stark per una nave iraniana e l’aveva attaccata. Ben trentasette marinai americani avevano perso la vita, ma gli Stati Uniti avevano accettato prontamente le scuse di Saddam; anzi per evitare altri spiacevoli incidenti da quel momento il Pentagono aveva distaccato alcuni alti ufficiali in Iraq.
 Ha dichiarato Ted Koppel (della televisione ABC): “Le unità da guerra USA nel Golfo Persico fecero da spia e da alleati agli iracheni” violando anche le leggi passate dal Congresso su un intervento nel conflitto Iran-Iraq. Se a questo si aggiunge quanto riportato dal “Los Angeles Times” e cioè che almeno dal 1985 Reagan e Bush erano ben informati sui progetti di Saddam per trasformare l’Iraq in una potenza nucleare, si può ben capire come sia lecito considerare il regime iracheno, sostanzialmente, se non proprio una creatura un buon alleato dell’Occidente. Un buon alleato che avrebbe potuto impunemente continuare a reprimere e massacrare curdi e iracheni, se solo avesse rispettato la parte assegnatagli nello scacchiere mediorientale (quella del “cane da guardia”).
 Una spiegazione di questa apparente schizofrenia è stata indirettamente fornita dalle dichiarazioni di Hassan al Alawi, già consigliere di Saddam e oggi uno dei più prestigiosi esponenti dell’opposizione democratica irachena. Dal suo esilio ha messo in evidenza come l’obiettivo degli USA non sia la democrazia in Iraq ma soltanto la eventuale destituzione di Saddam. Il regime in quanto tale viene visto ancora come una garanzia per gli interessi occidentali nell’area. 
Hassan al Alawi conosce bene il regime baasista: dal 1975 al 1981 è stato Consigliere per l’Informazione e la Propaganda, in stretto rapporto con Saddam. Poi, tredici anni fa, la fuga. Dichiara senza mezzi termini che gli USA non hanno nessuna intenzione di sostenere le opposizioni per abbattere il rais e istituire un democrazia in Iraq: “Non c’è alcun aiuto americano al fronte interno. Gli Usa non hanno dato niente ai ribelli. Tutti i paesi limitrofi all’Iraq hanno ricevuto l’ordine di non far passare un solo oppositore iracheno”. Nei campi di Rafha e di Al Artaweia (Arabia Saudita) ci sarebbero più di 50.000 oppositori, tutta gente disposta a recarsi in Iraq per combattere contro Saddam, ma non possono muoversi dagli accampamenti. Gli Stati Uniti vedrebbero invece volentieri una sostituzione dell’uomo al potere, mantenendo sia il regime che il partito unico (Baas). Insieme ai servizi segreti e agli organi della repressione interna che, in quanto garanti di stabilità, resterebbero intatti e funzionanti.
 Ciò che gli americani temono soprattutto è una autentica rivolta popolare come quella dei curdi al nord o degli sciiti a sud. In proposito Alawi riporta un fatto gravissimo. Quando, dopo la guerra del Golfo, Saddam stava rischiando di uscire sconfitto dal confronto con l’“intifada” sciita, gli Americani restituirono all’esercito iracheno un gran numero di elicotteri e carri armati (molti di fabbricazione italiana, rispettivamente dell’Agusta e della Simmel di Treviso) che erano stati catturati nella zona di Al Nassiriya e nel sud dell’Iraq. “Senza questo intervento degli Usa in sostegno di Saddam la rivolta popolare aveva buone probabilità di vincere”. La notizia si commenta da sola, ma non posso fare a meno di cogliere un’analogia con un episodio analogo del secolo scorso. Quando i Prussiani, nel 1870, avevano ormai sconfitto l’esercito francese e catturato l’Imperatore Napoleone III, temendo il “contagio” della grandiosa sollevazione popolare passata alla storia come “La Comune” si affrettarono a liberare e riarmare migliaia di soldati francesi perché “ristabilissero l’ordine” a Parigi. Sappiamo con quanta ferocia le truppe eseguirono la consegna. Evidentemente, al di là delle temporanee inimicizie (dovute soprattutto alla concorrenza economica, alla smania di potere…), i potenti finiscono sempre per trovare un accordo e spartirsi il “bottino”. Il loro vero, autentico nemico restano quei diseredati, umiliati e offesi, che cercano in qualche modo di scuotersi di dosso il giogo dell’oppressione.

4) Curdi contro curdi (marzo 1993)

I recenti scontri fratricidi rendono ancora più drammatica la situazione del popolo curdo. Da una parte sono schierati i partiti curdi iracheni che costituiscono il Fronte curdo (PDK e PUK, generalmente definiti “moderati” dalla stampa occidentale), dall’altra gli “estremisti di sinistra” del PKK in lotta con lo stato turco (e quindi automaticamente malvisti dall’Occidente).
Protesi e impegnati nel convincere le potenze occidentali ad affidare loro il governo autonomo del Kurdistan iracheno, il PDK di Masoud Barzani e il PUK di Jalal Talabani sembrano disposti ad abbandonare a un destino di oppressione i loro fratelli in territorio turco, quei guerriglieri del PKK (Partiya Karkeren Kurdistan, Partito dei lavoratori del Kurdistan, di ispirazione marxista) che scendono dai monti per colpire caserme e posti di polizia nella regione tra Dijarbakir e il confine iraniano. Ma un’altra guerra, questa fratricida, sta mietendo vittime tra la popolazione curda sulle montagne lungo il confine turco-iracheno, nelle contrade intorno a Shranish. Antiche incomprensioni vengono alimentate, oltre che dalle diverse strategie nella lotta per l’autodeterminazione, da precisi interessi economici legati al petrolio. Appare evidente come la situazione sia precipitata per “effetto collaterale” della Guerra del Golfo. Tra gli eventi determinanti, l’insurrezione dei curdi nell’Iraq settentrionale e la copertura anti-irachena fornita dall’Occidente all’interno di una fascia, larga decine di chilometri, lungo i confini turco e iraniano, dove le truppe irachene non esercitano più alcun controllo. Ora è l’amministrazione curda che riscuote i pedaggi dei Tir turchi. Quelli che portano derrate alimentari a Bagdad e soprattutto quelli che ritornano carichi di benzina. Migliaia di camion giornalieri, al momento la principale fonte di guadagno per i curdi dell’Iraq. Di diverso avviso i curdi sotto l’amministrazione di Ankara che applicano sistematicamente il sabotaggio in chiave anti-turca. Basta e avanza per trasformare la contrapposizione tra Fronte curdo (PDK e PUK) e PKK da ideologica a economica. Se il Fronte vuole garantire il traffico dei camion, in cambio di una tassa per il transito sul territorio curdo, il PKK non intende perdere questa opportunità di danneggiare l’economia della Turchia. Anche se le truppe di Saddam controllano ancora alcune delle principali città curde (Mosul e Kirkuk), nei territori autonomi il Fronte è riuscito a ripristinare elettricità, telefoni, servizi radiotelevisivi e riaprire l’Università di Arbil. Qui la popolazione vive sicuramente una situazione migliore dei 25 milioni di curdi sottoposti al governo turco. Nonostante le recenti aperture offerte da Ankara (tra cui una possibile depenalizzazione dell’uso della lingua curda), il Kurdistan “turco” resta in condizione di sottosviluppo e la disoccupazione rimane alta. Anche le grandiose (e devastanti a livello ambientale) opere pubbliche recentemente avviate non sembrano destinate a portare alcun miglioramento. La manodopera proviene da altre parti della Turchia in quanto per le autorità “le opere pubbliche devono servire a ridurre la disoccupazione dei veri turchi”. E la conflittualità sociale e politica si mantiene alta. Recentemente si sono registrati numerosi scioperi (anche a sostegno del PKK) e sulle strade non si contano più i posti di blocco dei militari. In questa guerra a bassa intensità, spesso sono poi i guerriglieri che interrompono il traffico stradale con azioni propagandistiche.
Altra fonte di conflitto interno tra curdi al di qua e al di la dei confini, le ritirate strategiche della guerriglia. Dopo aver colpito in territorio turco, i combattenti curdi si rifugiano nel nord dell’Iraq, spesso inseguiti dall’aviazione turca che sconfina e bombarda i villaggi curdi in territorio iracheno. E l’aviazione statunitense, sempre pronta a intervenire contro ogni genere di velivolo iracheno, non sembra disposta a muovere un dito per impedire le azioni di rappresaglia dell’alleato turco. Come se non bastasse, il Fronte curdo si è accordato con il governo turco per respingere i guerriglieri del PKK, ricacciandoli sotto il tiro delle artiglierie turche. Il PKK ha accusato pubblicamente PDK e PUK, tradizionalmente filo-occidentali, di “tradimento nei confronti dei fratelli curdi della Turchia, in cambio del benestare da parte di Usa e Gran Bretagna a un Kurdistan autonomo entro i confini iracheni, un esperimento minimalista e compiacente verso gli occidentali”. A Barzani e Talabani il PKK ha rinfacciato di “aver rinunciato al grande sogno di un Kurdistan indipendente, dove i curdi di Turchia, dell’Iraq, dell’Iran e della Siria possano unire il loro destino”. Da parte loro i due leader “moderati” rinfacciano al PKK di “aver perso il senso della realtà sprofondando in un massimalismo senza sbocchi, da disperati”. Sicuramente i peshmerga (i combattenti del Fronte) sono superiori come numero ai guerriglieri del PKK (anche perché non più impegnati contro l’esercito iracheno, grazie alla vigilanza aerea statunitense), ma questi ultimi appaiono più combattivi e addestrati. Non sarà una cosa semplice farli “rientrare nei ranghi”. Inevitabile comunque chiedersi a chi può giovare questa guerra civile tra curdi.

5) Storia del PKK e partiti curdi in Turchia

Verso la fine degli anni sessanta, complice il clima di rivolta che si aggirava per l’intero pianeta, l’allora studente in scienze politiche all’università di Ankara, il curdo Abdullah Ocalan e alcuni studenti turchi decisero di prepararsi alla lotta armata, con un programma politico di sinistra che però non contemplava la questione curda. Un colpo di Stato nel 1971 stroncò sul nascere le loro velleità: arresti quotidiani e uccisioni in massa (molti saranno impiccati) ridussero ai minimi termini l’area legata alla sinistra radicale turca. Anche Abdullah Ocalan viene arrestato; trascorre in carcere sette mesi durante i quali valorizza la sua identità curda approfondendo la storia della sua nazione. Quando esce, insieme a due turchi, Haki Karer e Kemal Pir, promuove una conferenza ad Ankara, propedeutica ad un successivo seminario ed esordisce affermando che, all’interno dello Stato nazione turco, sono presenti due nazionalità: quella turca e quella curda.
 I tre danno vita ad un movimento che fino al ‘75 si impegna nello studio della storia curda, nella formazione politica dei militanti e del loro inquadramento nell’organizzazione. Le autorità turche seguono con attenzione il movimento; di contro, le organizzazioni di sinistra turche negano ogni sostegno politico e finanziario al nuovo movimento, nell’errata convinzione che i curdi avessero ormai perso coscienza della loro specificità etno-culturale. Così, nel 1975, tra i 40 e i 50 studenti decidono di rientrare in Kurdistan sparpagliandosi in 2-3 per città e paesi. I risultati non si fanno attendere e dopo circa tre anni, nel ‘78, la popolazione già li sosteneva apertamente. Nel ‘77, preoccupato per quello che stava avvenendo, il governo turco fa assassinare dai servizi segreti un esponente turco del movimento. Il messaggio è evidente: tutti i militanti sono in pericolo di morte. Il ‘78 vede la nascita del PKK e la repressione si fa più brutale e molti civili vengono massacrati dagli squadroni della morte. È storicamente confermato che colpo di Stato del 1980 venne attuato per colpire innanzitutto i curdi e, tangenzialmente, le organizzazioni della sinistra turca. Le autorità sono a conoscenza del fatto che il PKK sta allestendo basi per praticare la guerriglia e migliaia di militanti del PKK vengono arrestati.
 Nel 1982 la lotta si estende nelle carceri, condotta da 7-8mila prigionieri politici. Solo 200 militanti, tra cui Ocalan, sfuggono alla repressione spostandosi in Libano per addestrarsi e organizzare la lotta armata. Intanto nel Kurdistan la repressione prosegue ad alti livelli di intensità. Libri scritti in curdo vengono bruciati, la popolazione è sottoposta quotidianamente a minacce e vessazioni; ma è sui numerosi prigionieri che si concentra la brutalità del governo che cerca, invano, di innescare dinamiche di “pentimento” e delazione.
 Alcuni fondatori del partito vengono rinchiusi nel famigerato carcere di Diyarbakir. Durante il capodanno curdo –Newroz– che cade il 21 marzo e che è stato vietato negli anni Venti dalla repubblica turca, Haki Karer, si dà fuoco per lanciare un segnale alla popolazione. Il medesimo gesto estremo verrà compiuto, in maggio, da altri quattro dirigenti. Un mese dopo, sempre nel carcere di Diyarbakir, Kemal Pir muore dopo 65 giorni di sciopero della fame, seguito da altri quattro militanti.
 Per tutto l’82 continua la preparazione alla guerriglia presso i campi palestinesi che offrono ai 200 militanti del PKK la possibilità di addestrarsi. Il PKK contraccambia partecipando alla guerra contro gli israeliani nella quale rimangono uccisi 20 curdi. Nel 1983 Ocalan indice la prima conferenza con la quale annuncia l’intenzione di tornare nel Kurdistan insieme a 200 guerriglieri per intraprendere la lotta armata, considerata come l’unica possibilità contro la politica etnocida del governo turco.
 Il rientro in patria si accompagna ad un’azione spettacolare: un’intera cittadina viene conquistata e l’esercito turco, sconfitto, è costretto ad abbandonare il campo. Negli anni ‘84-’85 si avverte la necessità di creare un fronte che organizzi la popolazione e renda politicamente più efficace l’azione del PKK stesso. Nasce così l’ERNK (Eniya Rizgariya Netewa Kurdistan, il Fronte di Liberazione Nazionale del Kurdistan), organizzazione interclassista di intellettuali, studenti, operai, rappresentativa di ogni settore della società curda, un fronte ampio che gode di un notevole sostegno di massa e che opera anche fuori dai confini del Kurdistan per far conoscere la lotta di autodeterminazione del popolo curdo.
 Molti militanti si stabiliscono temporaneamente all’estero dove, imparando la lingua del posto, fanno da cassa di risonanza a quanto avviene in Kurdistan; in questo modo la cortina del silenzio imposta dal governo turco viene contrastata e le notizie date quasi in tempo reale.
Il 24 giugno 1993 decine di militanti del PKK attaccano e occupano contemporaneamente i consolati turchi in Germania: a Monaco (dove tengono in ostaggio una ventina di persone), Essen, Munster, Stoccarda e Hannover. A Berlino, Colonia, Francoforte e Dortmund colpiscono sedi di banche, uffici turistici e la Turkisch Airlines. La sede della compagnia aerea turca viene attaccata anche a Lione, mentre un gruppo di curdi irrompe nel consolato turco di Marsiglia. Altre azioni del PKK avvengono in Svezia e Danimarca contro uffici turistici. In Svizzera, dopo che l’ambasciata turca di Berna è stata circondata da una folla di curdi, un funzionario apre il fuoco uccidendo un manifestante. Dalle pagine del Corriere della sera, in un’intervista, Abdullah Ocalan minaccia di “colpire in Turchia, nelle località turistiche; colpiremo anche gli obiettivi turchi nel cuore dell’Europa”. Nell’estate del 1993 vengono sequestrati dai guerriglieri alcuni turisti europei (inglesi, francesi, tedeschi, neozelandesi, italiani, svizzeri, austriaci..) trovati in territorio curdo “senza lasciapassare del PKK”. Verranno presto tutti rilasciati, tranne un austriaco di cui non si avranno più notizie. Il 4 novembre 1993, nuova serie di attacchi agli obiettivi turchi in Germania. Viene colpito anche un centro commerciale di Wiesbaden e una persona perde la vita nell’incendio provocato da una molotov. Contemporaneamente, vengono assaliti i consolati turchi di Hannover, Stoccarda, Dusseldorf, Colonia e Karlsruhe. Colpita anche una sede del giornale turco Hurriyet a Neu Isenburg. Altre manifestazioni vengono organizzate a Copenaghen, Londra, Vienna, Zurigo, Ginevra, Francoforte, Strasburgo…
Immediate le ritorsioni del primo ministro turco Tansu Ciller che invia nuovamente l’esercito nelle zone curde.
Nel dicembre 1996 l’ERNK poteva affermare senza timore di smentite che “la guerra dura ormai da 12 anni (dall’inizio della lotta armata nel 1984, nda), smentendo tutte le previsioni fatte, di tempo in tempo, dai vari governi turchi che, confondendo il desiderio con la realtà, ci danno regolarmente per spacciati nell’arco di un paio di mesi, quando non di settimane. L’ARGK (Esercito Popolare di Liberazione del Kurdistan) – continuava il comunicato – può contare su 50mila uomini e donne e un sostegno enorme tra la popolazione; controlla le montagne e anche alcune città dove l’esercito turco non può mettere piede ed è riuscito a fermare, con un contrattacco, un’offensiva di 10mila soldati turchi, ai primi di novembre 1996, sul confine turco-irakeno”. 
Sempre secondo l’ERNK “la lotta armata, oltre a svolgere un ruolo insostituibile di autodifesa, serve a mantenere viva la coscienza identitaria ed è uno strumento per aprire il dialogo e arrivare ad una soluzione negoziata del conflitto. È dovere di ogni popolo combattere, anche con le armi se necessario, per difendere i propri diritti e la democrazia. 
Accanto all’esercito abbiamo creato tutte le strutture di cui uno Stato ha bisogno per rappresentare gli interessi del popolo. Non è stato un lavoro facile, ostacolato dalla repressione turca e dalla società feudale che non ha potuto modernizzarsi, come per altre popolazioni, proprio a causa della mancanza di autodeterminazione che ha caratterizzato gran parte della storia curda. Ora il popolo è pronto; il PKK ha lavorato perché l’obsoleta logica feudale fosse superata anche sul piano – altrettanto fondamentale – della mentalità. Grossi passi avanti sono stati fatti”.
Ma, anche in questi momenti di forza del movimento di liberazione, i curdi non escludono le possibilità di dialogo e soluzione politica, anzi. “È nostra intenzione – proseguiva il comunicato dell’ERNK del dicembre 1996 – aprire il dialogo con Ankara ed è in questa prospettiva che abbiamo per ben due volte proclamato il cessate il fuoco unilaterale. Il primo è durato 83 giorni a partire dal marzo 1993, il secondo quasi 9 mesi dal dicembre 1995 al 15 agosto ‘96. In entrambe le occasioni non c’è stato alcun segnale positivo da parte del governo turco, che ha anzi risposto continuando a bruciare villaggi e ad operare massacri tra la popolazione”. All’epoca era convinzione di molti osservatori che all’interno dello stato turco più di un politico fosse favorevole ad una soluzione negoziata del conflitto. Ma poi prevalse la paura di incorrere nella vendetta dei militari.
 Dopo la fine del secondo cessate il fuoco (agosto 1996), un attacco in grande stile della guerriglia curda contro l’esercito turco aveva portato alla liberazione di molte zone poi controllate dall’ARGK. Inoltre la lotta si andava estendendo alle metropoli turche. Con manifestazioni e propaganda politica tra la popolazione, nelle strade e nelle piazze grazie anche alla collaborazione di una parte della sinistra turca e di organizzazioni pro curde.
Il PKK dichiarava di lottare “per costituire una federazione democratica garante dell’unità del popolo curdo e dei diritti delle minoranze presenti sul territorio; fautori di un socialismo democratico e popolare, auspichiamo un modello di democrazia partecipativa dove non sia negata la libertà personale ma tutti abbiano la possibilità di intervenire nelle scelte che più direttamente li riguardano.
 Siamo anticapitalisti, ma anche contrari al socialismo reale così come si è realizzato nell’ex URSS”. Sull’argomento lo stesso Abdullah Ocalan aveva scritto un libro in cui criticava profondamente un sistema che “aveva dimenticato le necessità della popolazione impedendo la realizzazione di un’autentica democrazia popolare”.
 Quanto all’analisi marxista, riteneva che “può essere efficace in determinate circostanze ma deve essere sempre verificata nella realtà che spesso smentisce perfette analisi ideologiche”. Affermazioni queste che risalgono alla prima metà degli anni novanta. Sempre negli anni novanta, Ocalan aveva mostrato vivo interesse per il pensiero libertario di Murray Bookchin. In seguito, anche se segregato in una cella, il Mandela curdo ha voluto approfondire le teorie dell’autore di L’ecologia della libertà e consigliarne la lettura e la messa in pratica ai militanti del PKK. La sua richiesta di un incontro con il pensatore anarchico non si è purtroppo realizzata. Sia per gli ostacoli messi in campo dall’amministrazione carceraria che per le precarie condizioni di salute di Bookchin (deceduto qualche tempo dopo) che aveva espresso pubblicamente la sua ammirazione per il leader curdo imprigionato.
Schierato su decise posizioni anti-imperialiste, il PKK non ha mai fatto mistero della sua ostilità nei confronti della Nato. Anche se “non è questa la nostra preoccupazione principale, visto che l’imperialismo aiuterebbe ugualmente la Turchia per tutelare i propri interessi che in quest’area strategica sono decisamente rilevanti”. Per poter aderire all’Alleanza atlantica, la Turchia aveva dovuto sottostare ad alcune condizioni tra le quali quella di partecipare alla guerra di Corea. Ma in realtà il governo turco inviò solo curdi che in migliaia persero la vita. Con la fine della guerra fredda, la Turchia assumeva una posizione strategica per gli Stati Uniti e i loro alleati; escludendo Israele, infatti, la presenza statunitense nella regione era osteggiata da vari paesi, anche da quelli nemici tra loro, come l’Iraq e l’Iran.
 Quindi è facilmente intuibile che “se non intervenisse la Nato, interverrebbero direttamente gli Stati Uniti o la Germania”. Appare evidente come negli ultimi anni la Turchia abbia sostituito il ruolo ricoperto in passato da Saddam, quello di “cane da guardia dell’Occidente”. La Nato ha rappresentato un fondamentale sostegno finanziario per la Turchia: nel solo anno 1995 venivano stanziati 7 miliardi di dollari americani per spese militari (poi utilizzati quasi interamente in funzione anti PKK), arrivando nel 1996 a 10 miliardi. Una vera escalation, con gran parte della somma coperta dall’organizzazione atlantica. Ma il fatto che gli Stati Uniti usino la Turchia non significa che la Turchia sia automaticamente più forte per questo. Talvolta l’appartenenza alla Nato ha comportato anche qualche problema per Ankara. Il 17 novembre 1996, a Parigi, i delegati turchi alla riunione annuale della Delegazione interparlamentare della Nato avevano avuto una brutta sorpresa. La delegazione italiana (in particolare il presidente della commissione Esteri del Senato, Giangiacomo Migone) poneva la questione della vicenda curda e imponeva di discuterne nella riunione nonostante le proteste di Cahit Kavak, deputato del partito turco Anap. Alle sue dichiarazioni – “i curdi non esistono, esiste il terrorismo del PKK” – si rispondeva che “il PKK è comunque parte del popolo curdo”. La conclusione è stata che una delegazione della Nato sarebbe partita quanto prima per verificare la situazione della popolazione curda in Turchia. Da parte sua PKK aveva più volte messo in guardia i paesi aderenti alla Nato per la loro politica di sostegno al regime repressivo.
Nel decennio precedente alla cattura di Ocalan (1999), nei territori liberati si realizzarono, pur tra mille difficoltà, forme di autogoverno della popolazione curda. “A partire dal 1990”, ci spiegava Ahmet Yaman, “quando abbiamo preso il controllo delle montagne, i tribunali si sono svuotati perché la partecipazione popolare, ampia in ogni settore, riduceva al minimo i contrasti, venendo ogni controversia chiarita all’origine.
 La milizia popolare che abbiamo costituito, sostituendo le vecchie strutture di repressione turche, è composta da milioni di curdi e opera attivamente sul territorio pronta ad aiutare la popolazione e a raccoglierne le istanze”.

Partiti curdi in Turchia

Per quanto riguarda i partiti politici a base curda (spesso definiti, sbrigativamente, la “vetrina politica” del PKK), nel 1991 era sorto l’HEP (Partito del Lavoro) in breve tempo messo fuori legge. La stessa sorte toccò al DEP (Partito della Democrazia) fondato nel 1994. Ai suoi 22 deputati venne negata l’immunità parlamentare. Costretti a fuggire all’estero, davano vita al Parlamento curdo in esilio. Emblematico il caso della parlamentare Leyla Zana, condannata a 15 anni insieme ad altri deputati per reati di opinione. In seguito, sempre nel 1994, era nato l’HADEP (Partito della Democrazia del Popolo) con l’obiettivo di “aprire il dialogo con proposte di pace”, le stesse che proponeva il PKK. Sicuramente con l’HADEP il governo turco si è lasciato sfuggire una possibilità storica. Quella di un valido interlocutore con cui avviare trattative per una soluzione politica; un’opportunità alternativa al dialogo diretto con il PKK, forse inaccettabile per l’opinione pubblica turca.
 Con le elezioni del dicembre 1995, l’HADEP diventava il primo partito nel Kurdistan turco (53% dei voti). Ma, a causa dello sbarramento del 10% istituito ad hoc, non poteva essere rappresentato in Turchia. Su HADEP, oltre alle accuse di terrorismo, si è pesantemente abbattuta la violenza di Stato: distruzione di sedi, arresti, decine di attivisti assassinati. Calcolando anche quelle di HEP e DEP (i predecessori dell’HADEP) le vittime furono oltre un centinaio tra il 1990 e il 1996. Migliaia i casi di tortura.
 Nel luglio 1996, più di 30mila persone hanno partecipato ad Ankara al congresso del partito, testimoniando un considerevole appoggio popolare. Per ritorsione il governo turco avviava un procedimento per mettere anche questo partito curdo fuori legge. La terza udienza al processo aperto dalla Corte di Sicurezza dello Stato contro l’HADEP si è tenuta il 22 novembre 1996. Mentre due giovani militanti, accusati di aver ammainato la bandiera turca durante il congresso del partito, rischiavano la condanna a morte, per 43 dirigenti dell’HADEP, tra cui il presidente Murat Bozlac, venivano richieste condanne fino a 22 anni di carcere (per “separatismo” e legami con il PKK). Come da manuale, rimanevano invece sconosciuti e in libertà gli assassini di 4 delegati curdi, uccisi mentre facevano ritorno a casa all’indomani della violenta irruzione della polizia nella sede del congresso.

6) Sciopero della fame del 1996 (dicembre 1996)

Pur nel silenzio pressoché generale che circonda la questione dei diritti umani in Turchia (e quella curda in particolare), lo sciopero della fame dei prigionieri nell’estate 1996 ha goduto di qualche risalto sui media. Anche in questa circostanza furono i prigionieri curdi a iniziare lo sciopero della fame (27 marzo ‘96) con richieste espresse in 24 punti. Diecimila militanti prigionieri si davano il cambio ogni 10 giorni. Poi, verso aprile-maggio, aderirono anche i prigionieri della sinistra turca, e alcune di queste organizzazioni decisero di portarlo avanti fino alle estreme conseguenze. Morirono in 12, tra turchi e curdi: Altan Berdan Kerimgiller, Ilginc Oskeskin, Ali Ayata, Huseyin Demircioglu, Aygun Ugur, Mujdat Yanat, Hicabi Kucuk, Yemliha Kaya, Ayce Idil Erkmen, Osman Akgun, Hayati Can, Tahsin Yilmaz.
In luglio il capo del governo Necmettin Erbakan aveva minacciato varie volte di far intervenire l’esercito nelle carceri. Tuttavia, forse temendo la condanna dell’opinione pubblica mondiale, si vedeva costretto a fare alcune concessioni. Si arrivava ad un accordo che, pur non contemplando la totalità delle richieste, prevedeva migliori condizioni per tutti i prigionieri e la fine del sistema carcerario repressivo. Eppure, benché minimi –ad esempio non c’era quello sullo statuto di prigionieri di guerra– i punti dell’accordo non vennero rispettati.
 Lo sciopero era quindi ripreso, quasi senza soluzione di continuità con quello appena concluso, condotto da curdi e conclusosi con la morte di altri quattro militanti.
 Da settembre, i prigionieri curdi stavano preparando una ulteriore mobilitazione nelle carceri; il governo, venutone a conoscenza, il 22 settembre 1996 ha sferrato un attacco contro una quarantina di militanti ammassati nella stessa cella nel carcere di Amed (Diyarbakir): 14 sono stati uccisi (a sprangate, secondo l’organizzazione umanitaria Inshan Haklari Demegi). I 23 feriti sopravvissuti all’aggressione sono poi stati incriminati per “rivolta contro lo Stato” e rischiano la pena di morte. Dato che lo Stato si era rimangiato le concessioni fatte ai prigionieri, i movimenti di opposizione turchi e curdi avevano indetto per il 27 settembre una giornata di protesta in tutto il territorio dello Stato. Era quindi apparso evidente che con l’attacco ai prigionieri del 22 settembre, l’esercito aveva voluto, in un colpo solo, anticipare la manifestazione e stroncare la ribellione nelle carceri.
Vanno segnalate alcune coincidenze che riguardano il ruolo del nostro Paese in Medio oriente. Ai primi di settembre, poco dopo la sospensione dello sciopero della fame, Romano Prodi era stato il primo capo di stato occidentale a recarsi in Turchia per incontrare Erbakan. Costui, forte anche della riconquistata “rispettabilità” di fronte agli alleati occidentali, potrebbe aver colto l’occasione per mettere in pratica quanto aveva minacciato in luglio. Successivamente (ottobre 1996), Suleyman Demirel, presidente della Turchia, veniva ricevuto da Rutelli, sindaco di Roma, e da Cacciari, sindaco di Venezia. Attualmente l’Italia è il terzo partner commerciale di Ankara. Sia la visita di Prodi in Turchia che quella di Demirel in Italia, hanno ridato fiato e credibilità internazionale al regime turco, permettendogli di agire contro i prigionieri e contro l’opposizione. Il 16 ottobre si registrava una nuova aggressione della polizia speciale a Diyarbakir, stavolta in tribunale. Sette detenute politiche sono state assalite e ferite mentre deponevano. Riportate in cella, non sono state ricoverate in infermeria, nemmeno di fronte alle proteste delle altre detenute contro le quali si sono scagliati i secondini. Sulle prigioniere sono stati riscontrati segni evidenti delle percosse: gambe spezzate, ecchimosi agli occhi, emorragie interne, fratture del setto nasale. A due prigioniere sono stati danneggiati i reni in modo irreparabile. L’IHD (Associazione turca per i diritti umani) ha denunciato la “libertà d’azione data esplicitamente e personalmente dal ministro della giustizia Sevket Kazan alle squadre speciali della polizia”. Nonostante la durissima repressione (che solo negli ultimi tre mesi ha fatto una trentina di vittime) i prigionieri politici non hanno mai smesso di lottare. Nuovi scioperi della fame e altre iniziative di protesta sono state avviate in tutti gli istituti carcerari (a Diyarbakir, Elazig, Erzurum, Aydin, Konya, Amosya, Ordu…) dopo che il governo non aveva rispettato gli accordi per un allentamento del regime durissimo attualmente in vigore. Un terzo sciopero della fame si era concluso il 14 novembre 1996, con un accordo simile al precedente, ma nuovamente disatteso e seguito dalla repressione. Particolarmente grave la situazione nel carcere di Aydin, dove alcuni prigionieri curdi (Ali Kaya, Faysal Dal, Karim Karatas, Muslum Ogur, Omer Uyun) sono stati ricoverati con emorragie gastriche e uno, Remzi Ozcicek, con gravi problemi ai reni (come conseguenza del prolungato digiuno). I portavoce dei prigionieri curdi, Yasar Aslon e Remzi Tunrikulu, hanno comunque dichiarato che le lotte continueranno fino a quando nelle carceri turche proseguirà la pratica della tortura e le uccisioni di prigionieri. Nel dicembre 1996 altre due prigioniere politiche curde si sono suicidate per protesta, impiccandosi.

7) Il ruolo della mafia turca nella “guerra sporca” contro i curdi (dicembre 1996)

Da tempo si parlava della significativa presenza della mafia all’interno delle istituzioni statali turche. Una conferma è venuta il 4 novembre 1996, quando in un incidente stradale presso Bursa, due uomini sono morti e uno è rimasto ferito. Abdullah Catli, morto nell’incidente, nel 1977 si era reso responsabile dell’uccisione di sette militanti del Partito dei lavoratori (un’organizzazione della sinistra turca); membro dei Lupi Grigi, fece evadere dal carcere Alì Agca a cui fornì le armi per l’attentato al Papa. Arrestato nel 1985 a Parigi per traffico di droga, estradato in Svizzera, riuscì ad evadere dopo un anno. Da undici anni era inseguito da mandato di cattura internazionale.
 L’altro morto nell’incidente era Hussein Kocadag. Addestrato negli USA, ex vice capo della polizia di Istanbul (quando ne era a capo l’attuale ministro dell’Interno Mehmet Agar, suo intimo amico), poi direttore dell’Accademia di Polizia, organizzatore delle squadre speciali di polizia che operano in Kurdistan.
 Il ferito si chiama Sedat Bucak ed è conosciuto come capo dell’omonimo clan nell’area di Siverek, dove dirige la milizia filogovernativa “Guardiani di villaggio”. È anche deputato del partito islamico di governo Dyp; fra il ‘93 e il ‘94 la sua milizia si è resa responsabile di decine di attentati, incendi, sparizioni e aggressioni ai danni di militanti, dirigenti e deputati del partito curdo Dep e sindacalisti.
Dopo la divulgazione della notizia dell’incidente, lo scandalo è stato enorme. Soprattutto quando si è saputo che il noto trafficante, ricercato a livello internazionale, viaggiava con documenti e lasciapassare rilasciati dalla polizia. “Questo incidente”, è il commento di un amico curdo raggiunto telefonicamente a Dersim, “rappresenta uno squarcio di luce sullo Stato criminale che organizza la guerra sporca in Kurdistan, così come il traffico di droga” (l’80% dell’eroina in Europa è di provenienza turca). Il ministro dell’Interno Mehmet Agar è stato costretto a dimettersi. Già capo della polizia turca, Agar è responsabile, da ministro, della morte di 24 detenuti (di cui, disse, non si doleva affatto) e viene indicato in vari rapporti come organizzatore di attività terroristiche contro il PKK. Per non dire di Tansu Çiller, vice premier e ministro degli Esteri, il cui nome è emerso varie volte in inchieste di mafia; due sue guardie del corpo furono “uccise da mafiosi mentre erano con mafiosi”. L’incidente ha fornito la dimostrazione dell’intreccio tra guerra e corruzione, tra guerra e traffici illegali. E viceversa, del legame tra diritti del popolo curdo e democratizzazione dello Stato turco, giacché fino a quando non sarà risolta la questione curda non ci potrà essere democratizzazione e sviluppo dei diritti umani in Turchia.
A fine agosto 1996 il governo di Erbakan varava una nuova legge sullo stato di emergenza nel Kurdistan fornendo alle forze dell’ordine maggiore libertà d’azione nell’uso delle armi. Da quando è entrata in vigore sono aumentate sia le uccisioni che i casi di persone scomparse. Come nei paesi del Centroamerica dove operano gli squadroni della morte, i cadaveri vengono ritrovati all’alba, abbandonati lungo le strade. Nelle prime tre settimane dall’entrate in vigore (fino a metà settembre) sono già stati uccisi in questo modo almeno una ventina di civili e alcuni di loro sono stati ritrovati decapitati. Finora sono stati identificati soltanto tre cadaveri, quelli di Fevzi Orak, Nasir Alan e Nuri Yigit. Secondo l’Associazione per i diritti umani di Diyarbakir “la Turchia, ora che ha legalizzato queste uccisioni, continuerà ancora a uccidere”.

8) Autodeterminazione per vivere
intervista con Ahmet Yaman portavoce dell’@Eniya Rizgariya Netewa Kurdistan@ (Fronte di Liberazione Nazionale del Kurdistan) (16 gennaio 1997)

Curdi senza pace. Ieri ad Ankara si sono bloccate le trattative tra le due fazioni in lotta tra loro in Iraq, mentre proseguono le sanguinose incursioni dell’esercito e dell’aviazione turchi nelle aree curde. Ne abbiamo parlato con Ahmet Yaman, esponente dell’ERNK (Eniya Rizgariya Netewa Kurdistan, cioè Fronte di liberazione nazionale del Kurdistan). Yaman ha tenuto di recente in alcune città del Nord-Est (tra cui Padova, Bozen e Bassano) un ciclo di incontri sulla situazione in Kurdistan organizzati da alcuni centri sociali, dall’Associazione Popoli Minacciati e dalla Lega per i diritti e la liberazione dei popoli. Ci ha spiegato i retroscena di un conflitto sanguinoso di cui la stampa occidentale sembra curarsi ben poco e che dal 1991 a oggi ha prodotto un numero elevatissimo di vittime fra i civili.

Cosa puoi dirci della situazione della popolazione civile in questi momenti drammatici?
Dopo i bombardamenti le fonti ufficiali parlano sempre dell’uccisione di decine o centinaia di guerriglieri. In realtà la stragrande maggioranza delle vittime è costituita da civili. I turchi bruciano le case, distruggono le riserve di cibo e bruciano anche i boschi, le foreste dove pensano che potrebbero nascondersi i guerriglieri. Questo provoca l’esodo di migliaia e migliaia di profughi.

E delle vere e proprie squadre della morte che operano attualmente nel Kurdistan al servizio del governo turco?
Non dipendono dall’esercito, ma dalla polizia speciale. Vi sono molti delinquenti comuni e non mancano anche dei collaborazionisti curdi, pagati per uccidere i loro stessi fratelli. Ne fanno parte anche molti membri dell’MHP, conosciuti come “Lupi grigi”, esponenti dell’estrema destra turca. Il governo accetta di tutto, anche trafficanti di droga, personaggi su cui pendono mandati di cattura dell’Interpol. Vengono pagati per ogni testa di militante curdo consegnata, come dei veri e propri cacciatori di taglie (o forse “di scalpi”? nda). Un’ulteriore conferma sui rapporti tra governo, malavita e “Lupi grigi” è venuta il 3 novembre 1996 quando in un incidente stradale presso Bursa sono morti Abdullah Catli, noto boss della mafia turca, e Husein Kodagacex vice capo della polizia di Istanbul. In auto con loro viaggiava Sedat Bucak, deputato del partito della signora Ciller, che è rimasto ferito. Questo incidente ha provocato uno scandalo che arriva a sfiorare le più alte cariche dello Stato. Infatti, nell’inchiesta sui rapporti tra la mafia turca, polizia ed esponenti governativi è emerso anche il nome di Tansu Ciller, vice-premier e ministro degli Esteri, le cui guardie del corpo sono state recentemente uccise mentre si trovavano con alcuni esponenti della mafia. A quanto pare sarebbero state eliminate da una cosca rivale. Inoltre il marito di Tansu Ciller, Oze, è rimasto coinvolto, insieme all’ex ammiraglio Orhan Karabulut e al noto trafficante di droga Husein Durman, ricercato dall’Interpol, nel traffico di materiale radiottivo dall’ex Unione Sovietica. Perfino “Hurriyet”, giornale filogovernativo, ha scritto che “lo Stato turco si è trasformato in un’organizzazione dedita al crimine e al traffico di droga”.

L’esercito turco ha di recente ripreso a bombardare villaggi curdi, anche oltre il confine con l’Irak, provocando molte vittime. Una tua considerazione…
Ai primi di novembre 1996 l’esercito turco, con un contingente di 10mila soldati, ha avviato un’ennesima offensiva sul confine turco-iracheno, penetrando in Iraq per almeno 40 chilometri. L’offensiva è stata però fermata dal contrattacco dei guerriglieri del PKK. Anche in queste circostanze, dopo aver bombardati i villaggi curdi, le fonti ufficiali parlavano dell’uccisione di centinaia di guerriglieri. In realtà i villaggi vengono bombardati anche quando i guerriglieri se ne sono andati, come rappresaglia. Bruciando le case e distruggendo le riserve di cibo provocano l’esodo di migliaia e migliaia di profughi. Anche adesso molti villaggi e alcune città curde, come Dersim, sono assediate dai militari, sottoposte a un vero e proprio “embargo” locale. Non è possibile vendere o comprare, tutto viene razionato, anche la farina; per raggiungere una località i tempi si decuplicano. Tutto questo provoca l’esodo di migliaia di profughi verso le grandi città come Istanbul. Ma nemmeno qui i curdi vengono lasciati in pace. Sono perseguitati sul lavoro e le loro case vengono perquisite.

Parlando delle recenti azioni-suicide di giovani donne del partito indipendentista PKK, la stampa italiana (Corriere della sera, la Repubblica…) ha riportato la notizia che una quarta donna sarebbe stata uccisa dai suoi stessi compagni per essersi rifiutata di compiere il medesimo gesto. Come interpretare questa disperata radicalizzazione dello scontro tra il popolo curdo e lo stato turco?
L’azione-suicida che ha suscitato maggior scalpore è stata quella di Leyla Kaplan (nome di battaglia Hewzen), una ragazza di diciassette anni. Fingendosi incinta, ha fatto esplodere una bomba che portava su di sé nel giardino della caserma della polizia speciale di Adana. Un po’ di tempo prima, il 30 giugno 1996, una donna curda con una bomba addosso si era lanciata contro una parata militare nella città di Dersim (una cittadina curda ribatezzata dai turchi Tunceli). Il 30 ottobre una terza bomba è esplosa a Sivas nell’auto della polizia che aveva arrestato un uomo e una donna curdi. È difficile dire se queste azioni si ripeteranno in futuro. Le tre militanti hanno agito di loro iniziativa, indipendentemente dalle direttive del PKK che finora non aveva mai caldeggiato questo genere di cose. Ognuna di loro ha lasciato una lettera in cui spiegava le ragioni della propria scelta estrema. Occorre comunque riflettere su quanto sia esplosiva la situazione in Kurdistan; ormai in ogni famiglia curda c’è almeno una persona uccisa dall’esercito turco. Da questo punto di vista è l’intero popolo curdo a essere diventato una “bomba” per la Turchia.
Il Fronte di liberazione nazionale del Kurdistan ha immediatamente inviato una smentita ai giornali italiani in merito ad alcuni articoli relativi all’uccisione di un militante del PKK. Le fonti degli articoli erano la polizia, il prefetto e l’agenzia turca “Anatolia” (che ha cercato ripetutamente di screditare la resistenza curda), fonti non certo disinteressate. Se il PKK avesse dato direttive per agire in questo modo ci sarebbero stati migliaia di casi del genere: i guerriglieri e le guerrigliere sono abituati a tenere per sé l’ultimo colpo, ben sapendo cosa li aspetta se cadono vivi nelle mani di esercito e polizia.

E per il futuro?
Quello che accadrà in futuro dipende soprattutto da come agirà il governo turco. Certo, potremmo essere di fronte ad un ulteriore inasprimento. la guerra potrebbe generalizzarsi anche in Turchia e cominciare a interessare, per esempio, le strutture turistiche.

Come si può agire dal mondo occidentale, dall’Italia in particolare, nei confronti della durissima repressione (almeno trentamila vittime civili dal 1991 ad oggi) che lo Stato turco esercita nel Kurdistan?
Recentemente erano stati sequestrati dalla polizia di Diyarbakir sei sindacalisti curdi di cui si erano poi “perse le tracce”. Non è da escludere che fossero destinati a diventare, come tanti curdi prima di loro, dei desaparecidos. Da molte organizzazioni sindacali europee (anche dall’Italia, CGIL e Cobas) partirono immediatamente via fax note di protesta rivolte al primo ministro Necmittin Erbakan e i sindacalisti furono rilasciati. Segno che la solidarietà paga, salva la vita dei prigionieri politici, impedisce la tortura. Almeno qualche volta.
È importante far pressione sul governo turco, costringerlo a tener conto dell’opinione pubblica internazionale. Un altro modo concreto di aiutare il popolo curdo è quello adottato dalle associazioni “Un ponte per Diyarbakir” e “Senza confine”: boicottare le agenzie [come la Turban Italia] e le compagnie aeree che pubblicizzano il turismo in Turchia.

Le divisioni interne al popolo curdo sono state alimentate dai vari regimi dell’area in lotta fra loro (senza dimenticare il ruolo delle potenze occidentali). Quali sono i rapporti tra il PKK e le organizzazioni curde dell’Iraq, il PDK (Partito Democratico del Kurdistan) di Masoud Barzani e il PUK (Unione Patriottica del Kurdistan) di Jalal Talabani, con cui in passato ci sono stati anche scontri armati?
Ricordo che il popolo curdo ha sempre lottato, in ognuna delle quattro zone occupate, contro gli Stati oppressori. La parte turca del Kurdistan oltre a essere la più grande è anche quella che condiziona il destino di tutta la nazione curda. La guerra che lì combattiamo ha quindi un valore fondamentale. Pochi sanno che in realtà il PKK è più forte del PDK anche nel Kurdistan iracheno; tutta la montagna è sotto il controllo dei nostri militanti. Nel 1982 Barzani, alleatosi con la Turchia, aveva attaccato le nostre basi. Nel 1994 sono stati i guerriglieri del PKK ad attaccare le basi di Barzani, sempre pronto ad allearsi con la Turchia, gli Usa e Saddam Hussein. Noi dobbiamo pensare a difendere i diritti del nostro popolo all’autodeterminazione (da noi si dice “berxewedan yiyanè” cioè “per vivere bisogna difendere”) e quindi abbiamo voluto dargli una specie di ultimatum. Barzani continua a operare in sintonia con il progetto degli americani (autonomia per il Kurdistan iracheno) mentre per noi le uniche soluzioni che possono garantire l’indipendenza sono un Kurdistan unito o una federazione tra le diverse aree curde. In Turchia l’autonomia non è praticabile: non è uno stato democratico quello governato da personaggi che per arrivare al potere hanno ucciso.
Ciò detto, riteniamo comunque importante riuscire a trovare una forma di collaborazione con queste organizzazioni e per quanto ci riguarda cerchiamo, fin dove è possibile, di evitare lo scontro armato. Siamo sempre pronti a dialogare sottolineando che non si possono ottenere risultati soddisfacenti e duraturi finché si dipende da forze esterne. È una considerazione che va ribadita, visto che l’obiettivo dell’unità nazionale ha come precondizione l’assoluta autonomia delle organizzazioni curde da interferenze esterne.
 Il nostro accordo del 1983 con il PDK e con il PUK ha avuto un andamento altalenante ed era sfociato nel conflitto del ‘92, quando fummo attaccati dall’esercito turco insieme al PDK e al PUK. Due mesi di guerra non bastarono a sconfiggerci e alla fine le due organizzazioni furono costrette a siglare un accordo che riconosce la nostra autorità in alcune zone del Kurdistan iracheno. Questa guerra ha avuto un effetto boomerang per loro poiché la popolazione curda nel Kurdistan iracheno, da quel momento, ha cominciato a sostenerci.
 L’ultimo conflitto interno del ‘96 [stavolta tra PDK e PUK] è stato originato da forze esterne. Gli Stati Uniti, l’Inghilterra e, ovviamente, la Turchia hanno peraltro chiesto al PDK e al PUK di attaccarci, ottenendo un rifiuto, almeno per ora. 
Da un anno e mezzo stiamo organizzando un congresso nazionale che comprenda tutte le organizzazioni curde presenti nel territorio curdo, compresa una delegazione del parlamento curdo in esilio. Abbiamo invitato 23 tra partiti e organizzazioni; il PDK e il PUK hanno posto un veto incrociato, ma non disperiamo di poter avere entrambe.

9) Si ritira l’ONU, avanzano i turchi (19 gennaio 1997)

Secondo gli ultimi dati forniti dall’Associazione turca per i diritti umani, solo nel mese di ottobre 1996 contro i curdi si sono registrati: nove esecuzioni extragiudiziali; nove morti, tredici “scomparsi” e otto casi di tortura durante la detenzione. Otto le aree bombardate, 499 vittime militari e 15 civili del conflitto; 1875 detenzioni di cui 28 a carico di giornalisti.
L’Onu si ritira dal campo profughi di Atrush e lascia mani libere alla Turchia contro i curdi che fino a ora vi erano ospitati. La delegazione parlamentare e umanitaria italiana, a cui le autorità turche hanno impedito di raggiungere il campo profughi nell’Iraq settentrionale, ha lanciato ieri un appello alla comunità internazionale affinché “rompa il silenzio” sul caso del campo che l’Onu ha deciso di chiudere, provocando numerose proteste. Della delegazione italiana fanno parte il deputato di Rifondazione comunista Walter De Cesaris e rappresentanti delle Ong “Senza confine” (Dino Frisullo), “Servizio civile internazionale” (Carlo Pona), “Associazione per la pace” (Farshid Nourai) e “Beati i costruttori di pace” (Vanni Gandolfo). Malgrado gli ostacoli posti dalle autorità turche, la delegazione è riuscita a raggiungere Lice, località del sud-est della Turchia dove nelle scorse settimane erano state denunciate violenze per costringere la popolazione ad arruolarsi nelle forze paramilitari che combattono l’indipendentismo curdo. Il gruppo, seguito dalla polizia, ha potuto parzialmente verificare la situazione anomala di “una città vuota, quasi esclusivamente popolata di bambini, con un impressionante numero di detenuti”. Le autorità turche hanno inoltre impedito alla delegazione di visitare in carcere la deputata curda Leyla Zana, candidata al Nobel per la Pace e insignita del premio Sakharov per la Pace, condannata a 15 anni per “collaborazione con i ribelli”. Nel corso di una conferenza stampa al termine della missione, la delegazione ha affermato che “non corrispondono a verità le assicurazioni dell’Alto Commissariato a Ginevra e Roma sulla continuità della protezione e dell’assistenza delle Nazioni Unite al campo di Atrush sino all’eventuale rimpatrio dei profughi”. È stata inoltre espressa la preoccupazione che “la deresponsabilizzazione, l’isolamento, il silenzio internazionale preludano a una soluzione finale”.
Molte sono state infatti le brutte notizie giunte dal Kurdistan nelle ultime settimane. Un pessimo capodanno è toccato in sorte agli abitanti dei villaggi curdi situati al di qua e al di la del confine tra Turchia e Iraq. Invece che con qualche botto, l’esercito turco ha festeggiato, come un anno fa, con una vera tempesta di fuoco dell’artiglieria e dell’aviazione e lo sconfinamento di migliaia di soldati. L’operazione è stata presentata come anti-guerriglia, ma in realtà si è trattato dell’ennesima aggressione contro civili e villaggi. Le aree più colpite dai bombardamenti sono state Amet (Dijarbakir) e Botan nella parte turca, Behdinan nella parte irachena. Nel villaggio di Zenik all’alba del 3 gennaio 1997 le bombe hanno distrutto una ventina di abitazioni, uccidendo due donne e tre bambini e ferendone molti altri. Anche se il 4 gennaio la televisione turca ha annunciato il ritiro delle truppe (ma non dell’aviazione, compresi gli aerei da bombardamento), tutto sembra far pensare ai preliminari di un’operazione in grande stile, il cui scopo è fare terra bruciata sul confine. Pesantissima la situazione dei diritti umani, come appare chiaro dagli ultimi dati forniti dall’IHD (Associazione turca per i diritti umani). La Turchia, responsabile di questa ennesima aggressione contro popolazioni civili inermi, è quindi quello Stato di cui la Commissaria Onu per i rifugiati, signora Ogata, accredita la buona volontà nella lettera con cui annuncia ai 17mila profughi provenienti dal Kurdistan “turco” del campo di Atrush, l’intenzione di rimpatriarli. Sono in massima parte anziani, donne e bambini che nel marzo 1994 fuggirono dai loro villaggi attaccati e distrutti da un’analoga offensiva. Rimandarli nei loro villaggi significa riconsegnarli a una situazione di estremo pericolo, esposti alle ritorsioni (torture, uccisioni e sparizioni extragiudiziali) da parte dei militari e delle milizie cui è affidato il controllo delle zone dette di “emergenza”. Non è chiaro peraltro in quali case di quali villaggi i profughi farebbero ritorno, trattandosi di parte dei 3400 villaggi rasi al suolo in questi anni. Nella migliore delle ipotesi si aggiungerebbero ai 4 milioni di profughi curdi nelle periferie delle metropoli turche. Contro il rimpatrio (ufficialmente “volontario”) circa 3000 di loro sono entrati in sciopero della fame a partire dallo scorso 20 dicembre. Non è da escludere che la stessa ultima offensiva avesse lo scopo di convincere i recalcitranti, obbligandoli alla fuga, alla dispersione o al rimpatrio coatto. Un modo come un altro per aggirare le eventuali accuse di pulizia etnica (di cui i profughi di Atrush sono una denuncia vivente) e per estirpare una base di massa dell’opposizione democratica al genocidio. Tra gli scopi della delegazione italiana vi è inoltre quello di seguire la quinta seduta del processo politico al partito HADEP nel tribunale speciale di sicurezza dello Stato, nel quale alcuni militanti curdi rischiano la pena di morte non per aver compiuto atti terroristici, ma semplici azioni dimostrative contro la bandiera turca. E, per mantenere alta l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale su quanto avviene in Turchia e in solidarietà con i tremila profughi in sciopero della fame, dal 10 gennaio anche la diaspora curda in Europa ha avviato un’analoga forma di protesta. Lo sciopero della fame si svolge anche davanti alla sede Onu di Ginevra.
Da Baghdad intanto giunge una proposta di Saddam Hussein ai movimenti curdi presenti sul territorio iracheno, il PDK (Partito democratico del Kurdistan) di Massoud Barzani e il PUK (Unione patriottica del Kurdistan) di Jalal Talabani. Il presidente iracheno propone di intavolare negoziati per una federazione politica delle regioni curde con Baghdad in cambio della rottura di qualsiasi rapporto con gli Stati Uniti. Sembra la risposta del governo iracheno ai negoziati di Ankara (peraltro ancora inconcludenti a livello di accordi politici) dei giorni scorsi tra il PUK e il PDK sotto l’egida statunitense. Contemporaneamente, come confermano fonti del PDK, sarebbe in corso da tempo un confronto tra il partito di Barzani e alti esponenti della direzione politica irachena su un progetto di federazione. Come contropartita Saddam ha chiesto la sospensione di ogni rapporto con Washington e il ritorno delle fazioni curde sotto l’ombrello di Bagdad. “Prima o poi – riferiscono fonti del PDK – bisognerà trovare un accordo, malgrado l’opposizione degli Usa. Non c’è altra soluzione a medio o lungo termine”. Naturalmente le difficoltà non mancano, prima di tutto “le garanzie che Saddam Hussein dovrebbe fornire”. Lo stesso Barzani si sarebbe recato a Bagdad per colloqui sulla prospettiva di federazione. Quanto a Talabani (PUK), in un’intervista al quotidiano turco “Daily News” conferma di “aver ricevuto una proposta per negoziati attraverso il primo ministro russo Evgheny Primakov”. Precisando poi che la proposta era stata presentata al governo russo dal viceprimoministro iracheno Tareq Aziz durante una visita a Mosca lo scorso novembre. Talabani ha affermato di essere “pronto a negoziati per una federazione con un governo democratico a Baghdad che applichi la risoluzione 688 dell’Onu” che garantisce fra l’altro anche i diritti dei curdi. Si ritiene che un eventuale riavvicinamento tra i curdi e Baghdad porterebbe inevitabilmente ad ammorbidire le posizioni di Talabani e a ridurre l’influenza di Teheran sul PUK: a tale proposito Talabani si è affrettato a precisare che “non esiste alcun accordo politico con l’Iran”.

10) Conferenza per il Kurdistan convocata da “Un ponte per Dijarbakir” (24 gennaio 1997)

Ritornerà a casa soltanto alla fine del mese l’ultimo componente della delegazione italiana di parlamentari e associazioni umanitarie in Kurdistan. La delegazione, dopo aver visitato la città-lager di Lice e dopo aver tentato invano di raggiungere il campo profughi curdo di Atrush, appena abbandonato dalle Nazioni Unite, è già da qualche giorno ripartita per l’Italia. Tutti tranne l’ultima giovane esponente dell’associazione umanitaria “Un ponte per Dijarbakir”, rimasta coraggiosamente ad Ankara da sola. Con qualche comprensibile preoccupazione per la sua sorte. È infatti di questi giorni la notizia che un danese, accusato di essere un “simpatizzante” del PKK, il partito indipendentista curdo, è stato torturato per un paio di settimane dalla polizia turca. Attualmente è ospite di un centro per la riabilitazione delle vittime della tortura. In precedenza c’erano stati almeno tre casi accertati in cui esponenti di associazioni di solidarietà con il popolo curdo erano stati raggiunti dai servizi segreti turchi (in Grecia, a Cipro, in Danimarca). Risultato: due cadaveri e un paraplegico. Ma soprattutto era tornato in mente il dramma subito dall’elvetica Barbara Kistler. Barbara, da tempo impegnata socialmente e politicamente nel suo paese, era entrata in contatto con i lavoratori immigrati curdi agli inizi degli anni ottanta. Nel 1991 prese la decisione di andare nel Kurdistan per rendersi conto di persona della situazione. Ma il suo precedente impegno a fianco dei rifugiati non era sfuggito alle autorità e, appena giunta in Turchia, venne arrestata e torturata da una unità speciale della polizia turca, a Istanbul, e segregata nel carcere di Bayranbasa. Rilasciata in libertà provvisoria, Barbara raggiunse il Kurdistan, integrandosi nella guerriglia.
Qui, nel febbraio del 1993, cadde in combattimento. Ovviamente i progetti della rappresentante italiana sono molto meno bellicosi, ma non per questo meno rischiosi. Scopo della sua permanenza prolungata è la ricerca di contatti con esponenti di organizzazioni per la difesa dei diritti umani in vista della “Conferenza per la pace in Kurdistan” che si terrà verso la metà di marzo (a Roma), organizzata dall’associazione “Un ponte per Dijarbakir”. L’annuncio ufficiale per le adesioni verrà dato solo tra qualche giorno; per il momento hanno già aderito la Lega per i diritti e la liberazione dei popoli, le Chiese evangeliche, il Servizio Civile Internazionale, Beati i costruttori di pace e Pax Christi. Alla conferenza dovrebbe partecipare un portavoce dell’organizzazione umanitaria “Insan Haklari Dernegi” (IHD) e l’avvocatessa Filiz Bozugli, membro dell’Associazione Giuristi Democratici, che si occupa della difesa dei prigionieri politici, turchi e curdi. In un precedente incontro, Filiz Bozugli ci aveva illustrato gli scopi ella sua associazione: “Difendere i prigionieri politici significa per gli avvocati essere essi stessi arrestati, torturati e scomparire. L’Associazione Giuristi Democratici non si limita alla sola difesa dei prigionieri politici; provvede insieme all’Ativad (Associazione dei familiari) alle necessità pratiche dei prigionieri stessi. I giuristi partecipano alle manifestazioni indette dai familiari dei prigionieri e intentano azioni giudiziarie contro ministri e poliziotti colpevoli di violazioni dei diritti umani. Gli avvocati sono anche chiamati a controllare le autopsie di persone uccise dalle forze dell’ordine durante manifestazioni o rastrellamenti; accompagnano i corpi dei prigionieri uccisi in carcere fino ai loro villaggi per garantire alle famiglie la restituzione dei loro cari”. In particolare, la conferenza di marzo affronterà la questione delle squadre della morte utilizzate dal regime turco contro gli oppositori, sia curdi che turchi o armeni.

11) Un tragico epilogo: dalla “Ederle” alla fucilazione in Turchia (1 febbraio 1997)

Avrebbe provocato sconcerto e incredulità tra i dipendenti della caserma Ederle di Vicenza (Nato) la notizia della tragica morte di un pilota turco autore di qualche piccolo furto all’interno della caserma stessa, poco prima di Natale. Colto sul fatto, era stato immediatamente rispedito in Turchia e qui (questa la voce assai insistente che circolava da giorni) sarebbe stato addirittura fucilato. È una vicenda che ancora una volta testimonia la sistematica violazione dei diritti umani da parte della Turchia, ma c’è di più. Indirettamente questo episodio conferma quanto si sospettava da tempo: nelle basi Nato in territorio italiano – da Ghedi all’aeroporto “Dal Molin” – i piloti turchi prendono lezioni sull’uso di velivoli, in particolare di elicotteri. Dello stesso tipo (ad esempio gli Apaches) di quelli utilizzati nel Kurdistan “turco” per distruggere villaggi e accampamenti curdi. Analogamente, una decina di anni fa, soltanto l’incidente mortale di Fongara – nell’Alto Vicentino presso Recoaro – portò a conoscenza dell’opinione pubblica vicentina il fatto che i piloti iracheni, all’epoca momentaneamente impegnati nella guerra con l’Iran (e costantemente contro i curdi) si addestravano in Italia con il supporto logistico delle basi Nato. L’elicottero in questione finì contro la parete di una montagna a causa della nebbia e l’intero equipaggio, tutti militari iracheni, perì nell’incidente. Allora si disse che erano diretti in qualche fabbrica di elicotteri nel “nord-ovest” per installare nuovi marchingegni elettronici e impratichirsi nell’uso. Erano arrivati dall’Iraq facendo tappa nelle varie basi Nato dislocate lungo il percorso. Oggi evidentemente la cosa si ripete con la Turchia che ha sostituito adeguatamente l’Iraq come “cane da guardia” dell’Occidente in Medio oriente. E ancora una volta a farne le spese pare che siano soprattutto i curdi. Vicenza, in particolare il quartiere di San Pio X dove sorge la Ederle, è quotidianamente sorvolata da elicotteri militari, sia i famosi Apaches antiguerriglia che gli enormi Shinook da trasporto truppe. Con fastidio e pericolo per i cittadini sottostanti.
Ora, “grazie” all’incauto pilota e alla severità dell’esercito turco, possiamo immaginare che su alcuni di quei velivoli si stiano esercitando i piloti che bombarderanno le popolazioni curde. Si pone quindi con urgenza il problema, morale prima che politico, del supporto logistico a scopo di addestramento che l’Italia fornisce al regime turco, in vita di operazioni che costituiscono una palese violazione dei diritti umani fondamentali, violazione peraltro più volte condannata anche dal governo italiano e dall’Unione Europea. Il fatto che la Turchia sia legata da una formale alleanza militare all’Italia e agli altri paesi della Nato non può costituire un alibi per tollerare complicità e connivenza. In merito a questa vicenda la sezione di Vicenza della “Lega per i diritti e la liberazione dei popoli” ha distribuito un comunicato stampa e un volantino in cui richiama il governo italiano, il ministro della Difesa, le istituzioni e in modo particolare il Parlamento, a operare affinché le autorità turche, oltre a non compiere esecuzioni (come nel caso dello sfortunato pilota), non siano messe in condizione di utilizzare la collaborazione dell’Alleanza atlantica ai fini della repressione dei diritti del popolo curdo.

12) La soluzione finale di Ankara per i curdi (2 marzo 1997)

Nuova offensiva dello Stato turco contro il popolo curdo. Mentre ad Ankara il dibattito ufficiale ruota intorno alla laicità o meno dello Stato, dietro le quinte – come testimoniato da un documento che sarebbe dovuto restare segretissimo – si torna ad affilare le armi contro gli indipendentisti curdi. Joseph Paul Gobbels, capo della propaganda del partito nazista, non avrebbe saputo ideare di meglio. Le nuove direttive anticurde sono state inviate da Meral Aksener del ministero dell’Interno e presidente per lo stato di emergenza, al governatore dello stato di emergenza, a un’ottantina di governatori provinciali delle province curde, al comandante generale della gendarmeria e al direttore generale della polizia. E portano il “visto” del segretario generale del Consiglio di sicurezza nazionale. Sono quanto di peggio si sia visto da parecchi anni a questa parte in materia di “intossicazione”, propaganda e guerra psicologica.
L’operazione è imperniata sulla sistematica criminalizzazione dei movimenti curdi e di quanti nel mondo dell’informazione abbiano mostrato sensibilità per i diritti umani regolarmente violati dal regime turco. Una vera campagna preparatoria di futuri pogrom e massacri, in vista della sempre possibile “soluzione finale”, come già avvenuto con gli armeni. Il documento, come da manuale, sarebbe dovuto restare segreto. La sigla “Gizli” (segreto) è stampigliata sopra e sotto ognuna delle sette pagine dell’originale e, come se non bastasse, si legge alla fine: “Questo documento è segreto e le sue copie devono essere strettamente controllate”. Ma due giorni fa è stato pubblicato in Turchia da pochi organi di stampa democratici (i quotidiani “Demokrasi” e “Ozgur Politika” e l’emittente curda med-Tv). Ne abbiamo parlato con Ahmet Yaman, rappresentante dell’ERNK (Fronte di liberazione nazionale del Kurdistan).
“Il documento”, ci spiega, “è gravissimo: una vera dichiarazione di guerra, non solo psicologica, in Turchia ma soprattutto in Europa. Il governo turco intende organizzare all’estero campagne di pressione verso e contro istituzioni (associazioni umanitarie, organizzazioni non governative, esponenti religiosi e politici, giornali e giornalisti) e governi; diffonderà dossier contro personalità della cultura, combatterà in ogni modo la libera stampa curda e l’emittente Med-Tv. In particolare dichiara di voler operare contro i rappresentanti del Fronte di liberazione nazionale curdo dei quali bloccherà comunque l’attività”. Visti i precedenti, possiamo immaginare con quali mezzi.
Inoltre nel documento – prosegue Ahmet Yaman – vengono rivendicati dallo stato turco organismi paramilitari come i “Guardiani di villaggio” le cui attività criminali (azioni da veri e propri squadroni della morte) sono attualmente sotto inchiesta. “In particolare giudico assai preoccupante il minaccioso annuncio di un progetto riservato in occasione della prossima festività di Newroz, il Capodanno curdo. Quanto alle proposte di pacificazione avanzate dai curdi, vengono liquidate come propaganda e viene riproposta l’etichetta di un PKK terrorista e separatista da combattere e distruggere militarmente. Questo documento, e un altro ancora più grave e dettagliato a firma del Consiglio per la Sicurezza nazionale (ora in corso di traduzione), smentiscono sonoramente le promesse di democratizzazione e allentamento della morsa repressiva, accreditate alla vice premier Tansu Ciller in occasione della recente visita a Roma”.
Dopo aver letto integralmente il documento, ne abbiamo tratto qualche brano particolarmente significativo.
“Attività rivolte a neutralizzare l’influenza sull’opinione pubblica interna e internazionale di personalità fiancheggiatrici del PKK: ricostruire i loro nomi e biografie, diffondere all’interno e all’estero informazioni circa le relazioni tra loro e il PKK, far pervenire dossier circa i veri rapporti fra dette personalità e il PKK alle istituzioni internazionali presso le quali hanno acquisito credito. Realizzare il progetto riservato finalizzato a impedire che il PKK usi la festività del Newroz nella data del 21 marzo per attività di propaganda e manifestazioni contro lo Stato. Infiltrare o individuare collaboratori dello Stato nelle organizzazioni che reclutano, svolgono attività logistica, di finanziamento, di assistenza sanitaria e di indottrinamento per conto del PKK, allo scopo di individuarne ed eliminarne i responsabili. Assumere iniziative nei confronti di organizzazioni democratiche di massa, organismi di tutela dei diritti dell’uomo, agenzie di informazioni, organi di stampa e televisivi, ambienti universitari, personaggi influenti nell’opinione pubblica internazionale, che il PKK usa per screditare lo Stato turco. Controllare strettamente, attraverso l’ufficio stampa del supergovernatorio di Diyabakir, delegazioni di parlamentari, esponenti di organismi umanitari come Amnesty International, giornalisti e operatori delle Ong straniere, che il PKK usa per la sua strategia informativa. Controllare le istituzioni che organizzano corsi di dialetto [sic!] e cultura curda, arrestando e processando coloro che promuovono la trasformazione della parlata curda in vera e propria lingua scritta e formale”.

13) La festa di Newroz, fuochi di libertà (20 marzo 1997)

Domani per i curdi è il giorno della festa tradizionale, il Newroz, ma l’antivigilia non è stata delle più promettenti. Ieri infatti, due giorni prima della festività dedicata all’inizio dell’anno secondo il calendario curdo e al tempo stesso “giorno della resistenza”, l’esercito turco ha ucciso trenta guerriglieri del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK). La fonte della notizia, l’agenzia turca semiufficiale “Anadolu”, ha precisato che gli scontri sono avvenuti nelle province sudorientali di Sirt e Batman. La scorsa settimana altri 23 guerriglieri del PKK erano stati uccisi nella provincia di Bingol.
Il Capodanno dei curdi, che numerano gli anni a partire dal 612 a.C., cade il 21 marzo e viene detto Newroz, che significa il Nuovo Giorno. Questa data ricorda la rivolta popolare del fabbro Kawa contro Dehoc, il re oppressore raffigurato con i due serpenti sulle spalle. Dopo aver sconfitto il tiranno, Kawa fece accendere fuochi sulla cima della montagne per informare tutta la nazione curda della vittoria. Il 612 a.C. è anche l’anno della distruzione di Ninive e della fine dell’impero assiro. Con ogni probabilità, i curdi insorsero in aiuto dei medi scesi dalle loro terre contro l’oppressione assira. I curdi sono da sempre considerati esperti della guerriglia come ebbero modo di verificare a loro spese, oltre agli assiri, anche i persiani e i greci. La festa intorno al falò nell’equinozio di primavera era un’antica usanza di molti popoli indoeuropei. Dl 612 a.C. per il popolo curdo, violentemente represso nella sua identità, sono anche un simbolo di libertà contro l’oppressore. Il 21 marzo 1982 Mazlum Dogan, uno dei fondatori del PKK si uccise con il fuoco nel carcere di Dijarbakir per protestare contro la repressione. Da allora, in ricordo del sacrificio di Mazlum chiamato dalle giovani generazioni “fabbro Kawa” in omaggio allo storico eroe liberatore, nel Kurdistan si celebra il “Nuovo Newroz”. Ma la musica, le danze, gli abiti tradizionali e i grandi fuochi vengono considerati dallo stato turco un’aperta provocazione contro “l’integrità territoriale e nazionale” della Repubblica e quindi vietati.
Nel 1991 i fuochi del Newroz furono spenti con il sangue. Centinaia di morti, decine di migliaia di profughi in fuga dai villaggi e dalle città bombardate furono il bilancio della repressione turca che voleva impedire l’annuale celebrazione. Nei tre anni successivi il Newroz è stato ancora oggetto di feroci attacchi repressivi (oltre agli scontri di piazza si registrarono anche sconfinamenti e bombardamenti nel Kurdistan “iracheno”), ma la presenza di delegazioni straniere che avevano risposto ad un appello dei curdi ha impedito che si ripetessero i massacri del 1991. Nel 1996 la presenza di osservatori internazionali contribuì almeno ad attenuare cariche della polizia e azioni dell’esercito permettendo quindi lo svolgimento del Newroz senza incidenti di rilievo.
Quest’anno, 1997, come si comprende dagli avvenimenti di ieri, la situazione si annuncia invece molto critica. I dirigenti del partito Hadep, che in passato guidavano le manifestazioni, sono quasi tutti in prigione. E quello che termina oggi è un anno molto duro per i curdi: ancora bombardamenti, oltre 20mila arresti e lo stato di emergenza in vigore in quasi tutte le province curde. Ma sono state registrate anche alcune vittorie: il rimpatrio coatto dei 15mila profughi di Atrush è stato bloccato, grazie anche alla mobilitazione internazionale. Inoltre varie istituzioni internazionali e numerose ONG hanno condannato la Turchia per violazioni dei diritti umani, e sono venuti alla luce i rapporti tra settori dello Stato e dell’esercito con narcotrafficanti e mafiosi per finanziare le milizie anticurde e la “guerra sporca” condotta dalle squadre della morte. Per domani, a Istanbul, i giovani artisti del Mkm (Centro culturale della Mesopotamia), insieme all’Hadep e ad altre organizzazioni, hanno preparato una grande festa popolare a cui hanno invitato artisti, musicisti, cantanti e giornalisti di ogni paese. L’Hadep sta cercando di organizzare una festa di Newroz a Dijarbakir. Se la festa sarà vietata la popolazione scenderà ugualmente in strada ad accendere i fuochi, sfidando i divieti e la probabile repressione. Nei giorni immediatamente successivi sono infatti facilmente prevedibili ritorsioni e rastrellamenti. In ogni caso domani i “Fuochi della libertà” arderanno nelle città e sulle montagne curde e anche in molte città turche, dove attualmente vivono circa due milioni di profughi di guerra curdi. Intanto, in coincidenza con la festività, a Strasburgo è previsto per oggi l’arrivo della “Marcia della libertà per il Kurdistan”, partita da Bruxelles lo scorso 6 marzo. L’iniziativa è stata organizzata dall’associazione kon Kurd (Confederazione delle Associazioni curde in Europa) e le associazioni giovanili che operano al suo fianco. La marcia, alla quale hanno partecipato qualche centinaio di persone, aveva lo scopo di richiamare l’attenzione sull’effettivo riconoscimento dei diritti inalienabili del popolo curdo e sulla necessità di arrivare a una soluzione democratica del conflitto con lo Stato turco. Infatti, secondo gli organizzatori, “la Turchia in quanto membro della Nato non rivedrà mai la sua politica senza le pressioni degli stati e dell’opinione pubblica europei”.

14) Centinaia di migliaia di curdi festeggiano Newroz (25 marzo 1997)

Grande è stata la partecipazione in Kurdistan per le celebrazioni del Newroz, il capodanno curdo che coincide con le celebrazioni della rivolta curda contro gli Assiri. E grande è stato anche l’impegno della Turchia nel cercare, invano, di reprimere una festa che, per il suo significato politico, costituisce una seria spina nel fianco della “unità nazionale”. A farne le spese sono stati anche gli ospiti stranieri e domenica la delegazione olandese è stata fermata e trattenuta per l’intera giornata dalla gendarmeria in un villaggio nei pressi di Dijarbakir. Particolare inquietante, durante il fermo gli olandesi hanno visto nelle mani dei militari un elenco dei partecipanti della delegazione italiana. A Dijarbakir la ricorrenza è stata festeggiata nei vari quartieri da migliaia di persone. Secondo il vicepresidente dell’Hadep, il partito curdo legale in Turchia, raggiunto telefonicamente verso le ore 18 dello scorso venerdì 21 marzo, nel pieno della festa “nelle strade ci sono più di centomila persone”. Ma già nel tardo pomeriggio erano segnalati arresti e cariche contro i cinquemila curdi del campo di Ardush che manifestavano insieme ai responsabili dell’Hadep. Sempre ad Ardush era stata organizzata dai turchi una festa ufficiale, in alternativa a quella dei curdi.
Già lo scorso anno era stato fatto il primo tentativo di espropriare i curdi di questa loro tradizione per fare del Newroz una ricorrenza nazionale turca. Vi aveva preso parte anche la vice primo ministro di Ankara Tansu Ciller, ma ad ascoltare la Ciller c’erano state poco più di cinquanta persone (come ci ha raccontato un esponente dell’Ernk, il Fronte di liberazione nazionale del Kurdistan). Evidentemente non sono andati ad ascoltarla nemmeno i “guardiani di villaggio”, la milizia paramilitare collaborazionista dello stato turco. Per questo motivo, forse, la Ciller quest’anno ha preferito “festeggiare” a Jgdir, ai confini con l’Armenia, area abitata prevalentemente da azeri. Anche a Dijarbakir era stata organizzata una celebrazione ufficiale, filo-turca, ma praticamente non vi ha partecipato nessuno.
Dopo la festa, i canti e le danze, i curdi di Dijarbakir hanno organizzato manifestazioni politiche portando in corteo il ritratto di Abdullah Apo Ocalan, leader del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK). Sono stati duramente caricati dalla polizia e centinaia di persone arrestate (quasi tutte rimesse in libertà il giorno dopo tranne cinque che restano nelle mani della polizia). Altre cariche a Batman, seguita da decine di perquisizioni nelle abitazioni. “Per noi sono particolarmente significative – ci informa l’esponente dell’Ernk – le manifestazioni avvenute in città come Mersin e Adana, sulla costa mediterranea. Qui dal 1990 vivono migliaia di curdi costretti a lasciare la loro terra per sfuggire alla guerra e alla repressione. Un vera e propria forma di deportazione, utilizzata dallo stato turco per allontanarli dalla loro terra e quindi dalla causa curda”.
A Mersin hanno manifestato 40mila persone e 20mila ad Adana, tra cui moltissime donne. “Lo stesso – prosegue l’esponente dell’Ernk – è avvenuto a Konya, una città turca dell’Anatolia centrale dove i curdi sono presenti da almeno due secoli e da dove anch’io provengo. A Konya per la prima volta Newroz è stato celebrato da migliaia di persone fino a tarda notte nelle strade e non al chiuso, dentro le case. Altri 40mila curdi hanno manifestato a Morsine”.
Migliaia poi sono scesi in strada anche a Istanbul. Ben ottomila in un solo quartiere, da mille a duemila in altri in cui c’è una presenza curda, costituita prevalentemente da rifugiati. Sempre a Istanbul, due giorni prima (il 19 marzo) si erano svolte manifestazioni di giovani curdi all’Università.
La polizia turca ha operato arresti anche a Kayseri (dove sono stati imprigionati esponenti di un’associazione per la difesa dei diritti umani) e a Dortyl dove sono state perquisite una trentina di abitazioni. Notizie di altre manifestazioni provengono da alcune “città speciali” in cui è vietato l’accesso. Nel suo intervento il presidente dell’Hadep, Ahmet Turk, ha chiesto la fine della guerra che dura ormai da dodici anni. Intanto a Zurigo il presidente del PKK ha preso parte, telefonando in diretta, all’iniziativa organizzata dalla televisione curda med-Tv per la comunità curda rifugiata in Svizzera. Ha lanciato un appello direttamente allo stato turco e a tutti coloro che lavorano per la pace affinchè venga rispettata la volontà di autodeterminazione di cui ancora una volta il popolo curdo sta dando prova. Ha ribadito che il PKK “è pronto a negoziare e aspetta passi concreti al più presto”. Altrimenti in primavera riprenderà la lotta armata, ha concluso. Quanto alle delegazioni straniere, oltre a quella olandese ha avuto qualche problema quella italiana. Venerdì 21 marzo era stata bloccata per impedire che partecipasse alle celebrazioni. Gli italiani sono stati poi liberati grazie all’intervento di un deputato di Izquierda Unida, membro della delegazione spagnola. Giovedì una delegazione svizzera si era recata a Lice (definita “città lager”), ma era stata bloccata per cinque ora e poi allontanata. Uguale sorte per un’altra delegazione spagnola, bloccato il giorno dopo a Dersim. Dopo essere stati accompagnati in visita ufficiale al sindaco e a un responsabile militare, ai delegati è stato impedito per tutta la notte di uscire dall’albergo e di partecipare alle feste di Newroz.

15) Democrazia alla sbarra: corte speciale per l’HADEP e armi contro il pubblico (11 aprile 1997)

Dopo la delegazione italiana che a metà gennaio aveva presenziato alla quinta seduta del processo contro esponenti curdi dell’Hadep (Partito della Democrazia del Popolo), anche il Codi(Coordinamento operatrici del Diritto e della Informazione) ha voluto inviare nuovamente, verso la fine di marzo, propri osservatori in Turchia. L’anno scorso, alla quarta udienza, aveva assistito Fabio Marcelli, membro del Comitato direttivo dell’Associazione italiana giuristi democratici. Altri esponenti dell’Aigd e del Codi erano presenti a due delle precedenti udienze. “Tutti loro – ci aveva spiegato Sehmuz Cagro, responsabile Hadep in Europa – hanno potuto constatare quale sia la qualità delle procedure: nelle precedenti udienze sono state ammesse testimonianze sottoscritte sotto tortura negli uffici di polizia. Dato che in passato analoghi processi sono stati quasi totalmente censurati dalla stampa turca, la presenza di osservatori internazionali può rompere il silenzio e impedire lo scioglimento del partito e la condanna di dirigenti e deputati”.
Le rappresentanti del Codi, un’associazione sorta una decina di anni fa in difesa dei diritti civili e umani, hanno dichiarato che “le imputazioni e le pene che incombono sui 47 dirigenti del Partito della Democrazia del Popolo dimostrano l’accanita volontà del governo turco di voler annullare ogni voce di libertà e democrazia in un paese che si vanta di essere all’avanguardia tra gli stati orientali e perciò rivendica la propria aspirazione ad entrare nell’Europa comunitaria. Invece la sola immagine del processo di Ankara – rilevano le esponenti del Codi – con uomini armati di mitra rivolti verso il pubblico e in mezzo a esso, la costituzione di una Corte Speciale con al suo interno un giudice militare per giudicare un episodio, l’ammainamento della bandiera turca che, se giudicato in base alle normali leggi penali, comporterebbe al massimo tre anni di carcere (e non la pena di morte) denotano un chiaro abbandono di ogni velleità di democrazia, non tollerabile dai paesi della Comunità Europea che hanno tutti sottoscritto la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, nonché la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo” (quest’ultima firmata anche dalla Turchia). Il processo contro l’Hadep è stato espressamente voluto e istituito dal Consiglio di sicurezza nazionale e dalla Corte per la sicurezza dello stato (Cse), un tribunale speciale composto da giudici civili e militari di nomina governativa. Il Procuratore della Corte sostiene che gli imputati (27 dei quali come il presidente dell’Hadep, Murat Boziak, sono in prigione dal 24 giugno scorso) “operano per dividere l’unità dello stato e della nazione” avendo come loro scopo quello di “fondare su una parte del territorio turco uno stato chiamato Kurdistan indipendente e unito”. Gli imputati di questo processo rischiano pene detentive gravi, fino a 22 anni di carcere. Per il giovane che ha ammainato la bandiera turca durante il congresso dell’Hadep (23 giugno 1996) è stata chiesta la pena di morte. Va ricordato che l’Hadep è un partito che opera alla luce del sole, si presenta regolarmente alle elezioni turche ed è il primo partito nelle zone curde dove supera il 60 per cento. La delegazione del Codi ha poi fatto pervenire nel carcere di Ankara la cittadinanza onoraria della città di Roma alla deputata Leyla Zana, membro dell’ex Partito della Democrazia, condannata a 15 anni di carcere per aver espresso in seno al Parlamento la propria identità di donna curda. Il Codi ha ribadito che “l’obiettivo della repressione di ogni libertà è, da parte del governo turco, l’annientamento dell’identità del popolo curdo e del suo diritto all’autodeterminazione”.

16) Galera a vita per “separatismo”: il caso Ismail Besikci (12 aprile 1997)

L’appello internazionale per la liberazione del sociologo turco Ismail Besikci e per la libertà di espressione e ricerca scientifica in Turchia, lanciato da Noam Chomski e Harold Pinter, è stato raccolto anche in Europa e ora è possibile sottoscrivere una precisa richiesta al Parlamento europeo affinché agisca in conformità alle proprie deliberazioni. È auspicabile che questo avvenga soprattutto per quanto riguarda le condizioni statuite per l’ammissione della Repubblica turca all’Unione europea. Il sociologo turco Ismail Besikci sta scontando una condanna a ben 67 anni nel carcere di Ankara. È stato dichiarato colpevole di “separatismo” in base all’articolo 8 della legge antiterrorismo: “Sono proibite la propaganda scritta e orale, le assemblee, incontri e manifestazioni che in qualunque modo tendano a distruggere l’unità indivisibile del territorio e del popolo, a prescindere dalle modalità, dalle intenzioni e dalle idee di chi le effettua”. È stato condannato per i suoi scritti in cui affronta l’ideologia fondativa dello stato turco, il kemalismo, e gli aspetti sociali, culturali e politici della questione curda. Le persecuzioni nei suoi confronti sono cominciate trent’anni fa, nel 1967. In quell’anno aveva pubblicato I mutamenti sociali delle tribù nomadi curde in Anatolia orientale. Gli venne vietato di proseguire le sue ricerche e il suo lavoro venne bandito. Fu radiato dal registro dei docenti delle università di Erzurum e di Ankara e allontanato dal suo incarico di docente aggiunto di sociologia. I suoi articoli e libri furono censurati, proibiti e confiscati. Contro di lui, a partire dal 1971, sono stati avviati un centinaio di processi ed è stato condannato a 67 anni di carcere, dieci dei quali già scontati. La sua colpa è di essere uno dei rari accademici che mettono in discussione l’ideologia kemalista e la politica dello stato turco nei confronti della popolazione non-turca.
Dalla sua fondazione da parte di Mustapha Kemal (Ataturk), la Repubblica turca non si è fermata nemmeno di fronte al genocidio: ieri con lo sterminio di 1.500.000 armeni e le deportazioni di massa, oggi con la distruzione dei villaggi, le torture e le sparizioni dei “soggetti indesiderabili” nella guerra anti-curda. Il 16 settembre 1996 la Corte europea per i diritti umani ha condannato la Turchia per la distruzione dei villaggi curdi e altri 46 simili procedimenti di accusa sono stati consegnati alla stessa Corte di Strasburgo dalla Commissione europea per i diritti dell’uomo. Con le sue pubblicazioni Ismail Besikci ha difeso, in base al diritto all’autodeterminazione, la legittimità della resistenza all’oppressione. Agli occhi delle autorità turche questo lo ha reso colpevole del reato di “terrorismo”. Recentemente il governo turco era stato costretto dalla pressione dei paesi europei a sopprimere gli articoli 141 e 142 del codice penale (“sanzioni per propaganda mirante a distruggere il sentimento nazionale”) su cui si basavano i verdetti più pesanti contro Besikci. A queste norme però si è sostituito l’articolo 8 della Legge anti-terrorismo che rende penalmente perseguibile ogni tipo di critica all’ideologia dello stato turco. “In pratica – rileva Noam Chomski – questo significa abolire la libertà di espressione e la ricerca scientifica”. Nell’appello si ribadisce anche che tutti gli sforzi sul terreno dei diritti e delle libertà civili saranno vani senza la fine della guerra contro la popolazione curda e si chiede al Parlamento europeo di usare tutti gli strumenti a sua disposizione per contribuire a una soluzione politica del conflitto.

17) I curdi di Atrush rischiano la strage (17 aprile 1997)

Per paura della Turchia, una parte dei profughi abbandonati dall’Onu si va spostando verso le zone sotto il controllo di Saddam. I curdi ringraziano per l’impegno in loro favore. Ahmet Yaman, rappresentante dell’Eniya Rizgariya Netewa Kurdistan (Fronte di Liberazione Nazionale del Kurdistan) in Italia ha voluto ringraziare pubblicamente i firmatari, appartenenti a tutte le forze politiche, delle due interrogazioni parlamentari al ministero degli Esteri nel marzo di quest’anno: De Cesaris, Brunetti, Mantovani, Morono, Russo Spena, Speroni, Semenzato, Robol, De Zulueta, Boco, Contestabile e i 111 tra deputati e senatori firmatari dell’appello di gennaio all’Onu e al governo italiano. I firmatari avevano voluto prendere posizione a favore dei profughi curdi della Turchia rifugiati dal 1994 nel campo di Atrush (Kurdistan iracheno). Dal dicembre ‘96 l’Acnur (Agenzia per i profughi delle Nazioni unite) ha negato ogni assistenza e presenza e, dal 21 gennaio ‘97, anche l’estrema protezione della bandiera Onu agli oltre 15mila presenti. Lo scopo era quello di costringere i profughi a rientrare in Turchia. Nonostante le dichiarazioni del regime turco che sosteneva di volerli accogliere, solo una decina di famiglie sono rimpatriate. Circa metà dei profughi ha lasciato il campo lasciato indifeso dall’Onu e ha preferito avvicinarsi alla zona controllata da Saddam che in questo momento deve essere apparso come il male minore. Attualmente sono dispersi nell’area di Zahko, mentre circa 2mila sono saliti sulle montagne presso Dohk e nell’area di Kashrook in direzione di Arbil. L’altra metà è rimasta ad Atrush in totale abbandono e in una situazione di pericolo. I profughi, fuggiti quattro anni fa dai villaggi bombardati e distrutti dall’esercito, non si fidano delle promesse turche e a ragion veduta. Secondo le ultime notizie vi sono continui bombardamenti da parte dell’aviazione di Ankara (gli stessi piloti che si addestrano nelle basi Nato in Italia?) sulle montagne che circondano la zona del campo.
L’emittente curda med-Tv ha anche denunciato il piano dell’esercito per una invasione militare e il rimpatrio coatto. Per Yaman “si rischia un massacro che sarebbe una sconfitta della comunità internazionale e della civiltà”. Proprio in questi giorni è stato possibile conoscere la relazione della prima delegazione italiana nel campo di Atrush (18-23 marzo 1997). La delegazione era formata dal medico Augugliaro, dai volontari Bertuzzi e Montagnani e dal fotografo Nadalini. Hanno raggiunto il campo provenendo dalla Siria in coincidenza con la festività del Newroz, portando 75 chilogrammi di medicinali forniti da medici di Varese e farmacisti di Bologna, oltre a quaderni e matite per i bambini e denaro per poter acquistare altri medicinali. Il campo, hanno raccontato, era circondato dai posti di blocco del PDK di Barzani (poco favorevole ai profughi) ma anche da agenti in borghese all’apparenza turchi. Attualmente nel campo rimangono circa 7mila rifugiati, tra cui 2mila bambini. “Adulti e bambini – ha raccontato Augugliaro – si aggirano nel campo con il pallore della denutrizione. Sta finendo un inverno privo di medicinali, cibo, kerosene… Le affezioni più frequenti sono diarree e gastroenteriti, avitaminosi, polmoniti e infezioni polmonari, otiti, ipertensione negli anziani, dermatiti diffuse, anemia da malnutrimento, emorragie nelle donne, ulcere, glumerulonefrite e infezioni urinarie, alcuni casi di epilessia. Dispongono di antibiotici per tre o quattro giorni, di un po’ di Ferrobarbital per gli epilettici e possono operare solo alcune analisi del sangue e delle urine. Recentemente sono morti quattro bambini per denutrizione, cinque adulti per scompensi cardiaci o circolatori, due donne per emorragie post-parto…”. Secondo la delegazione la necessità più urgente è quella di un ospedale da campo; mancano anche vestiario, coperte, materiali scolastici. Cumo Ahmed, il responsabile eletto dal campo, ha narrato i tormenti di un inverno terribile, nelle tende non più riscaldate, con i continui sorvoli a bassa quota degli aerei turchi che bombardano le località circostanti. Ha dichiarato che “i profughi potrebbero anche tornare, se solo potessero fidarsi, ma nulla è cambiato in Turchia e anzi altri villaggi vengono ancora distrutti: non si può imporre il rimpatrio se non c’è ombra di democrazia” e ha rivendicato il diritto dei curdi di “non vivere in prigione, ma liberi come esseri umani”.
Nel ringraziare i parlamentari, il rappresentante dell’Ernk ha ricordato che “i profughi di Atrush hanno bisogno più di prima del vostro impegno. Vi chiediamo di sollecitare dal governo italiano e dalle Nazioni unite una risposta alle vostre petizioni e interrogazioni. Speriamo – prosegue Yaman – che il governo italiano compia i passi necessari presso l’Onu e speriamo che chi nel governo ha responsabilità nella cooperazione collabori con le Ong per gli interventi urgenti di ordine sanitario e alimentare”.

18) Giornata di pace tra curdi e turchi: Conferenza internazionale di Roma (18 aprile 1997)

Finalmente anche nel nostro Paese qualcuno inizia ad accorgersi del dramma del popolo curdo e della situazione da guerra civile che da 13 anni affligge l’area curda ancora assoggettata al governo turco, un governo sempre più ferocemente impegnato a soffocare le istanze autonomiste di questa antica nazione. Comincia questa mattina nella Sala consigliare di Palazzo Valentini a Roma la conferenza internazionale di due giorni per favorire il dialogo tra lo stato turco e l’opposizione curda. Tra i promotori, il Codi, Beati i costruttori di Pace, il Comitato Golfo, la Federazione Chiese Evangeliche, la Lega per i diritti e la liberazione dei popoli, Pax Christi, il Servizio Civile Internazionale, “un ponte per Diyarbakir”, Senza Confine, l’Associazione per la Pace, Acli, Arci, Aigd e molte altre associazioni umanitarie.
I lavori saranno aperti da Luisa Morgantini del Comitato promotore. Seguirà l’intervento di Tomris Ozden e di Emine Duman (Unite per la pace). La prima sessione avrà come argomento e titolo “Per la coesistenza e la democrazia”. Akin Birdal, Kerim Yildiz, Mark Muller, Sanar Yurdatapan, Mahmut Sakar e Husnu Ondul parleranno di diritti umani, ruolo della legislazione turca e internazionale e questione curda. Per quanto riguarda le conseguenze economiche, politiche e sociali della politica turca nei confronti dei curdi, sono previsti gli interventi di Fikret Baskava, Haluk Gerger e di Ayfer Egilmez. Nel pomeriggio si aprirà la seconda sessione, intitolata “Insieme per la pace e il dialogo, i percorsi possibili”. Murat Cagatay presenterà un suo lavoro di ricerca sui curdi di Turchia, mentre Murat Belge affronterà il tema dell’Educazione alla multiculturalità. Ancora di multiculturalità parleranno il deputato europeo Gianni Tamino e Manuel Martorelli che illustrerà l’esperienza della Spagna con particolare attenzione al Paese Basco. Ci sarà anche Hans Lindquist che presenterà alcune proposte per il cessate il fuoco e per la pace.
Dalle 16,30 alle 18,30 è prevista una tavola rotonda tra i rappresentanti di diverse formazioni politiche attive tanto in Turchia quanto nel Kurdistan. Vi prenderanno parte Dogu Ergil (Tosaf), Ahmet Turk (Hadep), Refik Karakoc (Dbp), Ertugrul Kurkcu (Odp), Naim Geylani (Anap), Mahmut Kilic (ex membro del Dep). Domani mattina, sabato 19 aprile, verrà invece affrontato l’aspetto internazionale del conflitto, con una particolare attenzione al ruolo dell’Europa e della Comunità internazionale. Interverranno Akram Jaff (il concetto di autodeterminazione nella legge internazionale), Ralph Ferting (l’applicabilità della Convenzione di Ginevra al conflitto curdo) e Ismet Serif Vanli (gli strumenti delle Nazioni Unite). Ma ci saranno anche Laura Schrader che parlerà del ruolo della cultura e dell’informazione curde, con relative proposte per il loro sviluppo in Italia e Sedat Yurtas che affronterà il problema del ruolo dell’Europa e della Comunità internazionale nel conflitto turco-curdo. Subito dopo saranno invitati a parlare alcuni esponenti politici italiani: il sindaco di Palermo Leoluca Orlando, F. Speroni (Lega Nord), G. Russo Spena (Rifondazione comunista) e S. Boco (Verdi). Concluderanno i lavori Eugenio Xaitidis (Mp New Democratic Party) e Christos Kipouros (Mp Pasok).
Abbiamo parlato della conferenza con alcuni giovani in partenza per Roma appositamente per assistervi e reduci da un recente viaggio in Turchia dove avevano preso parte alle celebrazioni per il Newroz (Capodanno curdo, 21 marzo). Ci hanno detto di aver “scoperto la questione curda solo recentemente, a contatto con i rifugiati costretti a fuggire dalla loro terra, in particolare dalle zone occupate da Iraq e Turchia”. A tale proposto hanno voluto rilevare che “grazie al fatto che Saddam Hussein è attualmente acerrimo nemico dei Paesi occidentali, ai curdi iracheni giunte sulle coste italiane è talvolta permesso presentare domanda di asilo. Invece i curdi provenienti dalla Turchia vengono rispediti al mittente in tutta fretta, anche se si tratta di violare delle Convenzioni internazionali sulla tutela dei minori. E questo – ottolineano – nonostante siano ormai di dominio pubblico i dati sulla situazione in Kurdistan”. Giusto qualche dato a sostegno della loro tesi. Nel solo 1996, ben 119 curdi della Turchia sono morti in seguito ad attacchi militari contro civili e 78 sono stati assassinati da ignoti aggressori. Sono invece 194 quelli scomparsi misteriosamente (senza che le autorità turche abbiano mai fornito una spiegazione) durante la detenzione. Altri 190 sono morti sotto tortura in carcere. La situazione è drammatica anche fuori dalle prigioni. Si contano almeno 68 villaggi bruciati o evacuati. Si calcola che la guerra in atto dal 1984 abbia provocato la morte, mediamente, di una trentina di persone al giorno. Eppure contro i curdi della Turchia, considerati “profughi economici”, si applica sistematicamente il rimpatrio forzato, facendo finta di non sapere che questo è in pratica quasi una condanna a morte.

19) Kurdistan: il pugno di ferro di Ankara (aprile 1997)

Su un diffuso quotidiano turco (Hurriyet) è stato pubblicato un interessante reportage del giornalista Ismet Berkan che porta ulteriori conferme (v. le testimonianze raccolte dal quotidiano turco Radikal) sull’istituzione, da parte dello stato, di squadre della morte anti-curde. Berkan racconta di un certo quantitativo di documenti segreti di stato che ha potuto consultare, sotto assoluto divieto di fotocopiarli o prendere appunti. Da questi documenti si dipana il filo rosso di sangue della guerra parallela, della guerra sporca contro i curdi e in cui fu implicata la mafia dei Lupi Grigi. Nel 1992 lo stato turco, trovandosi in sempre maggiori difficoltà nel far fronte alla rivolta curda, decise di adottare su larga scala la tattica (di ispirazione USA) denominata “conflitto a bassa intensità”. Questo implicava la distruzione dei villaggi, l’attacco preventivo ai guerriglieri e l’adozione delle loro tecniche.
 Evidentemente anche l’utilizzo di questi metodi non portò a risultati soddisfacenti, per cui si decise di adottare una doppia strategia: la cattura e l’uccisione dei militanti (terroristi per lo stato turco) prima che questi avessero compiuto azioni e un pari trattamento per coloro che li aiutavano.
Questa nuova strategia venne sancita in un documento del Consiglio di Sicurezza Nazionale, che individuava anche i nomi dei personaggi incaricati di organizzare le squadre operative. Tra questi, riporta Hurriyet, quello di Abdullah Catli, il mafioso coinvolto in traffici di ogni genere e nell’attentato al Papa, all’epoca inseguito da un mandato di cattura internazionale. Come è noto Catli è morto il 4 novembre 1996 in un incidente stradale a Susurluk, insieme alla sua compagna (miss cinema Turchia) e al vice capo della polizia, mentre un esponente di rilievo del governo è rimasto ferito. Nei documenti consultati da Ismet Berkan, accanto al nome di Catli, c’erano quelli di alcuni suoi amici e di numerosi ufficiali di polizia. In un primo momento la decisione di istituire vere e proprie squadre della morte venne sospesa per l’opposizione dell’allora presidente della Repubblica Turgut Ozal e del capo di stato maggiore Bitlis. Per una strana coincidenza entrambi morirono di lì a poco, il primo in un “incidente” e l’altro per un “attacco di cuore”. Invece il nuovo presidente Suleyman Demirel, tuttora in carica, e il nuovo primo ministro Tansu Çiller (attuale ministro degli Esteri) non fecero obiezioni e il documento fu approvato nell’autunno del ‘93.
Dichiara Ismet Berkan: “Chiamatela Gladio, chiamatele squadre della morte, ma ciò che nacque era un’organizzazione armata segreta”.
 Contemporaneamente cambiava anche l’atteggiamento della Çiller. In precedenza si era detta disponibile a una “soluzione basca” (maggiore autonomia ai territori abitati dai curdi) del conflitto, ma da quel momento la sua fu una posizione di assoluta intransigenza per una rapida soluzione ad ogni costo e con ogni mezzo. Le prime operazioni della nuova strategia adottata (i cui costi complessivi arrivarono a otto miliardi di dollari annui) consistettero nell’assassinio indiscriminato di quasi tutti gli uomini d’affari curdi sospettati di finanziare il PKK; nella rinnovata pressione sui paesi europei perché mettessero fuorilegge il PKK (richiesta prontamente accolta dalla Germania) e negli attentati che distrussero le redazioni del quotidiano curdo filo-PKK Ozgur Ulke.
La Conferenza Internazionale di Roma del 18-19 aprile 1997 (“Per la Pace in Turchia e per un Dialogo sulla Questione Curda”) ha riunito membri del parlamento turco, importanti esponenti turchi e curdi di vari circoli politici e intellettuali, membri di associazioni, parlamentari europei, accademici e attivisti per i Diritti dell’Uomo da tutta l’Europa. Tra gli altri Naim Geylani, deputato dell’ANAP; Ahmet Turk e Sedat Yurttas, presidente e vicepresidente dell’HADEP; Refik Karakoc (DBP); Ertugrul Kurkcu (ODP). Tra gli esponenti delle organizzazioni umanitarie e per la difesa dei diritti umani: Akir Birdal, Nazmi Gur, Mahmut Shakkar (IHD); l’avvocato Selim Okcuoglu (TOHAV); Husnu Ondul (TIHV); lo scrittore Murat Belge; il giornalista di Radikal Gazetesi Koray Duzgoren; l’economista e docente universitario Dogu Ergil. Nel comunicato finale si “esprime l’aspirazione comune di tutti i partecipanti e la preoccupazione che un eventuale ritardo nel trovare una soluzione democratica, pacifica e politica alla questione curda possa causare ulteriori distruzioni sul piano politico, economico, sociale e culturale”.
Per scongiurare ulteriori violenze la Conferenza richiede “una dichiarazione bilaterale di cessate il fuoco da parte del PKK e delle autorità turche e un’attenzione contro ogni ulteriore operazione militare”, oltre che “l’abolizione dello Stato di Emergenza e del sistema delle guardie di villaggio, e lo scioglimento delle forze paramilitari e delle unità illegali”.
 In conformità con l’art. 39 del Documento di Mosca sulla Dimensione Umana dell’OSCE, le organizzazioni umanitarie internazionali qualificate dovrebbero poter accedere all’area in questione. Dovrebbero poi cessare gli sfollamenti e i villaggi distrutti essere ricostruiti. I profughi andrebbero risarciti in ogni caso e assistiti qualora decidano di ritornare nei luoghi di provenienza.
Nel Comunicato si auspica anche l’abolizione di tutte le leggi restrittive “soprattutto quelle che vietano una libera discussione sulla questione curda”. L’identità curda va riconosciuta e la lingua curda usata liberamente sia nei mass media che come lingua di insegnamento nelle scuole. Soprattutto deve essere garantito il diritto del popolo curdo di determinare il proprio futuro, oltre al “diritto dei curdi e delle altre entità di organizzarsi in forme politiche e associazioni”. Diventa quindi necessaria e urgente una “dichiarazione di amnistia generale e il rilascio di tutti i prigionieri politici e di coscienza”. Tutti gli Stati membri dell’UE, il Consiglio d’Europa e le organizzazioni internazionali dovrebbero fare in modo di accertarsi del rispetto da parte della Turchia dei suoi obblighi internazionali. A conclusione della Conferenza i partecipanti si sono impegnati a continuare nei loro sforzi per ottenere “democrazia, uguaglianza, libertà, pluralismo e coesistenza in Turchia”.
Ai partecipanti è giunto il saluto di Abdullah Ocalan, presidente del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK). “È increscioso e paradossale – sostiene Ocalan – che, nonostante i curdi siano i primi occupanti della regione, si neghi la loro esistenza e si voglia privarli dei loro diritti politici e culturali fino alla loro eliminazione dalla storia”. Per il leader curdo “la comunità internazionale da un lato ignora totalmente la feroce repressione, definibile unicamente come genocidio, perpetrata contro il nostro popolo e a cui assiste passivamente, dall’altro manifesta una preoccupazione puramente simbolica”. Nonostante i curdi siano una nazione che conta quasi 40 milioni di persone, posta in una regione strategicamente importante “le ormai croniche divisioni, l’impossibilità di sviluppare la nostra lingua e la nostra cultura a causa dell’arretratezza economica e sociale e la politica di assimilazione della repubblica turca, hanno impedito ai curdi di dar voce alle loro richieste”.
Per Ocalan “l’essenza stessa dell’attuale Nazione Curda è costituita dalla sua storia di continue invasioni, occupazioni e, più recentemente, dal colonialismo più selvaggio operato dagli stati vicini mossi da politiche di annientamento”. Non è quindi esagerato affermare che “il popolo curdo è oggi uno dei popoli più repressi a livello mondiale”. Dopo aver ricordato come la Turchia, attraverso la repressione e il genocidio, avesse già sterminato armeni e assiri, Ocalan ha sottolineato come “la medesima sorte sarebbe toccata ai curdi se non avessero organizzato la resistenza dopo il golpe militare del 1980”. I generali che hanno organizzato il golpe, spiega Ocalan “progettarono di annientare i curdi e la resistenza era la nostra ultima possibilità di sopravvivenza in quanto popolo. La ragione d’essere del PKK è la salvaguardia dell’esistenza e dell’identità del popolo curdo”. Per il presidente del PKK “il problema in Turchia quindi non è quello dei diritti culturali dei curdi, ma è la questione politica del diritto dei curdi di vivere liberamente nella loro terra”. Il PKK non ha mai rifiutato proposte di pace. In tante occasioni sono state avanzate richieste minime per il riconoscimento dell’identità del popolo curdo e per la concessione dei diritti culturali e delle libertà politiche senza che questo mettesse in discussione gli attuali confini. Se tali richieste fossero state soddisfatte, il PKK avrebbe deposto le armi. E queste richieste, dice Ocalan, “vorremmo adesso riproporle”.
Di diverso avviso, a quanto pare, è il governo turco. Secondo le ultime notizie provenienti dal Kurdistan, truppe turche per un totale di 100.000 uomini provvisti di un completo equipaggiamento invernale, hanno acquisito il controllo di tutti i punti strategici nell’area di Dersim per ridurre alla fame un gruppo di combattenti della resistenza, localizzarli e quindi eliminarli grazie all’impiego degli elicotteri. Quasi quotidianamente le autorità turche affermano di aver ucciso 30,40,50…guerriglieri. I metodi impiegati dall’esercito turco (dotato di tecnologie d’avanguardia), soprattutto i bombardamenti aerei con l’obiettivo dell’annientamento di massa, non possono essere definiti altro che terroristici. Più di tre milioni di persone sono state costrette a lasciare il Kurdistan. “Se un curdo che ha aiutato i guerriglieri – ontinua Ocalan – viene arrestato, può essere fatto a pezzi, legato a un veicolo e trascinato o gettato da un elicottero”. Ocalan ha colto questa occasione per lanciare un appello anche agli USA, alleati della Turchia che dicono di “appoggiare la lotta della Turchia contro il terrorismo”. “Ma chi è il terrorista? Qual é la parte che si rifiuta di prendere in considerazione la pace? Riesaminate la questione. Gli interessi regionali non possono giustificare l’indifferenza nei confronti della tragedia di un intero popolo”. E conclude: “Le risoluzioni e le decisioni della conferenza non dovrebbero rimanere solo sulla carta. Noi crediamo che si dovrebbe istituire un organo internazionalmente riconosciuto per seguire gli sviluppi di tali risoluzioni. Questo organo potrebbe prendere in considerazione vie per coinvolgere il PKK. Ciò permetterebbe anche di sviluppare solidarietà e dialogo con i curdi in questo momento così delicato”. Segnalo che med-Tv, la televisione ufficiale kurda nata nell’aprile del 1995 , trasmette legalmente via satellite in tutto il mondo (anche in Italia) notiziari, documentari e programmi di intrattenimento. “Da quando è nata – ci ha spiegato Ahmet Yaman – med-Tv è sempre stata nel mirino delle autorità turche, che hanno più volte cercato di interrompere le trasmissioni con pressioni presso i vari governi e tentato di disturbare il segnale del satellite”. Si ricorderà, ad esempio, l’irruzione a Bruxelles, il 18 settembre scorso, della polizia belga nel palazzo che ospita gli studi, gli uffici e gli impianti tecnici: perquisizione, sequestro di numerosi documenti e chiusura temporanea della sede.

20) “Lupi grigi” anche contro gli armeni (24 aprile 1997)

È stato ormai appurato che tra le prime operazioni commissionate dallo stato turco al narcotrafficante morto nell’incidente di Sosurluk (già condannato da una corte svizzera ma poi evaso), Abdullah Caili, oltre all’eliminazione di militanti, avvocati e imprenditori curdi, vi furono le uccisioni di militanti armeni. Caili era in possesso di un passaporto internazionale intestato al nome di Ozbay che gli permetteva di viaggiare anche all’estero senza essere intercettato dall’Interpol. Caili operava in sintonia con ex militanti dei “Lupi Grigi”, sostenitori del MHP (Partito Movimento Nazionale). Stessa storia del suo socio Algattin Cakici, anch’egli ricercato dall’Interpol per traffico di droga e residente nella città di Adapazori, teatro di una lunga serie di omicidi irrisolti di esponenti curdi. Ufficialmente i “Lupi Grigi” risultano tra i ricercati dalla polizia turca, ma in realtà verrebbero utilizzati in operazioni segrete extragiudiziali, come è stato confermato dalle dichiarazioni di alcuni loro ex camerati. Secondo queste testimonianze diversi elementi di spicco dei “Lupi Grigi” degli anni ‘70, alcuni dei quali fuggiti all’estero dopo il colpo di stato militare del 1980 e coinvolti in Europa in diverse attività criminali (tra le altre, il traffico di droga e l’attentato al Papa), ritornarono in Turchia inseguiti da procedimenti penali avviati in Europa per finire integrati in missioni segrete, sia in patria che all’estero. Altri (come il noto malvivente Tevfik Agansoy, deceduto nel settembre 1996) vennero rilasciati dal carcere dopo essere divenuti confidenti e essere stati arruolati in queste unità segrete per la “guerra sporca”. La moglie di Agansoy, Hulya, ha dichiarato: “Mio marito divenuto un confidente, venne rilasciato in difficoltà economiche e noi abbiamo chiesto aiuto allo Stato; invece di pane ci hanno fornito armi”. Una conferma è poi venuta dagli stessi “Lupi Grigi” che hanno dichiarato pubblicamente come “Agansoy, Cakici e Caili furono coinvolti in un gran numero di missioni segrete in nome dell’interesse nazionale”. In particolare avrebbero preso parte al raid del 1984, in Libano, contro in campo dell’Asala, l’organizzazione armata indipendentista armena. Questa operazione sarebbe stata gestita congiuntamente dall’Ulkukus (il gruppo di Cakici) e dai servizi segreti turchi. Inoltre, nell’aprile del 1988, venne assassinato Agop Agopyan, un leader dell’Asala. A quest’ultima operazione avrebbero preso parte Algattin Cakici e Tevilk Agancoy. A loro con ogni probabilità si riferiva il ministro turco Tansu Ciller quando ha dichiarato “coloro che hanno ucciso per lo Stato sono degli eroi”. Va poi segnalato che, sempre per conto della Turchia, alcuni ex “Lupi Grigi” hanno preso parte al fallito colpo di stato contro Haydar Aliev, in Azerbaidjan. Un videotape recentemente trasmesso dalla televisione mostra Abdullah Caili tra i protagonisti del golpe.

21) Due mesi di sciopero della fame (7 maggio 1997)

Circa un anno fa i prigionieri politici curdi e turchi appartenenti alle formazioni PKK, TKP-ML e DHKP iniziavano uno sciopero della fame per opporsi alla politica carceraria di annientamento praticata dallo stato turco. I media europei cominciarono ad occuparsi della protesta soltanto dopo il primo morto. Mentre Necmettin Erbakan, capo del governo, minacciava di far intervenire l’esercito per fermare lo sciopero , altri militanti perdevano la vita. Alla fine, nel carcere di Erzurum, situato a nord di Van tra le montagne curde, si conteranno dodici morti. Pochi giorni dopo, ai primi di settembre 1996, Romano Prodi era stato il primo capo di un governo occidentale a visitare il suo omologo turco, Erbakan. Con la sua visita (preceduta di qualche mese da quella di Scalfaro), Prodi ridava fiato e credibilità al regime turco e, indirettamente, la possibilità di agire con i metodi di sempre nei confronti dei prigionieri. Infatti il 22 settembre 1996 l’esercito turco operava un vero e proprio massacro nel carcere di Amed uccidendo una dozzina di prigionieri del PKK e ferendone molti altri. Tutte le vittime, come risulterà in seguito, avevano avuto il cranio sfondato a sprangate. In seguito vari premier turchi (tra cui il presidente Suleyman Demirel) ricambieranno la visita del premier italiano, sia a Roma che a Venezia. Oggi il carcere di Erzurum è nuovamente al centro di una possibile tragedia e ancora una volta il ruolo dell’informazione non omologata potrebbe risultare decisivo. Più di 40 prigionieri politici curdi sono in sciopero della fame dal 10 marzo 1997. Per tutto il mese sono stati privati di ogni cura medica e, ormai alla vigilia del sessantesimo giorno, hanno praticamente raggiunto il “punto di non ritorno”. Anche se decidessero di interrompere lo sciopero, probabilmente subiranno comunque danni irreparabili. Il 16 aprile una delegazione di avvocati e operatori delle associazioni turche per i diritti umani ha raggiunto il carcere, ma le è stato impedito di parlare con i prigionieri, compresi i tre che per protesta rifiutano ogni cura medica. L’avvocato Kazim Genc ha dichiarato che, a suo avviso “le autorità vogliono dimostrare la loro onnipotenza”, aggiungendo che sono “inconfutabili le prove di maltrattamenti, insulti e minacce ai prigionieri”.
Inoltre, nei confronti di dieci prigionieri da lungo tempo in totale isolamento, viene proibita “ogni comunicazione interna ed esterna”. Tre sono le richieste avanzate dai militanti in sciopero della fame: che venga avviato un dialogo con incontri settimanali con la direzione del carcere; la fine dell’isolamento per i dieci prigionieri che hanno dato inizio allo sciopero; trattamenti più umani.
Evidentemente quella che alcuni media avevano salutato come “una vittoria dei diritti dei prigionieri” e che era costata tante vite umane è stata nuovamente vanificata dalla crudele politica repressiva del regime turco. E ora le organizzazioni umanitarie che hanno cercato, invano, di visitare i detenuti chiedono di inviare messaggi di protesta (“non offensivi”, raccomandano temendo ritorsioni sui prigionieri) al ministro Sevket Kazan e al direttore del carcere di Erzurum, Kakki Koylu.
Come in precedenti, analoghe emergenze, si conferma l’importanza delle organizzazioni non governative e umanitarie. Non soltanto nel denunciare le violazioni dei diritti umani, ma anche nel promuovere iniziative che (come la recente Conferenza di Roma) possono favorire una soluzione politica, rompendo il muro dell’indifferenza internazionale. Non promette comunque nulla di buono l’ordine, arrivato ieri dalle autorità di Ankara, con cui è stata vietata la “Conferenza di pace” in programma per domani e dopodomani nella capitale turca. La conferenza, la prima di questo genere organizzata dall’Associazione turca per i diritti umani, era sostenuta da Danielle Mitterand, vedova del presidente francese Francois. Vi avrebbero partecipato numerose Ong da Italia, Danimarca, Francia, Germania, Gran Bretagna, Norvegia e Stati Uniti. Oltre a Luisa Morgantini, (Associazione italiana per la Pace) e a Claudia Roth (esponente del gruppo dei Verdi al Parlamento europeo) alla Conferenza avrebbero dovuto partecipare alcuni esponenti della fondazione Sakharov. Il sopraggiunto divieto sarebbe dovuto a “motivi di sicurezza”. Secondo le autorità turche, l’iniziativa avrebbe potuto generare “provocazioni e incitamenti”. Quanto ai partecipanti, sono stati definiti “persone che avrebbero potuto nuocere all’integrità territoriale dello stato e della nazione”. Una spiegazione già nota e scontata.

22) Sospeso lo sciopero della fame. In settembre il “treno della pace” (11 maggio 1997)

Lo sciopero della fame iniziato il 10 marzo nel carcere di Erzurum , a cui avevano preso parte più di 40 prigionieri politici curdi, è stato sospeso. Secondo quanto ci ha detto una portavoce dell’ERNK (Fronte di liberazione nazionale del Kurdistan), la direzione del carcere avrebbe dato ai militanti assicurazioni di “poter aver incontri con i familiari e garanzie contro le torture”. Inoltre sarebbe stato posto fine all’isolamento per quei dieci prigionieri che avevano iniziato lo sciopero.
“Naturalmente – ha proseguito l’esponente curda – resta necessario vigilare affinché non si tratti solo di promesse. Bisognerà vedere cosa accadrà a Erzurum nei prossimi giorni, nelle prossime settimane”. Ancora una volta potrebbe risultare di una certa efficacia il ruolo dell’informazione, soprattutto nei paesi europei. Infatti “ciò che maggiormente temono le autorità turche è che qualcuno muoia in prigione sotto i riflettori della televisione, come è accaduto l’anno scorso proprio a Erzurum. Temono che l’opinione pubblica occidentale apra gli occhi e cominci a dubitare della reale presenza di democrazia in Turchia. Solo in questi casi qualche prigioniero, malato o in sciopero della fame, viene curato. Altrimenti viene lasciato morire. Proprio oggi abbiamo saputo che, in un altro carcere, un nostro compagno sta morendo per una malattia polmonare che avrebbe potuto essere facilmente curata. Ripeto: lo stato turco si preoccupa solo della sua immagine a livello internazionale. Se sui prigionieri di Erzurum calasse nuovamente l’indifferenza dei media, tra qualche settimana saremmo al punto di prima”. Proprio perché non venga a scemare la preoccupazione per quando accade nelle prigioni turche e nei villaggi curdi, la diaspora in Europa ha lanciato una nuova iniziativa, in collaborazione con l’associazione “Initiave Appel von Hannover”. Il progetto è quello di un Treno della Pace (a cui dovrebbero partecipare almeno 600 persone da tuta Europa) che, partendo da Bruxelles, giunga nella città di Diyarbakir il 1 settembre 1997 (Giornata contro la guerra). I “Viaggiatori della Pace” (rappresentanti di organizzazioni internazionali per i diritti umani, di partiti, chiese, associazioni e Ong) nelle stazioni di Bruxelles, Francofore, Vienna, Budapest, Bucarest e Sofia potranno organizzare manifestazioni e conferenze stampa. In 11 scompartimenti speciali la gente avrà modo di conoscersi, parlarsi e prepararsi per il meeting che si terrà a Istanbul e il festival finale a Diyarbakir. Il messaggio rivolto ai governi europei e a quello turco, ci dicono gli organizzatori “sarà semplice e breve: è ormai tempo per la pace. Una pace basata sul rispetto dei diritti umani e civili della giustizia sociale. Democrazia, libertà e pace sono una necessità urgente, nonché l’unica possibilità in Kurdistan”. Nelle intenzioni degli organizzatori “prima del Grande Festival per la Pace organizzato a Diyarbakir, gruppi selezionati di partecipanti al viaggio in treno avanzeranno le richieste del popolo curdo per una soluzione democratica ai ministri, ai media e ad altre istituzioni turche attraverso incontri, discussioni, dibattiti”.
Questa iniziativa è nata come risposta concreta ai numerosi appelli da parte di turchi e curdi per la pace e per un dialogo politico, considerati “l’unica strada verso la democrazia, per una fine duratura del conflitto e una soluzione del problema curdo”.
“Noi speriamo – dichiarano gli esponenti della diaspora curda – che la risposta del governo turco tenga in considerazione le richieste del popolo curdo. Uno dei più importanti segnali di volontà di pace e cambiamento dell’atteggiamento del governo sarebbe la scarcerazione immediata di Leyla Zana, Ismail Besikci e degli altri deputati, scrittori e giornalisti attualmente detenuti”.

23) Beffati i curdi in sciopero della fame (14 maggio 1997)

Se non fosse una cosa tragica, sembrerebbe quasi una telenovela. Lo sciopero della fame iniziato il 10 marzo 1997 e portato avanti eroicamente per quasi due mesi dai prigionieri politici del PKK si era concluso pochi giorni fa dopo che la direzione del carcere aveva detto di accettare le richieste dei detenuti: stop a torture e maltrattamenti e sospensione dell’isolamento per i dieci prigionieri che avevano iniziato lo sciopero della fame. Ma evidentemente Istanbul aveva promesso ai detenuti un trattamento umano solo per convincerli a porre fine allo sciopero. Già sapendo che non avrebbe mai tenuto fede ai patti. Infatti, a distanza di pochi giorni, sono riprese le minacce, i maltrattamenti, le detenzioni in isolamento totale. Tutto quanto insomma aveva generato la protesta.
Purtroppo questo è solo l’ultimo esempio, non certo l’unico, dell’arroganza e del disprezzo per i diritti umani di cui stanno dando prova da anni le autorità turche. Basti pensare alla reazione dell’ambasciatore turco a Roma, Umut Arik, all’appello per un miglioramento delle condizioni di vita nelle carceri turche e del trattamento riservato ai firmatari del documento del 7 maggio scorso. Sottoscritto da 46 parlamentari italiani, era stato poi inviato all’Associazione turca per i diritti umani (Ihd) e all’ambasciata turca. Arik aveva risposto con una lettera inaccettabile: una sequela di insulti senza costrutto che ha creato un incidente diplomatico. Nel tempestivo appello si protestava perché le autorità turche avevano impedito che si tenesse la Conferenza internazionale per la pace convocata per l’8 maggio dall’Ihd ad Ankara. I deputati sottolineavano come la legge che vieta di parlare del Kurdistan è la stessa che tiene in carcere intellettuali come Besikci e che ha consentito di non fare uscire per un mese il quotidiano “Demokrasi” nelle edicole. Nell’appello si chiedeva al governo turco di evitare atti repressivi e a quello italiano di condizionare i propri rapporti con la Turchia all’effettiva democratizzazione del Paese, alla garanzia dei diritti umani e civili e all’avvio di un dialogo di pace. Delirante, almeno sotto certi aspetti, la risposta dell’ambasciatore. Umut Arik ha accusato l’onorevole De Cesaris (Rifondazione comunista), l’uomo che ha inviato l’appello, di aver carpito la buona fede dei colleghi, promuovendo “un documento di sostegno ai terroristi del PKK e di attacco all’integrità statuale turca”. Poi, credendo evidentemente di trovarsi in un’aula militar-giudiziaria turca, non ha trovato di meglio che definire gli estensori dell’appello “membri di organismi di sostegno al PKK e al terrorismo” e la recente Conferenza di Roma “un sostegno al terrorismo” a causa del messaggio di Ocalan e della mozione finale.
Alle invettive di Arik sembrano fare eco i commenti di certa stampa (v. il “Corriere Mercantile”) e televisione (in particolare il Tg1) in merito a un’inchiesta genovese della Finanza. Due turchi, arrestati con ingenti quantitativi di droga, si sarebbero dichiarati membri del PKK e questo ha consentito a qualche sprovveduto giornalista di descrivere il partito curdo come una “banda di spacciatori guidata dalla famiglia del famigerato Ocalan” che smercerebbe in Italia quintali di eroina per finanziare la guerriglia. Forse i colleghi ignorano che la mafia turca, spacciatrice dell’80% dell’eroina in Europa, è in realtà protetta dal governo di Ankara e combatte, ricambiata, contro il PKK. Sorvolando poi sul fatto che della famiglia di Ocalan ormai rimane in vita soltanto un fratello e che i rappresentanti in Italia del partito curdo non fanno che denunciare con forza i mercanti di droga e di profughi.
Per l’ERNK si tratta di “una ennesima, vergognosa provocazione”. Non a caso due mesi fa il Consiglio di sicurezza nazionale turco, in un documento che doveva rimanere segreto, ma che è stato scoperto e divulgato dalla stampa curda, ordinava di “costruire campagne di discredito nei confronti del movimento curdo in Europa”.
Non è la prima volta che spacciatori turchi, scoperti dalla polizia, si dichiarano del PKK. Accadeva anche negli anni ‘80. Sia in Italia (a Milano) che in Francia, Belgio e Germania. Lo fanno per provocazione, per acquisire meriti dal governo turco, o anche per non correre il rischio di venire estradati in Turchia. “È strano – ci ha detto Ahmet Yaman (rappresentante dell’ERNK che ha già chiesto di poter parlare con il magistrato genovese che si occupa dell’inchiesta) – che la magistratura non sia al corrente di questi precedenti. Anche perché stavolta la provocazione è più pesante: si criminalizza un intero partito e il suo stesso leader. L’ingente quantità di droga sequestrata, i legami con la mafia italiana e il silenzio della stampa turca di regime fanno pensare che i due turchi arrestati, spacciatisi per militanti del PKK, siano in realtà pezzi grossi della connection mafiosa e che la montatura serva a coprire qualcosa. Stiamo indagando e ne riparleremo”.
Sempre dall’ERNK proviene un’altra precisazione in merito alla notizia (riportata dalla stampa il 10 maggio) di 140 guerriglieri curdi uccisi dall’esercito in prossimità della frontiera irachena. In realtà, secondo le fonti dell’ERNK, il bilancio delle vittime dello scontro sarebbe assai diverso: sei partigiani curdi e quasi un centinaio di soldati turchi morti. È stata poi confermata la voce di un sensibile aumento di ricoveri in ospedali psichiatrici di reduci turchi dal fronte, in particolare da Dersim, ancora cinta d’assedio da circa 100mila soldati.

24) Kurdistan verso la guerra totale? (20 maggio 1997)

Mentre continua l’invasione del Kurdistan iracheno da parte di circa 20mila soldati turchi (secondo stime indipendenti) con centinaia di blindati, carri armati ed elicotteri, giungono notizie di eccidi compiuti dalla fazione curda PDK (il movimento di Barzani che opera al fianco della Turchia) e dalle milizie turkmene. Solo a Ebril (divenuta la “Sabra e Chatila” dei curdi) sono stati più di cento i civili massacrati tra sabato e domenica (17 e 18 maggio 1997) dalle formazioni armate della cosiddetta “Forza di pace” creata dalla Turchia utilizzando appunto miliziani turkmeni e collaborazionisti curdi. L’episodio più atroce è accaduto in un ospedale dove una quindicina di presunti guerriglieri (tra cui 5 donne), ricoverati nell’ospedale gestito dalla Mezzaluna rossa curda, sono stati passati per le armi e poi trascinati per le strade della città da un carro armato. Un testimone ha raccontato di aver visto una ventina di civili messi al muro e fucilati. Delle migliaia di arrestati non si ha alcuna notizia e si teme che vadano ad aggiungersi alla lunga lista dei desaparecidos. Le agenzie ufficiali parlano di un migliaio di guerriglieri uccisi, ma le immagini trasmesse dalla televisione turca (come ci è stato confermato telefonicamente dai componenti di una missione umanitaria) mostrano file di cadaveri di civili. In Turchia tutte le sedi dell’Hadep e dell’Ihd (associazione turca per i diritti umani) sono deserte per paura di arresti e aggressioni. Intanto l’aviazione turca bombarda sistematicamente i villaggi fino a 50 chilometri dal confine e ha sorvolato più volte il campo profughi di Ninova (per il momento ancora sotto protezione Onu) abitato da 7mila curdi, in maggioranza donne e bambini.
Non demorde comunque la resistenza dei guerriglieri dell’Argk (Esercito popolare di liberazione nazionale del Kurdistan): sia a Sersing (Kurdistan “iracheno”) che a Dezeke (Kurdistan “turco”) l’esercito di Ankara conta i suoi caduti. Le fonti curde annunciano che sono stati abbattuti almeno tre elicotteri turchi: a Destan, Avasin e Metin.
Esponenti della diaspora curda hanno accusato i paesi europei di coprire con il loro silenzio il genocidio e la violazione del diritto internazionale. In particolare l’Eniya Rizgariya Netewa Kurdistan (ERNK, Fronte di Liberazione nazionale del Kurdistan) si sta appellando “alle associazioni di tutela dei diritti dell’uomo, ai popoli e ai governi europei e a tutte le persone dotate di coscienza, perché rompano la passività dell’Europa di fronte non più solo all’etnocidio, ma al tentativo di genocidio fisico del nostro popolo”. Venerdì scorso, la sezione europea dell’ERNK, durante una conferenza stampa tenuta a Bruxelles, si è rivolta all’opinione pubblica occidentale denunciando quella che è stata definita “la più grande offensiva militare turca dall’inizio della sporca guerra contro il nostro popolo”. Secondo gli esponenti curdi questa invasione è cominciata “dopo che lo stato turco aveva ottenuto l’approvazione del PDK e di numerosi stati occidentali, in particolare degli Stati Uniti”. Hanno aggiunto di essere informati già dal mese scorso che Stati Uniti, Israele e Repubblica turca avevano preso accordi con quelle che definiscono “forze collaborazioniste curde” (il PDK, ovviamente) per colpire la lotta degli indipendentisti curdi del PKK “esattamente come era già avvenuto nel 1992 e nel 1995”. Ufficialmente l’intenzione sarebbe quella di rafforzare la cosiddetta “Forza per il Mantenimento della Pace” nelle zone di influenza del PDK e dell’UPK, nei pressi della città di Erbil. In realtà, dotando la “Forza di Pace” di armamenti modernissimi, la si sta trasformando in una vera e propria forza di guerra e si creano le premesse per una seconda Cipro. Quindi, sostiene l’ERNK “l’operazione militare attualmente in corso non è rivolta soltanto contro il popolo curdo e il PKK”. Con questa operazione lo stato turco “vuol dissimulare la sua disfatta interna attaccando e invadendo il Kurdistan sud (sotto amministrazione irachena nda). Obiettivo di questa operazione è, oltre a quello di far rientrare con la forza gli inermi rifugiati (15mila) di Atrush, sradicare la presenza del nostro partito, il PKK, che è diventato la speranza del nostro popolo in tutto il Kurdistan”.
Adesso è più facile comprendere perché il governo turco aveva vietato la Conferenza per la pace e l’ambasciatore turco aveva ricoperto di insulti e accuse di “terrorismo” i partecipanti a quella di Roma, perché sono state chiuse le pochi voci del dissenso (come il giornale “Demokrasi”), perché ogni proposta di dialogo è stata rifiutata: i generali di Ankara stavano preparando un’altra guerra totale contro il popolo curdo.

25) Bilancio a due settimane dall’inizio dell’offensiva turca (29 maggio 1997)

Secondo lo Stato Maggiore dell’esercito turco, è di 1817 membri del Partito dei lavoratori curdi (PKK) uccisi e di 356 feriti e catturati il bilancio dell’offensiva lanciata due settimane fa contro le basi curde nel nord dell’Iraq. Ankara non specifica il numero delle proprie perdite che sarebbero state (secondo fonti curde) solo nell’ultimo fine settimana di almeno 65 tra soldati e miliziani del PDK di Barzani loro alleati. Il 23 maggio, in un solo attacco suicida da parte di un guerrigliero curdo, sono morti 18 miliziani di Barzani. Il 25 maggio le truppe turche sono riuscite a raggiungere la valle di Zap, principale base del PKK, ma solo dopo che i guerriglieri l’avevano abbandonata e minata ritirandosi sulle montagne con le loro attrezzature. Sul fronte interno alla Turchia, dopo che i militanti dell’Associazione turca per i diritti umani Mahamut Sakar e Vedat Cetin erano stati arrestati dalla polizia, anche la sede dell’associazione è stata chiusa per “attività contro lo Stato”. Successivamente, grazie alle pressioni internazionali, i due sono stati liberati. M. Sakar era stato uno dei relatori alla recente conferenza di pace di Roma. Ankara è da giorni al centro di critiche e proteste internazionali, fra le quali quelle del Segretario Generale delle Nazioni Unite Kofi Annan per l’offensiva portata avanti, ormai da 14 giorni, all’interno del territorio iracheno.

26) Ventidue anni di prigione al curdo che ammainò la bandiera turca (giugno 1997)

Circa un anno fa, il 23 giugno 1996, aveva ammainato la bandiera turca. Per questo reato politici e militari invocavano una pena esemplare. Certuni non si erano vergognati a chiedere la pena di morte. Fortunatamente non sono stati accontentati fino a questo punto, ma la giustizia turca non è certo stata tenera con il giovane militante curdo, condannato a 22 anni di carcere. Una pena esemplare certo, ma per la sua indecenza.
Quanto agli altri imputati membri dell’Hadep, accusati di “operare per dividere l’unità dello stato e della nazione e di voler fondare su una parte del territorio turco uno stato chiamato Kurdistan indipendente e unito” sono stati tutti condannati a sei anni di prigione.
Intanto nel Kurdistan del sud (quello in territorio iracheno) l’esercito turco ha dovuto abbandonare la valle di Zap, occupata il 25 maggio scorso. La valle, principale base del PKK, è tornata quindi integralmente sotto il controllo dei guerriglieri. Secondo fonti curde, sarebbe inoltre stato abbattuto un altro elicottero militare turco. Il 26 giugno 1997 è poi arrivata la versione di Ankara. I militari turchi hanno portato un gruppo di giornalisti stranieri nel sud-est del paese per informarli sull’operazione nel Kurdistan “iracheno”. Il portavoce dell’esercito, colonnello Suleyman Canbolat, ha detto ai giornalisti: “Le truppe turche che sono state ritirate recentemente dal nord Iraq sono pronte a ritornarvi”. Il portavoce ha precisato che alcuni uomini sono stati lasciati in nord Iraq in appoggio alle forze del Partito democratico del Kurdistan di Massud Barzani. Non sono state precisate le cifre relative ai soldati partiti e a quelli rimasti. Il colonnello ha poi aggiunto che durante l’operazione il Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK) ha avuto ingenti perdite (un totale di 2600 uccisi, secondo i dati ufficiali turchi, definiti “falsi” dall’ERNK). Ha poi aggiunto che Siria, Iran e Iraq appoggiano il PKK “non solo aiutandolo, ma anche fornendogli armi e attrezzature”.
Contro la permanenza delle truppe di occupazione turche, per “rompere il silenzio e fermare il genocidio”, l’ERNK (Fronte di liberazione nazionale del Kurdistan) ha lanciato l’iniziativa di una grande manifestazione a Roma ai primi di luglio. Nel comunicato che annuncia l’iniziativa, l’ERNK denuncia la presenza nei territori curdi di un esercito di 60mila soldati regolari turchi che, con un imponente appoggio di aerei e blindati, stanno rastrellando le montagne, bombardando i villaggi e massacrando centinaia di civili. Una carneficina che la stampa occidentale non si premura mai di denunciare. E nelle carceri turche oltre diecimila prigionieri curdi hanno iniziato un nuovo sciopero della fame a oltranza. Ma non è solo il problema curdo a occupare la scena politica turca in questi giorni. Il 30 maggio scorso l’esecutivo guidato dal Partito del Benessere ha perso la maggioranza parlamentare in seguito alle dimissioni di un deputato degli alleati di governo del Partito della Giusta Via (quello della Ciller). L’ex primo ministro, stando a voci ufficiose, sarebbe vicina ad assumere la direzione del governo. Una mossa con cui i politici turchi sperano di allontanare l’eventualità di un golpe militare, il cui spettro si fa sempre più concreto. Il 31 maggio ad Ankara si è tenuta l’ennesima riunione del Consiglio di sicurezza nazionale (Mgk) dominato dai militari. Islamici, laici e militari sono in contrasto soprattutto sulla data delle prossime elezioni. Erbakan le vorrebbe entro ottobre, la Ciller nel 1998, i militari sembrano favorevoli ad attendere ulteriormente.

27) Azadi in curdo significa Libertà! (luglio 1997)

Le notizie sull’ultima invasione turca del Kurdistan “iracheno” si alternano. Si è parlato di un ritiro dell’esercito, poi di un possibile rientro. In ogni caso alle truppe occorreranno mesi per ritirarsi e l’“ordine” imperialista sarà comunque garantito dai miliziani collaborazionisti del PDK di Barzani. Un consiglio a chi stesse pensando di contribuire, con le sue ferie, alle spese sostenute dal regime turco in questo suo ennesimo tentativo genocida: ripensateci! Quest’anno saranno veramente “date caldissime” come recita la pubblicità della Turban Italia (la maggiore organizzatrice dei tour e soggiorni, con voli di linea e charter, sulle spiagge turche). Ma forse non solo in quel senso. Ripensateci e boicottate il turismo in Turchia. Fatelo per solidarietà con un popolo oppresso e perseguitato; o almeno fatelo per paura perché qui la guerra c’è davvero e non si può chiedere a chi ha visto i propri figli cadere sotto i colpi del regime fascista turco di limitarsi a resistere sulle montagne. Non si può certo escludere una campagna della guerriglia curda contro le località turistiche.
Stando a quanto ci hanno dichiarato i responsabili dell’ERNK, l’offensiva militare è sostanzialmente fallita e le cifre trionfalistiche (secondo le agenzie ufficiali turche sarebbero migliaia i guerriglieri del PKK uccisi) riprese abbondantemente dalla stampa italiana sono false.
La Turchia ha sacrificato al sogno di una guerra-lampo migliaia di suoi soldati, un aereo e decine di blindati ed elicotteri. Purtroppo le perdite curde sono dell’ordine delle centinaia, ma per ogni partigiano/a ucciso/a tre nuovi sono saliti sulle montagne. Il fallimento dell’operazione militare, insieme alla crisi di governo e di regime e alla crisi dei militari, fa prevedere rabbiose ritorsioni sui civili e nuovi giri di vite all’interno. Lo testimonia il sanguinoso assedio, da parte delle milizie collaborazioniste del PDK alleate alla Turchia, del campo profughi di Ninowa dove si sono rifugiati i 7.000 (settemila) curdi di Atrush. In Turchia restano chiuse le sedi dell’IHD (Associazione per i diritti umani), del giornale “Demokrasi” e del partito curdo Hadep. Quest’ultimo rischia di essere messo fuorilegge. Contro la guerra e la repressione continua lo sciopero della fame di circa 10.000 prigionieri politici.
Di fronte a tutto questo, il sostanziale silenzio dell’Occidente, alleato della Turchia. Per “rompere il silenzio che uccide” il Fronte di Liberazione Nazionale del Kurdistan ha indetto “per il 5 luglio 1997 una manifestazione a Roma, a cui parteciperanno a centinaia i lavoratori e i profughi curdi in Svizzera”. Sono previsto treni e autobus da Torino, da Milano, dal Veneto… La manifestazione partirà alle 16 da piazza della Repubblica “preceduta alle 15 – ci informa Yaman Ahmet – da un presidio all’ambasciata turca in via Palestro e terminerà in Campo dei Fiori con un concerto a cui parteciperanno gruppi italiani e due gruppi curdi: Siwan Perwer e Beser Sahin”. Si prevede che l’intera manifestazione sarà seguita via satellite da decine di milioni di curdi attraverso l’emittente med-Tv. Di fatto è ormai un evento di rilievo europeo e mondiale.

28) Intervista a Verena Graf, rappresentante all’ONU della Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli – 1 (Ginevra, 15 agosto 1997)

Da molti anni Verena Graf rappresenta la Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli (Lidlip) presso la Commissione diritti umani delle Nazioni Unite a Ginevra. Da questo osservatorio privilegiato ha avuto modo di occuparsi di gran parte dei conflitti che nascono dalla violazione dei diritti dei popoli, in primo luogo dell’autodeterminazione.

Cosa può dirci del ruolo della Lidlip e delle altre Ong che si occupano di diritti umani all’Onu?
All’Onu sono rappresentati gli stati, non i popoli, più alcuni movimenti di liberazione (come l’Olp) e le Organizzazioni non governative. Noi delle Ong abbiamo meno tempo a disposizione ma possiamo parlare in aula plenaria, di fronte ai rappresentanti di circa 140 stati. Inoltre possiamo parlare direttamente con i delegati nei loro uffici e possiamo fare cambiare loro opinione. L’Ong può diventare così portavoce della società civile di un popolo.

Qualche informazione in merito alla sua esperienza personale…
Lavoro in questo ambito da 17 anni e ho portato avanti molte cause di popoli oppressi. Finora ho visto risolversi positivamente, con l’indipendenza, soltanto la questione dell’Eritrea e non so se ne vedrò altre. Anche se ho qualche speranza per il Sahara occidentale…

Come si stanno mettendo le cose per i saharawi?
Attualmente la situazione è bloccata. Il processo di identificazione dei territori ha sostanzialmente favorito l’arrivo di coloni. L’Onu ha mandato il suo inviato a visitare i campi dei profughi e c’è da augurarsi che questo favorisca il rilancio del processo di autodeterminazione. Bisogna tener conto che c’è un’intera generazione di saharawi cresciuta nei campi profughi che non conosce la propria terra.

E riguardo a Timor Est, uscita dall’oblio l’anno scorso grazie ai due premi Nobel per la Pace, al vescovo Ximenes Belo e al portavoce della resistenza José Ramon Horta?
Anche quest’anno il Fronte di liberazione di Timor Est ha potuto parlare all’Onu solamente attraverso le Ong. In plenaria non ha avuto il permesso di parlare nemmeno il premio Nobel José Ramon Horta. Vorrei però ricordare che non c’è solo il movimento di liberazione di Timor Est. Anche a Sumatra c’è un movimento che si batte contro l’Indonesia e con cui siamo in contatto.

Perché non accreditare come rappresentante della Lidlip qualche esponente dei movimenti di liberazione così che parli direttamente all’Onu in plenaria?
Non è così semplice. Inoltre, dopo essersi esposti così pubblicamente, la maggior parte di loro sarebbe in pericolo.
Penso sia giusto salvaguardare, per quanto possibile, la loro sicurezza e che si esponga una terza persona, non direttamente coinvolta nel conflitto. Una volta pensavo anche che, non essendo direttamente coinvolti, gli esperti delle Ong dovessero risultare più lucidi, ragionevoli, ma poi ho verificato che questo è discutibile. In alcuni casi comunque è utile che intervengano i diretti interessati in quanto testimoni. Per esempio sono intervenuti alcuni ex prigionieri di Timor Est che erano stati torturati dalla polizia. Il loro impatto nei confronti dell’Assemblea è stato sicuramente maggiore.

A proposito di tortura. Cosa può dirci della questione curda, visti anche i buoni rapporti dell’Italia con la Turchia (vendita di armi, basi Nato sul suolo italiano utilizzate per addestrare i piloti turchi…)?
Per i curdi bisogna dire che, anche all’Onu, sanno rendersi molto visibili, diversamente da altri popoli in lotta (penso ai tamil) che rischiano di passare inosservati. In Europa, soprattutto in Germania ma anche in Svizzera, sono ben organizzati; vi sono molti lavoratori curdi immigrati, associazioni culturali, sindacati. Da questo punto di vista quello curdo è un movimento molto dinamico. Bisogna comunque riconoscere che la questione curda è assai complessa. Sono divisi tra quattro stati e si combattono anche tra loro. Vedi recentemente gli scontri tra PKK e PDK nel Kurdistan iracheno in seguito all’invasione turca. Personalmente, in una delle ultime sessioni, sono intervenuta sui profughi di Atrush, attualmente diventata una base militare dell’esercito turco. I profughi si sono rifugiati a Ninowa dove subiscono l’assedio delle milizie del PDK, alleate della Turchia. Sottolineo che il campo di Atrush era stato abbandonato dall’Acnur (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) e che i profughi, soprattutto donne e bambini, sono attualmente senza cibo e medicinali. Molti bambini hanno già perso la vita per mancanza di cure e per denutrizione. Una situazione analoga a quella che stanno vivendo i profughi della Mauritania in Senegal, ma anche in questo caso l’Alto Commissariato non ci ha nemmeno voluto ascoltare.
Un’ultima osservazione. Quando un esponente delle Ong interviene per parlare delle violazioni dei Diritti umani e del Diritto dei popoli, il rappresentante dello stato “sotto accusa” cerca almeno di giustificare, di riabilitarsi. La Turchia invece, soprattutto quando si parla dei curdi, sembra non preoccuparsi neanche di salvare la faccia.

29) L’Italia si prepara a estradare in Turchia il prigioniero politico Faruk Kizilaslan che vive in Francia dal 1989 (26 settembre 1997)

Fermato alla frontiera mentre stava entrando in Italia per una conferenza, verrà sacrificato sull’altare dei rapporti commerciali? L’Italia si conferma come uno dei più fedeli alleati del regime turco. Un breve ripasso di politica estera: le visite di Prodi alla fine del 1996 (quanto mai “opportune” per rompere l’isolamento internazionale di Ankara dopo le lotte dei prigionieri politici nelle galere turche), l’invio di armamenti, l’utilizzo di basi e aeroporti in territorio italiano per addestrare i piloti turchi, le recenti dichiarazioni di Dini su Cipro. Stavolta il governo italiano starebbe addirittura per riconsegnare un ex prigioniero politico (a cui da anni la Francia ha concesso asilo) nelle mani dei carnefici. Faruk Kizilaslan, imprigionato in Turchia in quanto militante dell’organizzazione di sinistra Partizan Yolu, nel 1989 era riuscito ad evadere con altri 29 prigionieri e a rifugiarsi in Francia. Dopo aver ottenuto asilo politico, negli ultimi anni si è spostato in varie parti d’Europa per tenere conferenze. Sabato 20 settembre 1997, attorno alle dieci di mattina, è stato tratto in arresto dalle guardie di frontiera italiane al valico del Monte Bianco, sulla base di un mandato di cattura internazionale emesso dalle autorità turche. Immediatamente sono state avviate le operazioni di estradizione in Turchia, dove Faruk finirebbe per allungare la lista dei dissidenti morti ammazzati o desaparecidos. In seguito l’arresto è stato convalidato perché, secondo le autorità italiane, il suo status di rifugiato non sarebbe una garanzia sufficiente del fatto che le sue condanne derivino da reati politici.
A giudizio del suo avvocato, Lorenzo Trucco, la procedura applicata nei confronti di Faruk è la più rigida tra quelle contemplate in questi casi dal codice. Entro dieci giorni il ministero di Grazia e Giustizia dovrà decidere se convalidare o no l’arresto. Fortunatamente, l’estradizione non è stata eseguita brevi manu (come accadde in passato a qualche rifugiato curdo, messo su un aereo, rispedito in Turchia e poi “scomparso”), ma non per questo Faruk può dirsi al sicuro. Data la mole di affari che intercorrono tra Italia e Turchia è assai improbabile che l’arresto sia stato casuale, soprattutto pensando che Kizilaslan ha girato per anni e tenuto conferenze, oltre che in Francia, in Gran Bretagna, Germania, Norvegia… Era invece la prima volta che veniva in Italia. Per comprendere la vicenda, non bisogna scordare che esistono vari esempi di estradizione di rifugiati politici da parte di governi europei compiacenti in cambio di accordi commerciali. Basti ricordare le estradizioni di centinaia di rifugiati baschi dalla Francia nella seconda metà degli anni ottanta. Venivano consegnati dal governo socialista direttamente nelle mani della Guardia Civil in cambio di contratti per la fornitura di aerei militari all’aviazione spagnola.
“Contiamo sul fatto – ricorda l’avvocato di Faruk – che esistono anche molte sentenze contro l’estradizione, dato che la situazione dei diritti umani in Turchia è abbastanza nota all’opinione pubblica”. A favore dell’immediata scarcerazione del rifugiato politico Faruk Kizilastan si è mobilitata la Lega per i diritti e la liberazione dei popoli attraverso i segretari Luciano Ardesi e Verena Graf, rispettivamente a Roma e a Ginevra.

30) Napalm turco su guerriglieri e civili curdi (4 novembre 1997)

Ripresi il 24 settembre, dopo l’ennesima invasione del Kurdistan iracheno, non rallentano gli scontri tra esercito turco e guerriglieri del PKK e dell’Unione Patriottica del Kurdistan di Talabani. In questa circostanza il PUK sta combattendo a fianco del PKK contro i soldati di Ankara. Si sono invece schierati con Ankara, come abitualmente, i miliziani del Partito Democratico del Kurdistan (PDK) di Barzani. Bombardamenti incessanti contro le postazioni dei guerriglieri hanno provocato la morte di numerosi civili. Il comandante dell’ARGK (l’esercito di liberazione organico al PKK) ha rivolto un appello ai combattenti (“peshmerga”) di Barzani affinché “lascino ogni tipo di collaborazione con i nemici del popolo curdo” invitandoli a disertare. Al loro leader Barzani, il PKK ha promesso una tregua a condizione che abbandoni la collaborazione con il regime turco e accetti di contribuire alla convocazione di un Congresso nazionale curdo. Alla fine di ottobre la Turchia imprimeva una forte escalation alla sua azione militare nel nord dell’Iraq (iniziata circa un mese prima) penetrando per quasi 150 chilometri all’interno della frontiera con mezzi corazzati e artiglieria pesante e con quotidiani bombardamenti aerei verso i confini con l’Iran.
Secondo denunce dell’Unione Patriottica del Kurdistan, successivamente confermate da testimoni oculari, le truppe di Ankara, che nei giorni precedenti avevano stabilito una “zona di sicurezza” al di là della frontiera, si sono spinte molto a sud, a ridosso di Shaklawa (un centinaio di chilometri dalla frontiera iraniana) in appoggio al PDK. Il 27 ottobre, per l’ennesima volta, aerei e artiglieria bombardavano le postazioni del PUK utilizzando, secondo fonti curde, anche il napalm. Immediatamente Talabani aveva denunciato l’escalation militare della Turchia che “stava provocando numerose vittime tra i civili e l’esodo di migliaia di persone”.
L’11 novembre 1997 inizierà a Istanbul il processo contro gli imputati europei del treno della Pace. le associazioni del continente che si stanno occupando del problema curdo saranno presenti con i loro delegati. Il gruppo partirà sabato 8 per poter partecipare alla manifestazione dei familiari dei desaparecidos. Nelle galere turche intanto, nonostante proteste e scioperi della fame, prosegue il “ridimensionamento” delle celle in autentici loculi per l’isolamento. Il progetto è ora operativo nel carcere di Nidge dove anche l’ora d’aria (individuale) si svolge fra muri di dieci metri sormontati da fili spinati, senza la possibilità di vedere il sole. L’isolamento è già in vigore nelle prigioni speciali di Batman, Usak, Sivac, Antep. A Ceyhan e a Malatya proseguono intanto i lavori per la riduzione delle celle. Proprio nei giorni scorsi lo stesso governo turco ha ammesso che in sedici anni sono morti 183 prigionieri (uccisi dai secondini o dallo sciopero della fame), di cui 44 nel 1996.

31) Il mondo si accorge dei curdi (9 novembre 1997)

Nel Kurdistan meridionale (nord dell’Iraq) continua a divampare la guerra tra l’esercito turco (alleato della fazione curda del PDK di Barzani) e la resistenza curda del PUK di Talabani e del PKK. Proprio ieri mattina era in corso una potente offensiva. E l’Europa cosa dice? Nelle ultime settimane qualcosa si è mosso. Forse si comincia a comprendere quale sia la portata delle violazioni dei diritti umani, almeno di quelle perpetrate nelle carceri turche. La Commissione europea per i diritti umani di Strasburgo ha dichiarato ricevibile il ricorso di Leyla Zana, premio Sacharov per la Pace, e di altri tre deputati del partito curdo legale DEP, privati dell’immunità, incarcerati nel ‘94 e condannati a 15 anni per reati di opinione. Ora il ricorso sarà trasmesso alla Corte europea che, proprio in questi giorni, ha nuovamente condannato la Turchia per “torture sessuali” da parte della polizia nei confronti di alcune ragazze curde detenute. Richieste per la liberazione di Leyla Zana si sono levate anche dagli Stati uniti. Durante lo sciopero della fame di un gruppo di curdi e statunitensi di fronte al Congresso, 130 deputati hanno firmato per la sua immediata scarcerazione. Il 24 e 25 ottobre a Berlino centinaia di intellettuali e accademici si erano riuniti per discutere di “ideologia e prassi totalitaria” del kemalismo. Il convegno era dedicato a Ismail Besikci, il sociologo turco condannato al carcere a vita per aver scritto alcuni libri sulla colonizzazione del Kurdistan da parte della Turchia.
Contemporaneamente, dalla fiera del libro di Francoforte, sono giunti gli echi della durissima polemica tra il governo tedesco e lo scrittore Gunther Grass che, nel corso delle celebrazioni per lo scrittore Yasar Kemal, aveva criticato senza mezze misure il sostegno tedesco al regime turco. Kemal ha detto che non tornerà in Turchia e non scriverà più se non verrà liberato Esber Yagmurdereli, lo scrittore cieco promotore della campagna “Un milione di firme per la pace in Kurdistan”, condannato a 23 anni di galera per “propaganda separatista”. Da parte sua Esber Yagmurdereli (già detenuto per 14 anni e che nel 1996 insieme a Kemal si fece mediatore tra i detenuti politici in sciopero della fame e il governo) ha rifiutato la grazia “offerta” dal presidente turco Demirel dopo le proteste dei governi inglese e tedesco. Ha dichiarato che lascerà il carcere “solo se saranno liberati tutti i prigionieri di opinione e annullate le leggi che reprimono la libera espressione”. Il vicepresidente Ecevit comunque si era già opposto alla concessione della grazia. In solidarietà con Yagmurdereli si sono svolte manifestazioni nella città di Izmir. Il presidente dell’Associazione turca per i diritti umani (IHD), Akim Birdal (quest’anno ha partecipato alla marcia per la Pace Perugia-Assisi) ha invitato pubblicamente Yasar Kemal a “non tornare in Turchia o a tornarvi per battersi per la libertà di espressione”. Lo stesso giorno anche Birdal (insieme a sei esponenti dell’Hadep) è stato condannato a un anno di carcere per aver “fomentato disordini etnici” durante una conferenza per la pace che si era svolta due anni fa ad Ankara. In quella circostanza aveva chiesto la fine del conflitto contro i curdi nel sud-est della Turchia. In compenso sono stati prontamente rilasciati dal tribunale di Diyarbakir quattro membri della “banda di Yuksekova”, fra cui il sindaco e capo delle milizie filo-turche. La banda, composta da militari e paramilitari, inviava in Europa quintali di eroina. Parte del viaggio della droga – da Hakkari a Diyarbakir – sarebbe avvenuto a bordo di velivoli militari.

32) Giro di vite contro curdi e opposizione turca (12 luglio 1998)

Anche se i turisti che stanno prendendo d’assalto le coste difficilmente avranno modo di rendersene conto, la situazione in Turchia resta drammatica. Il regime turco infatti continua a violare sistematicamente Diritti umani e Diritto dei popoli. Secondo l’ultimo rapporto diffuso dall’Ihd (Associazione turca per i Diritti umani i cui esponenti vengono regolarmente perseguitati e incarcerati) soltanto nei primi cinque mesi del 1998 sono stati assassinati 72 militanti dell’opposizione (e naturalmente i responsabili restano ignoti); sono almeno 44 le esecuzioni extragiudiziali di detenuti politici e 16 i morti accertati per attacchi dei militari contro i civili (109 i feriti). Si contano poi 811 guerriglieri (curdi del PKK e turchi dell’opposizione di sinistra) uccisi in combattimento dall’esercito. Inoltre almeno 13 persone risultano scomparse e si registrano 217 denunce con relative testimonianze di casi di tortura. Più di cinquecento nuove detenzioni in carcere e ben 19424 gli arrestati in detenzione provvisoria.
Il rapporto prosegue riportando 354 casi di aggressioni fisiche e psicologiche sulla popolazione curda da parte delle forze militari e della polizia turca; 132 casi di detenuti e detenute aggrediti/e dalla polizia carceraria, altri 4 villaggi bruciati o distrutti, 71 località bombardate dall’esercito. A questo andrebbero aggiunti 4103 licenziamenti per ragioni politiche; 58 chiusure di sedi di associazioni, sindacati e organi di stampa; 116 incursione della polizia; 133 sequestri di giornali o riviste. I giornalisti finora incarcerati sono più di 200. In questi cinque mesi inoltre, per reati di opinione, sono stati richiesti complessivamente 768 anni di detenzione e sono state comminate pene per un centinaio di anni. Stando alle previsioni, visto che nessuna soluzione politica del conflitto si profila all’orizzonte, saranno almeno ventimila i curdi che nel corso dell’anno dovranno emigrare in Europa per sfuggire alle persecuzioni. Tra le persone scomparse meritano particolare rilievo i casi di quattro esponenti dell’opposizione democratica (una studentessa, due giovanissimi lavoratori e una contadina) arrestati dalla polizia il 31 marzo di quest’anno e di cui si sono perse completamente le tracce: Neslihan Uslu, Mehemet Ali Mandal, Hasan Aydodan e Metin Anda. È la stessa Omtc (Organizzazione mondiale contro la tortura, il maggior network che raggruppa le organizzazioni in difesa dei Diritti umani) a chiedere l’attenzione dell’opinione pubblica: “È ora di trovare una risposta – scrive in un comunicato Omtc – al perché delle persone innocenti siano state catturate dalla polizia e dalle unità antiguerriglia e portate via dalle loro case senza conoscere il luogo dove sono state condotte”. Estremamente significativo il caso di Metin Anda, una povera contadina di un villaggio vicino a Bargama (zona occidentale della Turchia). Nel 1989 la compagnia Eurogold si stabilì in vicinanza del villaggio per cercare giacimenti auriferi nelle montagne. Per queste operazioni si servì di un materiale tossico, il “cyanide”, che provocò gravi danni ambientali e alla salute delle persone. Da allora Metin Anda era stata in prima fila nelle proteste contro la compagnia e, più recentemente, nella costruzione di un consiglio popolare a Bargama. Per questo, con ogni probabilità, è stata arrestata il 31 marzo e da allora nessuno ne ha più avuto notizia.

33) Convegno sulla questione curda a Roma (17 luglio 1998)

Profughi curdi ancora in partenza, repressione turca sempre più aspra. Sabato 11 luglio si è svolto a Roma un incontro tra tutti i gruppi, associazioni, individui che in questi ultimi due anni hanno contribuito a fare della questione curda “uno dei punti centrali dell’agenda di ogni uomo e donna liberi”. Soprattutto durante il 1998 la questione curda ha avuto visibilità e risalto mai raggiunti in precedenza. L’arrivo di migliaia di profughi, l’arresto di Dino Frisullo hanno rotto il silenzio sul genocidio in corso per mano dello stato turco e favorito la mobilitazione a sostegno della lotta per l’autodeterminazione di un popolo fiero e perseguitato. Con questo incontro l’associazione “Azad! per la libertà del popolo curdo” ha voluto “dare slancio, diffusione e sostegno alla solidarietà internazionale nei confronti dei curdi, soprattutto ora di fronte al tentativo del potere reazionario turco di ricacciare nel silenzio la vicenda curda, con il consenso e il sostegno delle grandi potenze, proprio mentre in Kurdistan e in Europa si moltiplicano gli sforzi per una soluzione pacifica del conflitto basata sul riconoscimento dell’identità e dell’autonomia del popolo curdo”.
Nel corso dei gruppi di lavoro sono state messe all’ordine del giorno alcune questioni fondamentali; in particolare il riconoscimento degli organismi rappresentativi del popolo curdo (cominciando dal Parlamento in esilio) da parte delle istituzioni politiche europee e delle Nazioni unite. Si chiede inoltre “l’apertura di un tavolo di trattativa sotto supervisione internazionale, al quale partecipino con pari dignità tutte le parti in causa, per un negoziato di pace che comporti la fine dello stato di emergenza e della guerra nelle province curde e la garanzia dei diritti fondamentali in Turchia”. I partecipanti all’incontro hanno inoltre ribadito la richiesta di un “blocco della vendita di armi che vede l’Italia fra i principali partner dei generali guerrafondai turchi”.
Le prossime iniziative di solidarietà dovranno essere indirizzate a smascherare la politica di genocidio materiale e culturale nei confronti del popolo curdo e denunciare la desertificazione economica e ambientale del territorio. In particolare i partecipanti all’incontro si sono espressi contro il megaprogetto, distruttivo per le risorse idriche del Kurdistan, denominato Gap (Guneydogu Anadolu Projesi). Consiste in uno dei più grandi progetti di irrigazione e sviluppo del mondo, un complesso sistema di canalizzazioni, dighe, centrali elettriche in grado di interessare circa tre milioni di ettari nella terra del Tigri e dell’Eufrate. Il Gap viene realizzato nella cosiddetta Anatolia del Sud-est (Kurdistan “turco”): da Gaziantep (ovest) a Sirt (est), da Lice, città martire (nord-est) a Silopi nel sud. Nelle stesse zone proseguono sia le operazioni dell’esercito turco contro la resistenza curda che lo svuotamento forzato dei villaggi (ormai circa quattromila). Ma a trovare lavoro nei nuovi insediamenti sono soltanto i curdi già utilizzati dall’esercito come “guardie di villaggio”, ossia i collaborazionisti e i delatori.

34) Mentre aumenta il numero dei profughi curdi, l’Italia vende armi alla Turchia (28 luglio 1998)

Ieri, 27 luglio, mentre Romano Prodi incontrava il premier turco Mesut Yilmaz, la Corte europea dei diritti umani ha condannato a Strasburgo il governo turco per l’uccisione da parte delle forze di polizia, il 4 marzo 1991 a Idil, di un giovane manifestante curdo di 15 anni, Ahmet Gulenc.
Stando alla ricostruzione dei fatti da parte dei giudici di Strasburgo, la polizia turca aveva sparato “senza necessità” contro una manifestazione pro-curda, facendo secondo la corte un “uso sproporzionato della forza”, in violazione dell’articolo della Convenzione europea dei diritti umani che garantisce il “diritto alla vita”. Per avere qualche aggiornamento sulla situazione curda, avevamo incontrato a Padova il dottor Mahamut Ozgur, esponente dell’associazione per i diritti civili Goc-Der insieme all’avvocato Mustafa Demir dell’Unione dei Giuristi del Kurdistan, da due anni esule in Germania. Abbiamo così potuto renderci conto della situazione in cui versano milioni di profughi (gli stessi che periodicamente tentano di imbarcarsi alla volta dell’Italia).
“I profughi creati negli anni ‘90 dalle attività militari e paramilitari turche nelle regioni abitate dai curdi – ci spiega Ozgur – sono valutabili in 4,5 milioni. Gran parte si è rifugiata nelle città turche: un milione e 500mila a Istanbul (soprattutto nel quartiere di Kadikov e nella parte asiatica); 600mila a Adana; 250mila a Izmir; 200mila ad Antalya; 150mila a Iskenderun; 150mila a Bursa. Altri hanno trovato rifugio nelle città curde: 600mila a Diyarbakir; 300mila a Van; 150mila a Batman; 100mila a Elazig…Altri 500mila infine sono sparsi tra Ankara e altri centri minori”.
I profughi nella maggior parte dei casi sono provvisti di documenti di identità ma non di residenza, anche se si trovano in quella località da anni. Infatti “le municipalità richiedono verifiche preventive di polizia – prosegue Ozgur – che i profughi rifiutano per paura di persecuzioni o per indifferenza a causa delle persecuzioni subite in passato”. Stando alle testimonianze di molti curdi rifugiati in Germania chi accetta di passare dagli uffici di polizia spesso si vede rifiutare le pratiche per la residenza essendo sprovvisto di lavoro. In genere subisce un interrogatorio sulle ragioni per cui è fuggito dal Kurdistan e parecchi vengono accusati di complicità con la guerriglia. Molti profughi abitano in baracche e il 50% dei dei minori di 12 anni non frequenta la scuola, sia per le difficoltà di iscrizione, sia per la necessità di lavorare dovendo contribuire al reddito familiare. È quindi molto diffuso tra i giovanissimi profughi il lavoro minorile nel piccolo commercio e nelle officine. Attualmente la situazione è aggravata da un afflusso crescente di nuovi profughi creati dalla guerra in corso, sia nelle regioni a popolazione curda sotto l’amministrazione turca, sia nel Kurdistan iracheno da cui ogni anno provengono circa 50mila persone provviste di visto d’ingresso e 200mila irregolari.
È in questa situazione di disperazione che operano proficuamente i reclutatori dell’emigrazione clandestina verso l’Europa. Si diceva della “coincidenza” tra la visita di Prodi in Turchia e la condanna della Corte europea. Qualche dato sui rapporti Italia-Turchia in materia di export di armi, armi utilizzate soprattutto contro gli insorti curdi.
Nel 1990 il Parlamento italiano approvava la legge 185 sul commercio delle armi che vietava la vendita verso paesi in stato di conflitto armato, verso paesi la cui politica contrasti con l’articolo 11 della nostra Costituzione e verso paesi i cui governi si siano resi responsabili di accertate violazioni dei diritti umani. Anche se la Turchia rientra sicuramente in questi parametri, non mancano le scappatoie. Per esempio le procedure della 185 non si applicano rigidamente ai materiali di alcuni settori, come l’aeronautica e la missilistica, considerati a doppio uso, sia civile che militare. In base alla legge 222 del 1992 vengono classificati come “materiali ad alta tecnologia” e la loro esportazione viene liberalizzata verso i paesi industrializzati (vedi decreto novembre 1993 del ministero del Commercio estero).
In questi giorni si è parlato insistentemente della possibile vendita di un’azienda italiana produttrice di armi (la “Bernadelli spa” di Gardone Val Trompia) a imprenditori turchi. E intanto la Oto Breda si candida per la vendita alla Turchia di un migliaio di carri armati e l’Agusta di altrettanti elicotteri antiguerriglia.

35) Ma boicottare i complici di un genocidio è o non è reato? (1998)

Nel giugno 1998 il pubblico ministero di Vicenza, Paolo Pecori, ordinava alla polizia di mettere i sigilli al server del sito “Isole nella rete” (Bologna, www.ecn.org) che ospita circa 15mila pagine web di impegno militante sociale e pacifista. Tra le associazioni messe a tacere, Lila, Asicuba, “Ya Basta”, Telefono viola e le radio “Onda d’urto”, “Black out”, “Sherwood”, le riviste ZIP, Necron, Bandiera Rossa, Freedom Press, sindacati di base come la CNT iberica, alcuni gruppi musicali (“99Posse”,”Sunscape”…), una quarantina di Centri sociali e la mailing list di solidarietà con il Chiapas. In aprile la Turban Italia srl di Milano aveva querelato per diffamazione “Isole nella rete” nelle cui pagine web dal 16 gennaio 1998 circolava il messaggio “Solidarietà al popolo curdo”. I responsabili dell’associazione no-profit hanno denunciato il “gravissimo attentato alla libertà di espressione” raccogliendo la solidarietà dell’Associazione per la libertà della comunicazione elettronica ((in quanto “l’atto del magistrato introduce surrettiziamente il concetto di responsabilità oggettiva del provider”) e del collettivo Luther Blisset che ha definito l’operato di Pecori un “provvedimento da dittatore dello stato libero di Bananas”. Forse da dei “situazionisti” era lecito aspettarsi qualcosa di più… comprendere che la notizia in fondo secondaria (il sequestro del server) ha contribuito a “oscurare”, magari involontariamente, quella vera: la violenza repressiva subita dal popolo curdo. Ma nella Società dello Spettacolo, non scordiamolo mai, è sempre “lo spettacolo che si fa merce”. Personalmente resto dell’opinione che l’invito al boicottaggio del turismo in Turchia sia altrettanto legittimo dell’invito a boicottare i prodotti sudafricani all’epoca dell’apartheid.
Questo è il testo incriminato che, dopo essere stato volantinato e pubblicato come lettera su vari organi di stampa alla fine del 1997, una volta entrato in rete (nel gennaio 1998) ha suscitato la ritorsione della Turban Italia:
SOLIDARIETA’ AL POPOLO KURDO – BOICOTTIAMO IL TURISMO IN TURCHIA
Ogni lira data al regime turco con il turismo è una pallottola in più contro i partigiani, le donne, i bambini curdi; questo bisogna dirlo forte e chiaro per non rendersi complici del tentativo di genocidio operato dallo stato turco contro il popolo curdo.
In coincidenza con i periodi estivi e natalizi su alcuni quotidiani e settimanali è riapparsa la pubblicità a piena pagina della Turbanitalia che invita a visitare “la Turchia più bella”. Eppure dovrebbe essere ormai di dominio pubblico quante e quali siano le ripetute violazioni dei Diritti Umani operate dal regime turco, soprattutto contro il popolo curdo: torture nelle caserme e nei commissariati, detenzioni illegali, sparizioni di oppositori a opera di veri e propri squadroni della morte parastatali… per non parlare dell’occupazione da parte dell’esercito turco del Kurdistan “iracheno” con bombardamenti di villaggi e campi profughi. L’invito della Turbanitalia ai tours e soggiorni al mare nella “Turchia più bella” è decisamente un pugno nello stomaco se confrontato con le notizie che quasi ogni settimana giungono dalle zone martoriate del Kurdistan. Nel Kurdistan “turco” 25 milioni di persone vivono sotto il giogo di 500.000 soldati e per mantenere la sua “guerra sporca” contro questo popolo lo stato turco fa affidamento soprattutto sulla valuta pregiata del turismo che frutta ogni anno oltre dieci miliardi di dollari. Non esiste città turca nelle cui prigioni non si torturi, nei cui dintorni non sorgano bidonvilles di sfollati dai 3500 villaggi curdi distrutti. Le proteste dei prigionieri vengono regolarmente represse a colpi di spranga e i familiari riescono con difficoltà a farsi restituire i cadaveri. Intanto nei campi profughi assediati dall’esercito e da miliziani filoturchi i bambini muoiono di stenti. Anche recentemente l’utilizzo del napalm da parte dell’aviazione turca (forse gli stessi piloti che vengono addestrati nelle basi NATO del Veneto) ha provocato vittime soprattutto tra i civili. In questo deserto di repressione e sofferenza i paradisi turistici decantati da Turbanitalia sono soltanto oasi blindate. Tra l’altro è risaputo che agli affari della Turban è direttamente interessata l’ex premier Ciller, ispiratrice degli squadroni della morte che hanno provocato la morte di centinaia di oppositori, kurdi e turchi.
Invitiamo quindi a boicottare le agenzie di viaggi che offrono i tour in Turchia e anche i giornali che li pubblicizzano, come gesto di solidarietà verso un popolo fiero e perseguitato.
Lega per i Diritti e la Liberazione dei Popoli (sez. di Vicenza)
Collettivo Spartakus
f.i.p Via Quadri, 75
Vicenza, 12 gennaio 1998

36) È moralmente accettabile fare affari con un regime genocida? (7 agosto 1998)

Il sequestro di un intero sito web su Internet è stato presentato con un certo risalto sulla stampa. Vittima dell’operazione, l’associazione “Isole nella rete” che dà voce a più di un centinaio di associazioni, centri sociali, radio autogestite, organismi sindacali. Il tutto era iniziato con una querela per diffamazione presentata dall’agenzia Turban Italia di Milano, specializzata in vacanze in Turchia, per un messaggio diffuso attraverso il sito che invitava al boicottaggio dei viaggi per esprimere solidarietà al popolo curdo perseguitato dal regime di Ankara. Tale richiesta nasceva dalla singolare omonimia del nome e del logo (e stessi alberghi) tra la Turban italiana e la Turban turca, una società governativa legata alla figura dell’ex premier Tansu Ciller e agli scandali emersi in merito alla “guerra sporca” contro i curdi e l’opposizione di sinistra. Il risalto dato al provvedimento in quanto violazione della libertà di espressione, sembra però aver oscurato la ragione principale del comunicato che resta la denuncia delle persecuzioni subite dal popolo curdo e delle complicità internazionali. Negli anni ottanta era prassi normale, sia da parte dei gruppi della sinistra che di molte associazioni di area cattolica, chiedere il boicottaggio nei confronti dei prodotti sudafricani, delle banche che finanziavano il regime razzista di Pretoria, delle compagnie turistiche. Ma ora i tempi sono cambiati e assistiamo alla sceneggiata contro un comunicato che, comunque, ha costretto la Turban Italia a uscire allo scoperto e a parlare dei curdi nei suoi prospetti informativi, arrampicandosi sugli specchi per giustificare la politica repressiva della Turchia. Se non fossimo di fronte alla tragedia di un intero popolo, le tesi sostenute nei “programmi estate 1998”, oltre che facilmente confutabili, sarebbero risibili. Fanno pensare alle veline prodotte dall’ambasciata o dai servizi segreti turchi. I curdi, secondo Turban Italia, si sarebbero trasferiti tutti a Istanbul, Ankara e nelle altre metropoli turche in cerca di condizioni di lavoro più favorevoli. Sulle montagne rimaste spopolate arriverebbero altri curdi dall’Iraq costringendo l’esercito turco a proteggere le frontiere. In realtà è l’esercito turco che sconfina per bombardare i campi profughi dei curdi in Iraq.

37) La “democrazia” turca e i curdi (gennaio 1999)

La mobilitazione suscitata dall’arrivo a Roma di Abdullah Ocalan (novembre 1998), leader del Partiya Karkeren Kurdistan (Partito dei lavoratori del Kurdistan) richiede qualche precisazione sugli avvenimenti di quest’anno. Il 28 agosto 1998 Ocalan aveva annunciato una tregua da parte curda; lo aveva fatto dopo le proposte ricevute dai vertici dello stato turco attraverso intermediari qualificati (esiste in proposito una precisa documentazione). All’iniziale interesse dimostrato dalle autorità turche si è sostituito un rinnovato atteggiamento bellicista, soprattutto dopo il viaggio in Israele del premier turco Mesut Yilmaz, lasciando intuire come la questione ormai implichi accordi e interessi internazionali che vanno ben oltre il contenzioso tra stato turco e popolo curdo. Il 28 ottobre, attraverso il suo portavoce in Europa, Kani Yilmaz (nessuna parentela con il premier turco, ovviamente), il PKK aveva dichiarato che “essendoci state delle proposte formali da parte turca, la leadership curda aveva il dovere di verificarle, anche se è apparsa chiara fin dai primi giorni l’insincerità dello stato turco e la sua volontà di usare il cessate il fuoco curdo all’interno di una tattica dilatoria, tenendo contemporaneamente costante l’opzione militare”.
Nei messaggi pervenuti a esponenti della resistenza curda l’estate scorsa e presentati a Roma dal portavoce del PKK, la Turchia si impegnava a garantire l’agibilità politica del PKK; a verificare gli errori commessi da entrambi i contendenti e in particolare l’inasprimento della repressione dopo il 1993; a dare spazio ad una assunzione di responsabilità da parte del PKK e delle forze di opposizione nel processo di cambiamento dello stato. La Turchia diceva anche di voler assumere un atteggiamento positivo nei confronti di alcune richieste (definite plausibili) avanzate dal PKK come il blocco delle operazioni militari da parte dell’esercito turco e lo scioglimento dei corpi paramilitari in vista di una soluzione politica e pacifica della questione curda. Si era prospettato lo svolgimento pacifico e veramente democratico di elezioni (con la garanzia di osservatori internazionali) e la possibilità di una amnistia generale per i prigionieri politici. Addirittura si era parlato di un possibile incontro dei vertici militari turchi con Ocalan. Ma, nonostante da parte dei curdi siano stati rispettati gli impegni di tregua, la Turchia ha scelto ancora una volta la via repressiva e militare: almeno 15mila soldati turchi sono penetrati nel Kurdistan sud (in territorio iracheno) in vista di una ennesima offensiva anticurda. È la medesima tattica adottata dal governo turco nel 1993 e nel 1996, in occasione di due tregue unilaterali annunciate dal PKK. Appare quindi evidente che il fallimento del “cessate il fuoco” è imputabile soprattutto alla non volontà di dialogo della Turchia. Nel frattempo da parte turca si sono intensificate le operazioni repressive contro organismi legali curdi. È stato chiuso il quotidiano Ulkede Gundem, sono state devastate le sedi del partito legale Hadep (i cui dirigenti, da tempo in carcere, sono in sciopero della fame) e centinaia di persone sono state fermate o arrestate. In particolare il leader del PKK Ocalan è diventato il bersaglio di una politica di annientamento fisico. All’attacco contro Ocalan il popolo curdo ha reagito con determinazione, sia con manifestazioni di protesta che con nuove lotte nelle carceri, dove sono rinchiusi circa diecimila prigionieri politici e di guerra curdi. In ottobre diciassette di loro si sono dati fuoco, sei hanno perso la vita e altri sette sono ancora ricoverati in ospedale con gravissime ustioni. Il 20 ottobre 1998 altri due curdi, imprigionati perché membri del PKK, sono morti carbonizzati nel carcere di Midyat durante una protesta contro le inumane condizioni detentive. Altri tre sono morti nello stesso modo in tre diverse prigioni turche. Il prigioniero curdo Mehemet Aydin si è dato fuoco il 13 novembre ed è in fin di vita. Nei giorni successivi si è parlato anche di un’altra decina di prigionieri che avrebbero tentato il suicidio per protesta e contro le minacce di estradizione per Ocalan. A questi si sono finora aggiunti altri tre curdi (due a Mosca e uno a Roma, il 17 e il 18 novembre) che si sono dati fuoco dopo essersi cosparsi di benzina. Soltanto nella manifestazione delle “Madri del sabato” organizzata dai parenti degli scomparsi il 17 ottobre (i “kayiplar” sono ormai migliaia) si sono registrati più di cinquecento arresti. Ma questi fatti clamorosi potrebbero aver oscurato un gran numero di episodi “minori”. Ne riporto solo un paio riguardanti minorenni e da cui emerge tutta la brutalità del regime turco.
In una conferenza stampa tenuta dalla “Human Right Association” la madre di un handicappato mentale ha accusato pubblicamente due agenti di aver torturato suo figlio a Istanbul il 13 settembre 1998. Il ragazzo, Metin Caglayan, era stato arrestato mentre giocava in strada e quindi trascinato in una cella della stazione di polizia. 
Pochi giorni prima, il 7 settembre, quattro ragazze di età compresa fra gli 11 e i 15 anni erano state arrestate nei pressi di Izmir perché indossavano abiti rossi, gialli e verdi (i colori della bandiera curda). Secondo il quotidiano Radikal le ragazze stavano organizzando uno spettacolo di beneficenza. Inoltre tra il 16 e il 22 novembre sono state arrestate oltre 2.700 persone nel corso delle retate contro gli esponenti del partito Hadep. Due militanti arrestati il 12 novembre (Metin Yurtserver e il diciottenne Halit Cakir) sono morti a seguito delle percosse subite dalla polizia.
 Niente di nuovo insomma per il popolo curdo che da anni subisce torture, squadroni della morte, leggi di emergenza. 
Una situazione di brutale repressione e controllo sociale che non riguarda solo i curdi ma anche ampi settori delle classi popolari turche e da cui hanno tratto consistenti benefici i nostri industriali. Sono più di cinquemila le imprese italiane installate in Turchia dove usufruiscono dei sottosalari turchi, della repressione antisindacale (vedi il recente caso della Fiat dove almeno duecento operai turchi sono stati licenziati per aver lasciato il sindacato “giallo” di regime Turk Metal ed essersi iscritti al Birlesik Metal-is) e del lavoro minorile (almeno tre milioni di bambini vengono sfruttati soprattutto nelle aziende del campo tessile e del vestiario). La maggior parte dei minori che lavorano per Benetton (vedi il caso della Bermuda Tekstil) sarebbero figli di profughi curdi, arrivati nelle metropoli turche dopo la distruzione dei loro villaggi.
È tempo che anche l’opinione pubblica italiana reagisca adeguatamente, prima che questo secolo, apertosi con il genocidio armeno, si concluda sulle stesse terre con il genocidio dei curdi. Ripensando a quello che è stato fatto una decina di anni fa contro il regime sudafricano dell’apartheid bisogna denunciare e boicottare tutti coloro (Benetton, Fiat, Turbanitalia, gli orafi veneti…) che con le loro attività commerciali contribuiscono a mantenere in vita il regime di Ankara; fermare almeno l’esportazione di armi dall’Italia verso la Turchia. Sarebbe anche necessario che nuove delegazioni di parlamentari, giuristi, giornalisti, esponenti di associazioni in difesa dei diritti umani si recassero in Turchia per denunciare la logica di sterminio applicata contro i dissidenti nel circuito carcerario turco. Inoltre le vittime di questa politica criminale che giungono in Italia andrebbero trattate come profughi di guerra, una sporca guerra genocida di cui anche noi dobbiamo sentirci responsabili.

38) Turchia, ancora violenza nell’indifferenza dell’Europa (2 gennaio 2002)

Con un tempismo degno di miglior causa, alle ore 14 del 22 novembre 2001 la Turchia ha colto l’occasione della lotta al terrorismo mondiale per risolvere con la violenza alcune questioni interne.
Preceduti da decine di blindati e accompagnati dal fuoco dei cecchini appostati sui tetti, un migliaio di agenti e militari hanno invaso il quartiere di Armutlu a Istanbul. Qui, da più di un anno e con la solidarietà della popolazione, proseguiva il drammatico sciopero della fame di decine di ex prigionieri politici e di familiari di altri prigionieri contro l’uso generalizzato delle celle di isolamento (denominate “F”) nelle carceri turche.
Secondo l’IHD (Associazione per i diritti umani) che ha inviato osservatori sul luogo, il bilancio (provvisorio) è tragico: almeno sei i morti accertati, decine di feriti in gravi condizioni e centinaia di arresti, oltre alla distruzione con il fuoco di una “Casa della Resistenza” dove era in corso lo sciopero della fame. Le altre abitazioni dei militanti sono state danneggiate e invase dal fumo di lacrimogeni e gas tossici per fermare la protesta. Secondo la polizia due delle vittime, tra cui Haydar Bozkurt portavoce dei militanti in sciopero della fame, si sarebbero uccise dandosi fuoco. Naturalmente non bisogna dimenticare che già per la strage operata nelle carceri il 19 dicembre 2000, l’autopsia rivelò che molti dei presunti “suicidi” erano stati deliberatamente dati alle fiamme dalla polizia. Ai 32 (trentadue) prigionieri uccisi durante quella irruzione, se ne sono aggiunti altri 46 (quarantasei) morti per fame dentro e fuori dalle carceri, nella quasi totale indifferenza del mondo. È probabile che il numero delle vittime sia destinato ad aumentare; anche se lo sciopero venisse sospeso (ipotesi al momento alquanto improbabile vista la determinazione dei militanti) almeno cinquanta persone sono ormai oltre il “punto di non ritorno”, destinate cioè a riportare conseguenze fisiche e psichiche irreparabili. La “luce verde” all’ultima strage, più volte minacciata e annunciata dal ministro della Giustizia Sami Turk, è direttamente legato alla partecipazione turca alle operazioni in Afghanistan: il regime turco ritiene di avere ora le mani libere per reprimere qualsiasi forma di dissenso e nel rilancio di una politica che può essere definita soltanto come “terrore di stato”.
Un preciso segnale era venuto pochi giorni prima quando Gurhan Kockar, dirigente del partito filocurdo Hadep (Halkin Demokrasi Partisi), era stato assassinato dai militari sulla porta di casa. Attualmente sono più di diecimila i detenuti politici rinchiusi nelle prigioni turche. A opporsi al trasferimento nelle nuove celle di segregazione sono soprattutto i militanti curdi e di alcune formazioni della sinistra rivoluzionaria turca. Le celle di isolamento recentemente introdotte nelle carceri turche riducono a nulla le capacità fisiche e intellettuali dei detenuti, tagliandoli fuori da ogni rapporto sociale. Non sono previsti spazi per la vita comune, non ci sono stanze per vedere la televisione o ascoltare la radio, leggere o fare ginnastica. Questo sistema inoltre è alquanto punitivo anche per i parenti. Al momento delle visite le madri dei detenuti si devono svestire per le perquisizioni corporali effettuate da personale non identificato (non si sa se si tratta di gendarmi o di civili). Nemmeno gli avvocati possono incontrare liberamente i loro assistiti. È sicuramente da condannare la quasi totale indifferenza dell’opinione pubblica, sia turca che europea. Se quella turca è in parte comprensibile dato che, dopo il colpo di stato del 1980, la società è ancora terrorizzata e non in grado di organizzarsi adeguatamente, quella europea è quantomeno indecente. In un primo tempo l’Europa si era atteggiata a severo osservatore della situazione (come avvenne durante lo sciopero della fame del 1996, costato la vita di dodici militanti), ma successivamente ha mostrato comprensione e incoraggiamento per la politica repressiva di Ankara, sostenendo che anche da noi esiste il sistema delle celle di isolamento.

39) Sciopero della fame dei prigionieri politici (ottobre 2003)

Feride Harman era stata arrestata nel settembre 1996 durante un’operazione di polizia contro il DHKP-C (Partito-Fronte rivoluzionario di Liberazione del Popolo). Era rinchiusa nella prigione di Malatia nel giorno (19 dicembre 2000) dell’irruzione della polizia nelle carceri dove si svolgeva lo sciopero della fame. L’operazione, denominata con macabra ironia “ritorno alla vita”, costò quella di 32 prigionieri. Il 28 luglio 2001 Feride entrò in sciopero della fame con il sesto gruppo di volontari. Di fronte al deterioramento delle sue condizioni di salute venne trasferita nell’ospedale Nunume ad Ankara dove subì la violenza dell’alimentazione forzata (classificata da Amnesty International come una forma di tortura). Malgrado tutto continuò nella sua protesta. Il 23 agosto 2002, al 399° giorno di sciopero della fame, fu rimessa in libertà condizionale, continuando nel suo digiuno a oltranza in una “casa della Resistenza” a Istanbul-Aksaray. È morta il 15 dicembre 2002 alle ore 20,30 dopo 512 giorni di sciopero della fame. Era la quinta persona che perdeva la vita in tal modo dopo il cambio della guardia in Turchia, con l’arrivo al potere dell’AKP (Partito della Giustizia e dello Sviluppo).

Con la sua morte le vittime della protesta iniziata nell’ottobre 2000 contro le celle d’isolamento “F” arrivarono a quota 102. La sua vicenda è analoga a quella di ogni altro Hunger Strike; da Lale Colak, morta a 26 anni il 9 gennaio 2000, a Yusuf Araci, morto il 26 marzo del 2003, numero 106 della tragica lista. E la macabra contabilità è purtroppo destinata a continuare dato che alcuni militanti dell’organizzazione Devrimci Halk Kurtulus Cephesi sembrano intenzionati a proseguire nella loro estrema protesta anche dopo che altre formazioni avevano optato per la sospensione di questa forma estrema di lotta. Non bisogna poi dimenticare i più di 400 detenuti, ex detenuti e parenti rimasti irreparabilmente danneggiati a livello fisico e psichico dopo la sospensione dello sciopero.
Per cercare di comprendere le ragioni di questa lotta disperata, su cui la stampa internazionale sembra aver voluto stendere un velo poco pietoso, abbiamo potuto vedere in anteprima il video “F” del regista turco Metin Yegin, presentato finora soltanto al Festival del cinema curdo di Londra del 2013. Il film è stato proiettato il 16 agosto 2003 a Malga Zonta, all’interno delle iniziative (campeggio antifascista, commemorazioni, dibattiti) per il 59° anniversario dell’eccidio operato dai nazisti. Contiene numerose interviste a militanti in sciopero della fame (parenti ed ex detenuti nelle “case della Resistenza”), alcuni dei quali nel frattempo sono morti. Anche a voler prendere le distanze da una forma di lotta così estrema, colpisce l’incredibile lucidità e dignità di questi giovani che in nome della solidarietà si avviano verso un vero e proprio martirio.
Attualmente (ottobre 2003) sono più di diecimila i detenuti politici rinchiusi nelle galere turche. A opporsi al trasferimento nelle nuove celle di segregazione e isolamento denominate “F” sono stati soprattutto i militanti curdi e di alcune formazioni della sinistra rivoluzionaria (DHKP-C e TIKP). Da quando, nell’ottobre del 2000, è iniziata la protesta contro l’introduzione delle celle “F” sono ormai più di un centinaio i militanti morti a causa dello sciopero della fame o trucidati dalla polizia turca durante i ripetuti tentativi di sospendere la protesta manu militari. Due episodi in particolare hanno superato, per la loro insensata efferatezza, il muro di omertà e silenzio che avvolge la lotta e la sofferenza dei prigionieri.
Il 19 dicembre 2000 ci fu l’irruzione nelle carceri durante la quale morirono ben 32 persone. Le successive inchieste dimostrarono che molti detenuti erano stati deliberatamente dati alle fiamme dalla polizia (che poi aveva cercato di mascherare la cosa come “suicidi”). Il 22 novembre 2001 più di mille agenti e militari, preceduti da decine di blindati e ruspe e accompagnati dal fuoco dei cecchini appostati sui tetti, andarono all’assalto del piccolo quartiere di Armutlu (Istanbul) dove da circa un anno proseguiva lo sciopero della fame di ex detenuti rimessi in libertà e di familiari dei prigionieri . Bilancio immediato: almeno sei morti, decine di feriti gravi, centinaia di arresti e la distruzione con il fuoco delle “Case della resistenza”.
Va anche sottolineato che, grazie al ruolo di primo piano attribuito dagli Usa alla Turchia, i processi di repressione in tutto il paese sembrano destinati a subire un’ulteriore accelerazione, non solo nei confronti della resistenza curda o dell’estrema sinistra turca, ma anche di ogni altra forma di dissenso. Lo stanno scoprendo a loro spese pacifisti, ambientalisti (come gli attivisti di Greenpeace arrestati l’anno scorso ad Aliaga) e anarchici. Anche contro questi ultimi sono state utilizzate le CSE-DGM (Deviet Guvenlic Mahkemesi). Si tratta di veri e propri tribunali speciali, inizialmente istituiti per giudicare gli indipendentisti curdi, ma che poi sono stati utilizzati anche per semplici reati di opinione. È stato questo il caso di alcuni giovani libertari di Usak arrestati per aver distribuito dei volantini durante una manifestazione sindacale. Recentemente anche pacifisti e anarchici sono stati rinchiusi nelle celle di tipo “F”..
Il 13 ottobre 2003 nel carcere di Buca è scoppiata l’ennesima rivolta, immediatamente sedata con la forza. Le richieste dei detenuti erano minime: accesso a medici e medicine, possibilità di telefonare, oltre naturalmente al rifiuto dei trasferimenti nelle celle di tipo “F”. Sempre in ottobre l’IHD ha lanciato la campagna Non tacere sulla tortura. Nei primi sei mesi del 2006 si contano 18 persone uccise dalle forze di sicurezza e altrettante sono state ferite. Sei detenuti sono morti per mancanza di cure mediche, sei si sono dati fuoco per protesta e almeno otto si sono suicidati. Due persone arrestate sono morte nelle mani della polizia. 27 i morti in scontri armati e 22 i militanti politici assassinati. Da gennaio a giugno 2006 si contano almeno 200 persone torturate nei luoghi di detenzione e altrettante quelle torturate fuori da caserme e commissariati. E nel Kurdistan, con la ripresa degli scontri tra esercito e guerriglieri, i morti si contano nuovamente a centinaia.

40) Curdi in sciopero della fame a Venezia per lo status di rifugiati (novembre 2004)

Le tende e gli striscioni appaiono all’improvviso, inaspettati, nel momento in cui la calle si allarga nella vastità di Campo San Geremia a Venezia. I curdi in sciopero della fame sono seduti, le gambe avvolte nelle coperte. La folla scorre, ma parecchi si fermano per firmare un appello; sul tavolino, accanto alla petizione, un libro con il volto di Ocalan in copertina. Lo sciopero è iniziato martedì 23 novembre 2004 e questo è il quarto giorno. Scopo dell’iniziativa è ottenere il riconoscimento dello status di rifugiati politici per i curdi fuggiti dalla repressione di Ankara. Dichiarano gli scioperanti: “Nonostante siano ampiamente dimostrate le violazioni dei Diritti umani in Turchia e negli altri Stati nei quali risiede il popolo curdo, nonostante siano stati espressi forti dubbi sull’ammissione della Turchia alla comunità europea, nonostante non siano cessate le operazioni militari dell’esercito turco contro le organizzazioni della resistenza curda [una cinquantina di vittime da giugno a settembre ed evacuazione forzata di altri villaggi], nonostante vengano continuamente disconosciuti i diritti all’autodeterminazione del popolo curdo…il diritto d’asilo in Italia stenta a trovare riconoscimento per i cittadini curdi, così come per molti altri che fuggono da situazioni di guerra e persecuzione”. Sottolineano come i dubbi sull’ammissione della Turchia alla comunità europea siano stati espressi anche in sede di parlamento europeo e come tali dubbi derivino proprio “dalla constatazione delle evidenti violazioni dei Diritti umani in Turchia, oltre che dallo scarso tasso di democrazia presente in quel paese”.
Paesi come la Germania ospitano 600mila rifugiati, mentre l’Italia ne accoglie circa 40mila ed è ancora sprovvista di una specifica normativa sul diritto d’asilo. Attualmente le istanze di alcuni cittadini curdi residenti a Venezia sono al vaglio della commissione nazionale; altri casi analoghi hanno già avuto risposta negativa. È scontato che sulle future decisioni influiranno sicuramente i consistenti rapporti commerciali tra Italia e Turchia, oltre al ruolo della stessa in ambito Nato.
Tuttavia, convinti che il diritto sia dalla parte dei popoli oppressi, i curdi di Venezia, attraverso lo sciopero della fame, chiedono “a gran voce che il diritto d’asilo venga riconosciuto a tutti i richiedenti e che venga ridiscussa la posizione di chi ha già avuto risposta negativa”. E concludono: “Di fronte a chi fugge da terre dove c’è una situazione di persistente repressione e assenza di democrazia, il diritto d’asilo è l’unica risposta civile e l’unica possibile”. Hanno chiesto quindi la solidarietà e il sostegno di partiti, organizzazioni sindacali, associazioni e cittadini veneziani a questa loro protesta.

41) Intervista a Verena Graf – 2 (2005)

Verena Graf è Segretaria Generale e Rappresentante permanente della Lega Internazionale per i Diritti e la Liberazione dei Popoli (LIDLIP) all’ONU. L’abbiamo incontrata a Ginevra per un’intervista incentrata sull’attività dell’organizzazione e sullo stato di alcune lotte anticoloniali.

Come ha avuto inizio la sua militanza in favore dei diritti dei popoli?
Ho avuto il privilegio di essere iniziata ai Diritti dei popoli da Lelio Basso, fondatore della LIDLIP, ed è da questa circostanza che ha preso inizio il mio percorso. Ho potuto incontrare personalmente esponenti di popoli che lottavano contro il colonialismo per la loro liberazione o che si opponevano ai loro stessi governi quando si trattava di dittature.

In che modo l’attività della LIDLIP si è collegata alle istituzioni delle Nazioni Unite?
Nel 1979 la Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli ha ottenuto lo statuto consultivo presso il Consiglio Economico e Sociale (ECOSOC), statuto che permette di intervenire nelle istanze dell’ONU. Dato che non esiste, in seno all’ONU, una struttura specifica che tratti dei diritti dei popoli, abbiamo dovuto adattarci nel miglior modo possibile alle strutture e istanze che trattano dei diritti umani, cioè di diritti individuali. È così che, dal 1980, la LIDLIP interviene tutti gli anni non solo nella Commissione dei diritti umani e nella sottocommissione, ma anche in numerose riunioni e gruppi di lavoro: per i popoli indigeni, in difesa delle minoranze, eccetera.
In breve: la LIDLIP è presente dovunque sia possibile far sentire la voce dei “senza voce”. Essendo l’ONU composta di Stati, di istituzioni specializzate (all’epoca anche di qualche movimento di liberazione), la società civile, i gruppi democratici che si oppongono a governi totalitari, devono passare attraverso le ONG (Organizzazioni Non Governative) come la nostra. E così ci toccò parlare per dei popoli che non avevano voce in capitolo. È emblematico il caso di un movimento di liberazione come il POLISARIO (Fronte di liberazione della Saghiat El Hamra e del Rio de Oro, le due regioni del Sahara Occidentale ex spagnolo) che anche oggi deve far passare la sua voce, il suo messaggio, attraverso una ONG, nonostante rappresenti la RASD (Repubblica Araba Saharawi Democratica), uno Stato membro dell’Unione Africana.
Anche il FRETILIN (Frente Revolucionària de Timor-Leste Independente) ha avuto la possibilità di farsi ascoltare attraverso la LIDLIP; il Premio Nobel per la pace José Ramos Horta, oggi ministro degli Affari Esteri del neo Stato Timor orientale, per molti anni ha dovuto accontentarsi di parlare attraverso le ONG.

Nessuno ha mai pensato di dare anche a voi un premio Nobel (magari alternativo) per la Pace?
Noi non abbiamo mai ricevuto nessun premio, solo a volte delle testimonianze di riconoscimento da parte dei popoli per cui eravamo intervenuti (Filippine, Argentina…). Ma più spesso abbiamo ricevuto critiche e anche subito ritorsioni. Per esempio, nel 2003, abbiamo dovuto comparire davanti al Comitato delle ONG a New York per difendere il nostro statuto. Era stato messo in discussione dalla Turchia con una nota verbale per una comunicazione scritta che noi avevamo presentato alla Commissione dei diritti umani nel 2002.
Nella sua nota verbale la Turchia sosteneva che la LIDLIP aveva minacciato la sua integrità territoriale per aver raccontato l’esodo del popolo del Ponto (Ponte Eusino, oggi Turchia), la cui presenza nella regione è provata sin dal VIII secolo a.C.
Tra le cause di questo esodo va ricordato anche il Trattato di Losanna (1923) che definì le minoranze sulla base dell’identità religiosa e non etnica. Ancora oggi questa popolazione (o meglio: quello che ne rimane) viene discriminata e repressa da parte delle autorità turche. Non esiste insegnamento nella loro lingua, molto vicina al greco antico, quello che parlavano Diogene e Strabone. E questo avviene ancora oggi, anche se la Turchia pretende di avere migliorato le condizioni delle sue minoranze. Proprio recentemente ho incontrato in Grecia alcuni superstiti pontiaci, qui immigrati recentemente dopo un lungo periodo di esodo nel Caucaso, nell’ex Unione Sovietica e in Germania.

Quelle del Ponto e degli armeni non sono state le uniche polemiche della LIDLIP con la Turchia. Ricordo che vi siete interessati anche dei curdi e di Cipro.
Alle dispute che la LIDLIP ha avuto con la Turchia bisogna aggiungere la sorte dei curdi, un popolo di cui ci siamo occupati fin dal 1984. La Turchia non ha mai riconosciuto la loro identità, ha cercato di cancellarne perfino la lingua. La LIDLIP resta vigile – malgrado le modifiche cosmetiche apportate alla Costituzione per adeguarsi ai criteri di Copenhagen in vista dell’integrazione nella UE – affinché anche ai curdi siano garantiti spazi democratici di libertà di associazione, di partiti politici, eccetera.
Una recente missione mi ha portato a Cipro, una questione sulla quale siamo intervenuti ben 10 volte, non solo in sede ONU, ma anche all’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e la Sicurezza in Europa). Ho constatato nuovamente di persona quello che ripetevo da anni. La situazione deve essere risolta con giustizia per i greco-ciprioti, ma non come proposto da Kofi Annan nel suo Piano che del resto è stato respinto dal 75% della popolazione. La Turchia che ha invaso Cipro nel 1974, che ha portato decine di migliaia di coloni per modificare la demografia nell’area occupata del nord, non è ancora disposta a riconoscere uno Stato sovrano, membro dell’Unione Europea a cui pretende accedere.

Negli anni Ottanta eravate invece “nel mirino” dell’Etiopia a causa del vostro impegno per l’Eritrea.
Quando siamo intervenuti sulla guerra di liberazione dell’Eritrea contro l’Etiopia, quest’ultima ci ha accusato in sessione plenaria di essere mouthpiece of the bandits, portavoce dei banditi, ma questa imputazione si limitò a una menzione riportata nei verbali analitici onusiani. Del resto all’epoca eravamo una delle tre sole ONG, fra le centinaia presenti, che osavano parlare per i… banditi, perché le cause dei popoli raramente sono popolari. Mi chiesi allora se avesse qualche senso un nostro intervento di pochi minuti all’ONU, in plenaria. Forse, penso ora, non ebbe molta incidenza sugli Stati. Ma ho potuto verificare di persona che aveva influito positivamente sul morale dei militanti eritrei, quelli che incontrai come osservatrice internazionale ad Asmara, al momento del referendum per l’indipendenza. Mi dissero che, mentre erano in clandestinità, sentivano via radio che a Ginevra, all’ONU, Verena Graf stava parlando della loro lotta e questo era uno stimolo per continuare. Naturalmente queste considerazioni non fanno che acuire l’amarezza per quanto sta avvenendo ora in Eritrea [con Verena abbiamo parlato dei 161 giovani recentemente arrestati e poi fucilati per una rivolta nel campo di prigionia].

Altre condanne nei vostri confronti da parte di Stati responsabili di violazioni in materia di diritti umani e diritti dei popoli?
Una volta l’allora ambasciatore del Marocco mi gratificò dell’appellativo di “mercenaria della parola” per aver parlato del Sahara Occidentale, una questione di decolonizzazione ancora irrisolta.
Naturalmente siamo riusciti a far arrabbiare anche la Cina: ci minacciò di “prendere delle misure” (ossia farci tacere) per via dei nostri interventi sul diritto all’autodeterminazione del popolo tibetano, in seguito alla sessione del Tribunale Permanente dei Popoli (un’altra creatura di Lelio Basso) tenutasi nel 1992. Uno dei nostri compiti in questi 25 anni di attività è stato quello di portare le sentenze del Tribunale Permanente dei Popoli in istanza onusiana, davanti alla comunità internazionale.

Certo non deve essere facile occuparsi di popoli oppressi e di lotte di liberazione, soprattutto dopo l’11 settembre…
Questo compito di parlare per i popoli non è mai stato facile, perché troppo spesso siamo stati messi sullo stesso piano dei protagonisti di quelle lotte, degli “attori”, talvolta considerati “terroristi” anche prima dell’11 settembre, producendo di conseguenza degli amalgama incresciosi. Non scordiamoci, a riguardo, che anche Yasser Arafat era stato qualificato “terrorista” per molti anni, ma questo non ha impedito che ricevesse il premio Nobel per la pace. E non dimentichiamo che qualcosa di simile è accaduto perfino a Nelson Mandela quando nel 1960 portò l’ANC (fino ad allora nonviolenta) alla scelta delle armi contro l’apartheid.

Recentemente si è tornati a parlare del genocidio subito dagli armeni. Ricordo di aver preso parte a tre giorni di conferenze e dibattiti (organizzati dalla Fondazione Lelio Basso) a Venezia nel 1985. Cosa può dirci in proposito?
Una questione di grande attualità che abbiamo richiamato per anni è quella del genocidio degli armeni, genocidio che la Turchia continua a non riconoscere anche se è una delle condizioni per accedere all’Unione Europea. Vorrei anche aggiungere che l’autodeterminazione è un diritto che spetta a ogni popolo, anche agli armeni dell’Alto Karabakh (regione a larga maggioranza armena, arbitrariamente posta nel 1923 da Stalin sotto la giurisdizione dell’Azerbaigian e oggi in una situazione di indipendenza di fatto dopo l’armistizio siglato dai presidenti dell’Armenia e dell’Azerbaigian il 12 ottobre 1997, che ha finora posto fine a un cruento conflitto tra i due paesi), dove ho avuto il privilegio di trovarmi in qualità di osservatrice internazionale alle prime elezioni. Troppo spesso purtroppo quella dell’autodeterminazione è una causa emarginata dalla storia.

Nel 1995, in occasione del suo intervento a Vicenza, invitata dalla sezione locale della Lega per i diritti e la liberazione dei popoli, aveva parlato anche della Colombia.
La questione della Colombia (basti pensare al suo primato mondiale per i “rifugiati interni”, alla guerra sporca contro sindacalisti, insegnanti, esponenti delle comunità di base…) è oggetto di interventi e comunicazioni della LIDLIP da numerosi anni, senza tregua. Ma la situazione non migliora, perché la comunità internazionale considera la Colombia un paese veramente democratico per il solo fatto che celebra delle elezioni.

Altri popoli “scomodi” di cui vi siete occupati negli ultimi anni?
Sicuramente i tamil, un popolo di Sri Lanka (dove ufficialmente vige da un paio d’anni un “cessate il fuoco”, anche se si dovrebbe parlare di “shadow war”, guerra oscurata) che rivendica il diritto all’autodeterminazione. Anche i tamil sono considerati “terroristi” e recentemente sono stati inseriti nella “lista nera” dell’Unione Europea, dopo quella degli Stati Uniti. Potete immaginare quanto sia difficile parlare per questa causa; però la LIDLIP intende ugualmente rimanere il portavoce per chi non ha voce nella piattaforma internazionale.
E anche in Europa esiste un popolo, i baschi, che viene considerato “terrorista” a causa della violenza che insanguina la penisola iberica e il paese basco in particolare. Ecco quindi che anche in questo caso diventa difficilissimo rivendicare una risoluzione del conflitto.
Un nostro assistente e collaboratore per il lavoro diplomatico all’ONU, avvocato di professione con il compito di sottoporre all’Alto Commissariato per i Diritti Umani materiale e prove della tortura praticata nelle carceri spagnole su detenuti baschi, è stato accusato dalla Spagna di essere “vincolato a banda armata”. Hanno così ottenuto che il Direttore Generale dell’ONU di Ginevra gli vietasse l’accesso, costringendolo a interrompere la sua attività in quanto ritenuta “nociva per uno stato membro dell’ONU”. Grazie ai nostri interventi con funzionari dell’ONU e giornalisti siamo riusciti a convincere il Direttore Generale affinché richiedesse alla Spagna delle prove prima di interdire l’accesso all’ONU a chi lavora nelle regole di una ONG per i diritti umani. Non è stata fornita nessuna prova. E oggi queste informazioni (la “corrente d’informazione”) continuano a fluire all’ONU; anche perché l’uso della tortura sembra essere diminuito, ma non è certo scomparso dalle caserme e dai commissariati spagnoli. E la LIDLIP continua a denunciare queste violazioni dei diritti umani, ma continua soprattutto a promuovere il dialogo per arrivare a un tavolo di negoziazione tra baschi e governo spagnolo, con la speranza di una soluzione politica.

42) Turchia in Europa senza discutere dei curdi (gennaio 2006)

Serdar Demirel faceva parte di un gruppo di “volontari del digiuno fino alla morte” dedicato alla memoria di Fidal Kalsen. È morto il 7 gennaio 2006 all’ospedale Numune di Ankara. Sembra che Demirel, da tempo in sciopero della fame, avesse tentato il suicidio verso la metà di dicembre per protestare contro l’isolamento. Contro la sua volontà era stato trasferito prima nell’infermeria della prigione e poi all’ospedale, subendo l’alimentazione forzata (una “forma di tortura” per Amnesty International). Come conseguenza aveva perso la memoria e il 4 gennaio, dopo vari tentativi di alimentarlo artificialmente, aveva avuto una crisi cardiaca. Tre giorni dopo, nuove complicazioni ne hanno determinato il decesso. Il suo caso non è certo l’unico. Sono già 121 i prigionieri morti nelle carceri turche dall’inizio della protesta. Qualche nome: Feride Harman, Lale Kolak, Yusuf Araci, Sevgi Erdogan, Sibel Surucu, senay Hanoglu, Latice Yurekli, Muharren Horz…
Inoltre più di 600 militanti hanno subìto danni irreparabili, fisici e psichici (in particolare la perdita della memoria) a causa dei sistemi particolarmente brutali di alimentazione forzata. I prigionieri turchi di estrema sinistra (militanti dei partiti TIKP e DHKP, considerati terroristi dal governo turco) adottarono questa forma disperata di lotta anche nel 1996 (10 morti) e poi nel 2000, quando ebbe inizio la protesta, ancora in corso, contro le celle di isolamento e deprivazione sensoriale di tipo “F”. Anche numerosi familiari dei detenuti si sono associati alla protesta e alcuni hanno perso la vita nello stesso modo.
E intanto dal “fronte curdo” non arrivano buone notizie.
Delusione. Era questo il sentimento prevalente tra alcuni immigrati curdi (incontrati in ottobre a Mestre, durante un’iniziativa pubblica) dopo la decisione dell’Europa di socchiudere la porta alla Turchia (“fortunatamente” precisano) senza però inserire la questione curda nell’agenda.
Eppure, sostengono, “a partire dal 1999 i curdi hanno fatto molto per rendere possibile un clima di pacificazione come chiedeva esplicitamente l’Europa, condizione preliminare per l’avvio di negoziati. Ci aspettavamo almeno di rientrare tra i punti ritenuti determinanti nel monitoraggio dei progressi in materia di diritti umani compiuti dalla Turchia”.
Mehdi Zana (ex sindaco curdo di Diyarbakir, incarcerato per 11 anni e sottoposto a torture) aveva detto di considerare l’ingresso della Turchia in Europa “una questione umanitaria”. E spiegava: “La democrazia potrebbe crescere maggiormente se la società e il paese fossero aperti, avessero scambi con altri paesi. La repressione contro il nostro popolo potrebbe allentarsi se in Europa si cominciasse seriamente a discutere sulla questione curda”. Anche in Kurdistan, mi informano, “prevale l’amarezza”. La fine di settembre 2005 aveva già visto naufragare le speranze di dialogo alimentate dal discorso del 12 agosto del primo ministro Erdogan che aveva riconosciuto “l’esistenza di una questione curda”. Immediatamente l’organizzazione armata curda Kongra-Gel (PKK) aveva dichiarato una nuova tregua unilaterale di un mese, fino al 20 settembre. A conclusione di una precedente tregua unilaterale, iniziata nel 1999 dopo l’arresto di Ocalan, le azioni della guerriglia curda erano riprese nel giugno 2004 (e in questa fase tra le vittime c’erano stati anche dei civili). Anche altri eventi avevano fatto ben sperare. Il Parlamento europeo aveva deciso di ospitare una seconda conferenza internazionale sulla questione curda e il “Movimento per la società democratica” (DTH) diretto da Leyla Zana (ex deputata, incarcerata per aver pronunciato un discorso in lingua curda), insieme ad altri organismi sociali e politici curdi (tra cui 57 sindaci) avevano inviato richieste e appelli, firmati anche da numerosi intellettuali turchi, per l’avvio di un processo di pace. Inoltre circa 120 personalità della cultura e della politica di tutto il mondo avevano redatto un “Appello internazionale di solidarietà per la pace e il dialogo in Turchia”. Ma poi le dichiarazioni del governo turco (che avevano fatto sperare in un cambiamento di rotta) sono state cancellate dall’operato dei militari e dei gruppi nazionalisti turchi.
Pochi giorni dopo il discorso di Erdogan a Batman, l’esercito turco ha attaccato i guerriglieri (infischiandosene della tregua), uccidendone sei. Davanti all’ospedale dove erano stati portati i cadaveri si era riunita immediatamente una folla di civili che ne chiedeva la restituzione. La polizia ha aggredito i manifestanti uccidendone uno e ferendone molti altri. Dall’agosto 2005 in poi i militari sono intervenuti contro la popolazione curda in varie occasioni: a Diyarbakir, Siirt, Kurtalan, Silvan, Midyat…
Gruppi di nazionalisti turchi (“Lupi Grigi”) hanno attaccato ripetutamente, sotto lo sguardo indifferente della polizia, i partecipanti alla Marcia verso Gemlik, organizzata dalla “Federazione delle Associazioni dei familiari dei detenuti” (Tuhad-Fed) per protestare contro le condizioni in cui versa “Apo” Ocalan. All’inizio del settembre 2005, dopo aver fatto ampio uso di manganelli e gas lacrimogeni, la polizia ha arrestato a Istanbul una novantina di curdi che manifestavano a favore del leader del PKK. Nel suo comunicato di settembre la sezione di Diyarbakir dell’Idh (Associazione turca per i diritti umani) aveva segnalato in soli tre mesi ben 959 violazioni dei diritti umani in Kurdistan a cui bisogna aggiungere 165 persone arrestate nello stesso arco di tempo.
E naturalmente non sono soltanto i curdi a subire la repressione. Il 12 settembre 2005, anniversario del colpo di stato del 1980, sono state duramente colpite le manifestazioni di quanti chiedevano l’incriminazione dei responsabili.
Da parte del Kongra-Gel (PKK), con circa 120 caduti nello stesso periodo, la tregua veniva ulteriormente prorogata fino al 3 ottobre 2005, giorno della sessione del Consiglio dei ministri dell’Unione europea in cui si doveva decidere in merito all’ingresso della Turchia. Ma questo non ha impedito un tragico epilogo. Rischiando probabilmente di perdere una (per quanto remota) possibilità di soluzione politica, l’8 ottobre il Kongra-Gel annunciava la fine del “cessate il fuoco”. Decisiva è stata l’assenza di menzione del problema curdo nel documento dei negoziati tra Unione europea e Turchia. L’organizzazione curda ha dichiarato che “ancora una volta i curdi sono stati sacrificati dalla Ue”. Per aggiungere: “ora il problema curdo non è più solo della Turchia, ma è un problema di fondo della Ue”.
All’inizio di novembre 2005 veniva colpita con un attentato la libreria di un ex militante del PKK a Semdinli e l’esplosione provocava la morte di una persona. Un curdo considerato “collaborazionista” e i due poliziotti organizzatori dell’attentato, venivano colti sul fatto. Per portare in salvo i tre responsabili che rischiavano il linciaggio, la polizia sparava sulla folla uccidendo una seconda persona. Il partito filogovernativo PJD si è visto costretto a dichiarare l’apertura di una inchiesta. In seguito, il 15 novembre 2005, la polizia ha ammazzato tre persone nella località di Juksekova durante una manifestazione di protesta per i fatti di Semdinli. Forse in risposta a questi avvenimenti è giunta la notizia che nella provincia di Van, tre militari turchi sono saltati in aria per l’esplosione di una mina. Ankara ha attribuito al PKK la responsabilità di questo attacco. Ed è notizia di questi giorni l’ennesimo “malore” di Ocalan, ancora in cella di isolamento.

43)Armenia, genocidio dimenticato – intervista a Baykar Sivazliyan – 1 (febbraio 2006)

Iniziamo con qualche notizia biografica e sulla sua attività di docente e scrittore. In quali circostanze la sua famiglia è arrivata a Venezia?
Sono nato in una famiglia di sopravvissuti al Primo Genocidio del Ventesimo secolo. I miei nonni venivano da parte di mio padre dalla città di Sivas e quelli di mia madre dalla città di Erzurum, entrambi situati in Anatolia, nell’Armenia Occidentale con una forte presenza armena di cittadinanza ottomana, annientata durante il Genocidio perpetrato dal governo Ottomano dei Giovani Turchi fra gli anni 1915-21. Attualmente in tutte due le città non esistono più armeni, come in tutta l’area circostante dell’Armenia Storica.
Successivamente, dopo il Pogrom del 1956 contro i greci e il golpe militare del 1960, le minoranze in Turchia non avevano più un futuro garantito. Nel 1966 i miei genitori mi hanno mandato, da solo, avevo 12 anni, a Venezia dove allora esisteva ancora un Collegio Armeno e dove ho finito le medie e il liceo. In seguito ho frequentato l’Università Cà Foscari. Subito dopo la laurea ho iniziato a insegnare, prima nel Liceo Armeno e di seguito presso l’Università Statale di Milano, la lingua armena. Fra gli anni 1999-2005 ho avuto anche un incarico di insegnamento di Lingua e Letteratura Turca presso l’Università di Lecce, in quanto sono specializzato sia nella Storia Medio Orientale che in Lingua e Letteratura Turca.

Il genocidio subìto dagli Armeni è ancora argomento attuale di discussione e polemiche. È possibile quantificare il numero delle vittime? Quali metodi ha usato lo stato turco per operare questo sterminio?
Ovviamente chi organizza scientificamente un genocidio tenta di cancellare non solo le tracce ma anche gli indizi. Nel caso della Amministrazione Ottomana gli “indizi” sono rimasti indirettamente, attraverso la documentazione degli archivi ottomani, la documentazione del Patriarcato Armeno di Istanbul e soprattutto come fonte imparziale, le relazioni dei consoli generali e degli ambasciatori dei paesi occidentali (in modo particolare di quelli di Stati Uniti, Russia, Germania, Italia, Francia, Inghilterra) e la documentazione delle missioni religiose operanti sul territorio Ottomano abitato dagli armeni.
Secondo questi dati, almeno un milione e cinquecentomila armeni sono periti e circa altrettanti sono stati sradicati dal proprio territorio, sparpagliati nei diversi paesi del mondo formando la nuova Diaspora Armena, che oggi è più numerosa degli abitanti della Repubblica dell’Armenia. Per quanto riguarda le polemiche, io penso che siano diventate in mano al governo della Turchia un metodo per rinviare una seria discussione e la nascita di un pacchetto di soluzioni accettabili da tutte e due le parti. Capisco le difficoltà dei dirigenti turchi; purtroppo per decenni hanno mentito al proprio popolo, raccontando menzogne non soltanto riguardo alla questione armena ma per tutte le questioni storicamente importanti della nazione turca degli ultimi due secoli. Fanno parte di questa sfilza di bugie piccole e grandi la questione cipriota, quella curda, quella dei diritti umani, la situazione sociale e così via. Adesso però si sentono costretti ad aggiustare la mira ma ovviamente con molte difficoltà: il popolo turco è più informato e inizia a distinguere il vero dal falso. Non si può, per esempio, risolvere la questione curda dicendo che i genitori del Presidente Abdullah Ocalan erano di origine armena… i primi a non accettare più questa tragicommedia sono proprio i turchi.

Cosa rappresenta l’attuale stato dell’Armenia? È riuscito a salvaguardare la cultura, la lingua, l’identità del popolo armeno?
L’Armenia, nata nel 1918 e dal 1920 facente parte dell’ex Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, è diventata un paese indipendente nel 1991. È situata su un decimo del suo territorio storico, è la periferia di se stessa. Prima ancora di guarire dalle ferite del Genocidio, ha dovuto sopportare anche quelle della Seconda Guerra Mondiale in cui 250 mila armeni sono caduti con l’esercito dell’Unione Sovietica combattendo contro il nazismo.
La salvaguardia della cultura e della lingua è sempre stata una irrinunciabile priorità per gli armeni, assieme alla propria complessa identità. La nazione armena, preparata e aperta all’integrazione, non ha però mai perso la propria cultura di appartenenza, anche quando ha dovuto lasciare la propria casa e allontanarsi dalla terra dei propri padri. Lo stato dell’Armenia e le organizzazioni culturali della Diaspora sono stati complementari in questa opera colossale di salvaguardia della propria identità nazionale.

Qual è la situazione della diaspora armena (sia nel mondo sia nel Veneto, a Venezia in particolare)?
La Diaspora Armena è molto vasta, in quanto frutto del Primo Genocidio del XX secolo e della conseguente deportazione dei sopravvissuti. Per parlare dei grossi numeri posso dire che in Francia vivono circa mezzo milione di Armeni, negli USA più di un milione, in Russia due milioni e a Istanbul in Turchia sessantamila persone. In Italia siamo circa 3000 e nel Veneto non superiamo le 300 anime, a Venezia meno di 100. Comunque vorrei ricordare che indipendentemente dalla quantità, Veneto e Venezia sono stati sempre centri importantissimi per l’armenità intera. I primi Armeni vennero già nel XII secolo a Venezia, come già nel 1299 i Veneziani avevano un Bailo nel Regno Armeno di Cilicia. Il primo Libro armeno a stampa è stato pubblicato nel 1512 a Venezia, la più grande Congregazione Armena della storia Culturale degli armeni ha tuttora sede sull’Isola di San Lazzaro nella maestosa Laguna di Venezia. Dal 1836 al 1996 è esistito il Collegio Armeno Moorat-Raphael di Venezia che ha forgiato tutti i migliori intellettuali armeni per più di un secolo e mezzo, sia per l’Occidente sia per l’Oriente. Oggi gli armeni della Diaspora hanno decine di organizzazioni culturali e politiche, sono impegnati individualmente nell’arte, nella cultura, nella politica, nelle professioni dei rispettivi paesi d’adozione. Nel Veneto per esempio sono molto familiari i cognomi: Babighian, Arslan, Gianikian, Zekiyan, Pazargiklian, Mildonian, e tanti altri, stimati medici, intellettuali, architetti, studiosi, economisti, eccetera.

Il Parlamento curdo in esilio ha pubblicamente riconosciuto le responsabilità dei curdi nel genocidio degli armeni. Quali furono le circostanze di questa complicità con lo stato turco e qual è l’importanza di questa dichiarazione?
L’Impero Ottomano si è sempre servito di gruppi sotto il suo controllo, per aizzare questi contro un’altra minoranza, sia nazionale che religiosa.
L’organizzazione feudale dei curdi ha fatto sì che l’input del governo centrale ottomano trovasse presto presa su una parte della popolazione che doveva obbedienza cieca al capo villaggio. Inoltre le proposte allettanti fatte ai curdi che avrebbero potuto impossessarsi dei beni degli armeni, comprese le donne (nella loro mentalità anch’esse facenti parte dei beni) ha fatto il resto. Non è un caso che quasi tutti i miei amici curdi abbiano almeno una nonna di origine armena e che continuino a chiamarmi dayi, parola turca che indica lo zio da parte della mamma.
In seguito i curdi hanno avuto nell’Armenia un grosso alleato. A Yerevan, capitale della Repubblica Armena, esiste tuttora un istituto rinomatissimo di studi curdi, un teatro in curdo e una radio in lingua curda. Tutto questo quando in Turchia, dove almeno un quarto della popolazione è di origine curda, solo la pronuncia del nome “curdo” o della parola “Kurdistan” significava essere sbattuti in galera senza un processo ed essere tacciati di separatismo o peggio ancora di terrorismo. A me personalmente fa molto piacere il pronunciamento del Parlamento curdo in esilio, il rammarico sincero per il Genocidio degli Armeni, ma tanti altri armeni si aspettano una posizione più chiara da parte dei curdi. Una esplicita autodenuncia della loro complicità diretta; solo così la verità verrebbe in superficie e la giustizia potrebbe trionfare. Altrimenti questa dichiarazione rischia di diventare uno dei tanti proclami fatti da numerosi parlamenti dell’Europa e del Mondo che presentano dopo 90 anni il loro “dispiacere” per un fatto “increscioso”, certe volte senza nemmeno indicare chiaramente il responsabile e condannare apertamente la Turchia. Il cambio di regime o gli interessi concreti di oggi non possono indurci a digerire l’indigesto. Che senso avrebbe oggi condannare l’Olocausto, esternare il nostro dispiacere senza citare che c’è stato un regime nazista e uno stato scellerato che ha scientificamente organizzato l’annientamento del popolo ebraico?

Probabilmente il genocidio degli armeni è stato il primo caso (per il XX secolo) in cui uno stato fece massacrare milioni di suoi cittadini…
I Giovani Turchi, nazionalisti, che avevano preso il potere nello stato Ottomano, scossi all’inizio del XX secolo dalle grosse perdite di territori e conseguente potere, hanno creduto che salvando la parte essenzialmente “turca” dell’Impero Ottomano, potevano sopravvivere al proprio sogno di panturchismo e di panturanismo e conservare quello che rimaneva dal vasto impero plurinazionale e multietnico. Si tratta di una questione, oltre che morale ed etica, soprattutto tecnicamente giuridica: l’assassinio di una intera nazione. Ed è proprio per questo motivo che i giudici turchi della corte marziale che portò in giudizio i dirigenti politici del Comitato Unione e Progresso (Giovani Turchi) e i capi militari del periodo di guerra, li accusarono il 26 aprile 1919, di “deportazioni… e sterminio di tutto un popolo che costituiva una comunità distinta”. Dopo tre mesi, il 19 luglio 1919, il verdetto della corte marziale condannò a morte in contumacia i principali dirigenti dell’epoca (tra loro i triumviri Taalat Pascià, Enver Pascià e Ahmed Gemal) e a 15 anni personaggi ritenuti di secondo piano. Oggi, con il senno di poi, possiamo affermare che non c’è stata una sufficiente memoria storica nel condannare questo Genocidio, altrimenti fatti tragici del genere non si sarebbero ripetuti durante gli anni bui del secolo appena passato anche nei confronti del popolo ebraico…

Diceva che la questione non è solo quella degli armeni, dei curdi, di Cipro, ma della Turchia stessa, in crisi economica e sociale. Potrebbe ampliare questo concetto?
Come tutte le nazioni in crescita rapida anche la Turchia sta vivendo i guasti del capitalismo sfrenato. Io non sono un economista, posso solo constatare quello che vedo passeggiando nelle vie della città dove sono nato, Istanbul. Esistono due economie, quella interna in lira turca e quella esterna in dollari o in euro. La gente arranca per arrivare alla fine della giornata in una situazione confusa ed economicamente molto precaria. I giovani non hanno prospettive; non aggiungerei la situazione dell’Anatolia che per errori di valutazione economica è stata completamente svuotata dei suoi abitanti e della propria produzione agricola, essenziale per il paese. Fino a un ventennio fa la Turchia era un paese assolutamente autosufficiente per il suo approvvigionamento alimentare; oggi è normale acquistare in negozio un pollo ungherese, burro tedesco e frutta che arriva da altri paesi mediterranei. Malgrado l’esportazione si faccia ormai con parametri e prezzi internazionali (e di conseguenza anche l’importazione), l’operaio continua a essere retribuito con parametri “locali” assolutamente insufficienti per far fronte alla propria vita quotidiana. Questa situazione potrebbe creare a medio termine guasti significativi e preoccupanti nella sfera sociale del paese.

Dovendo fare una richiesta al popolo turco…?
I turchi sono un popolo mite e buono; questa loro eccessiva bontà ha fatto sì che numerosi capi, anche nella storia recente, abbiano potuto manipolare i sentimenti nazionali e soprattutto religiosi della popolazione, creando situazioni inaccettabili per il futuro. Personalmente chiederei di essere più coraggiosi nel fare ordine nei loro armadi storici, tirando fuori tutti gli scheletri scomodi. Sono una grande nazione, non devono temere le conseguenze, che saranno sicuramente più edificanti della attuale situazione, di questo continuo nascondersi dietro un dito. I principali popoli con i quali hanno avuto epiloghi tragici sono tutti loro vicini, sono popoli con cui hanno vissuto lunghi periodi di pace e di prosperità. E pensare che loro stessi chiamavano gli armeni Millet-i Sadika, popolo fedele. Si deve ricominciare da quel punto.

44) Riesplode l’intifada curda (ma a fare notizia sono soltanto le bombe del TAK) (agosto 2006)

Le lacrime dei curdi, il dolore dei curdi e il sangue dei curdi non sembravano scuotere più di tanto l’opinione pubblica occidentale. Sia la ripresa su larga scala delle operazioni militari dell’esercito turco che la nuova intifada curda, non avevano quasi aperto breccia nel muro dei media. Poi sono arrivate le bombe del TAK. Il bilancio più grave in agosto, ad Antalya. All’interno di un chiosco scoppia una bomba: quattro morti e una settantina di feriti. Altre bombe erano esplose nelle ore precedenti a Marmaris (l’attentato in un minibus ha causato una ventina di feriti, tra cui dieci turisti inglesi) e Istanbul (sei feriti nel quartiere di Bagcilar). Altre esplosioni, senza conseguenze, davanti a un fast-food e presso la sede di una compagnia aerea. In aprile il TAK aveva preannunciato una campagna contro il turismo (una delle maggiori risorse econonomiche della Turchia, aumentata del 68% negli ultimi 4 anni) avvertendo di “stare lontani dalla Turchia”. Con la sigla del TAK (“Falchi per la libertà del Kurdistan”) erano già stati rivendicati altri attentati l’anno scorso. Il 16 luglio 2005 una bomba in un minibus aveva ucciso 5 turisti a Kusadasi, mentre il 2 agosto dello stesso anno sei persone erano rimaste ferite ad Anyalya. Ennesimo attentato il 18 settembre, ad Antalya: un ordigno su un autobus uccide due persone e ne ferisce una decina. Quest’anno il TAK aveva già colpito a Manavgat il 25 giugno 2006 causando quattro morti (tra cui tre turisti).
Gli attentati compiuti dal TAK (un gruppo che si ritiene sia fuoriuscito dal PKK) gettavano una luce inquietante sulle vacanze degli europei. In aprile se ne era occupato anche l’Economist. Dopo aver precisato che negli ultimi anni l’economia turca si era “stabilizzata”, l’Economist ha mostrato preoccupazione perché starebbe “risorgendo la questione curda”, forse rammaricandosi che non fosse stata definitivamente sepolta con la cattura di Abdullah Ocalan.
Negli scontri di fine marzo 2006 tra popolazione e polizia erano morti una ventina di manifestanti, tra cui quattro bambini. Per non parlare delle centinaia di feriti. La rivolta era iniziata, il 28 marzo, dopo i funerali di 14 militanti del PKK uccisi dalle forze di sicurezza turche. Sui loro cadaveri i segni inequivocabili dei gas. Le proteste più dure si erano registrate a Kiziltepe, mentre a Diyarbakir centinaia di persone venivano arrestate. Venerdì 31 marzo 2006 una bomba del TAK aveva provocato un morto e undici feriti a Istanbul e solo a questo punto la stampa occidentale si era accorta che il Kurdistan stava bruciando. Anche la Ue era intervenuta esprimendo preoccupazione e chiedendo a Erdogan di proseguire sulla strada del suo discorso dell’agosto 2005 a Diyarbakir quando aveva detto che “la questione curda è un nostro problema e va risolto”. Ma l’Europa si è ben guardata dal condannare la ripresa delle operazioni militari, l’uso delle armi contro i manifestanti, l’occupazione da parte dell’esercito delle città curde e la persecuzione nei confronti del DPT, il partito di Leyla Zana.
Il 1 aprile 2006 un altro giovane manifestante curdo veniva ucciso dalla polizia. A Istanbul il giorno successivo, nell’incendio di un autobus colpito da una molotov muoiono tre persone. Nei giorni immediatamente successivi i “Falchi” rilanciavano le loro minacce contro le installazioni turistiche, invitando chi aveva intenzione di recarsi in Turchia a ripensarci. Il 3 aprile altre tre vittime della repressione a Istanbul, due a Kiziltepe e due a Diyarbakir. Scontri anche a Viransehir. Un migliaio le persone arrestate e molti, secondo gli avvocati, sarebbero stati sottoposti a tortura. Arrestato anche il presidente del DPT della città di Batman, nonostante il partito avesse ripetutamente invitato al dialogo. In varie occasioni i manifestanti avevano assalito le banche di proprietà di Oyak. Sorto come fondo privato pensionistico dell’esercito, Oyak è diventato una vera forza economica e controlla banche e compagnie nei servizi, nella finanza e nell’industria. Come è noto l’esercito turco si comporta da depositario del kemalismo e si oppone alle aperture di Erdogan in merito alla questione curda. E intanto i manifestanti e le sedi delle associazioni per i diritti umani venivano assaliti da gruppi di estremisti di destra (i “Lupi Grigi”) e di nazionalisti turchi. Sempre nell’aprile 2006 si sono poi registrati duri combattimenti tra esercito e PKK con un bilancio di almeno venti morti tra guerriglieri e soldati. Ancora morti tra i curdi in armi l’11 aprile: dodici caduti del PKK (e due militari turchi) a Bestler, tra le montagne, durante uno scontro a fuoco nel corso di un rastrellamento dell’esercito. In seguito la situazione sembrava tornare dentro i “limiti di norma” della solita repressione e “guerra a bassa intensità”. Tanto bastava per stendere nuovamente sulla questione curda quel velo poco pietoso che assomiglia sempre più a un sudario funebre.
Notizie di nuovi conflitti sono giunte verso la fine di maggio 2006. La resistenza curda, attraverso il Bim – Centro di Comunicazione delle Forze di Difesa popolare (HPG) – ha diffuso un comunicato sugli scontri armati tra il 19 e il 22 maggio in cui sono morti un poliziotto e cinque soldati. Il Bim ha informato che “le operazioni militari che hanno portato agli scontri sono state avviate dalle forze armate turche nell’area rurale attorno ad Amed” aggiungendo che in quel momento “la battaglia era ancora in corso”. Il 20 maggio era stata attaccata una stazione di polizia a Ovacik, un’azione che i guerriglieri hanno dedicato al loro compagno Nadir caduto in combattimento il 15 maggio. Nello stesso giorno erano iniziate le operazioni dell’esercito turco contro il villaggio di Hacicerkez, presso Amed. Di più vasta portata quelle dal 19 al 23 maggio 2006 a Sehid Brusk, nelle zone di Prejman, Tunakrag, Beyaz cesme, Cilbeni, Piran, Xacek e Gilbe. Qui le unità turche hanno operato soprattutto nelle ore notturne ritirandosi al mattino. Il 22 maggio i guerriglieri hanno attaccato un mezzo militare diretto alla caserma di Caldiran e contemporaneamente un altro gruppo colpiva un veicolo dell’esercito presso Hamamlar. A ogni azione della guerriglia era seguito un vasto rastrellamento, pare infruttuoso, da parte dell’esercito.
Ma dal Kurdistan sta arrivando anche qualche segnale di pacificazione e offerte di dialogo (anche se per ora lo Stato turco non pare intenzionato a rispondere adeguatamente). Verso la metà di maggio Ahmet Turk, segretario del DPT (Partito della società democratica), ha dichiarato davanti al congresso del suo partito riunito nella provincia di Van che “il popolo curdo è stanco di violenza e non vuole che altri soldati e agenti di polizia muoiano in questa regione”. Ha poi aggiunto che bisogna “trovare una soluzione a questa questione” ricordando che nell’agosto del 2005 il primo ministro Recep Tayyip Erdogan aveva “ammesso che esiste una questione curda”. Per Ahmet Turk “possiamo risolvere questo problema all’interno della Turchia, ma è indispensabile che la Turchia riconosca i curdi come legittima controparte”. Il problema, ha concluso “si risolve con più democrazia”.
Purtroppo, nonostante l’atteggiamento di collaborazione del DPT, nello stesso periodo è stato compiuto un nuovo tentativo di eliminare il partito curdo.
In maggio il Tribunale Penale di Diyarbakir ha chiesto la chiusura del DPT. Presso la Corte penale di Diyarbakir è ancora in corso il processo contro Murat Avci, presidente del partito nella provincia di Siirt, accusato per i discorsi pronunciati durante le manifestazioni e gli scontri di aprile. In realtà aveva invitato i manifestanti ad astenersi dalla violenza pur riconoscendo la loro buona fede e il loro coraggio. Il procuratore si è servito delle frasi pronunciate dal dirigente curdo come pretesto per avviare un processo chiedendo la chiusura del partito in quanto “punto focale per azioni illegali”. Secondo Naci Kutlay, vicepresidente del DPT, “le prove per chiedere la chiusura del partito saranno raccolte dal procuratore generale prendendo in considerazione l’intero periodo da quando il partito è stato costituito”. Kutlay ha poi sottolineato che “questi tentativi per giungere alla chiusura del DPT non sono affatto una novità”. Tra gli ultimi processi contro esponenti curdi, va la pena di ricordare che una seconda corte (dopo il ricorso del governatore di Kars) aveva ordinato la confisca delle lettere di invito al Newroz (il capodanno curdo celebrato il 21 marzo) spedite dal DPT anche se erano scritte in turco. Infatti la parola “Newroz” era con la lettera curda “w” che in turco non esiste. Basta e avanza per violare l’articolo 81/c sui partiti politici.

45) Continua il massacro dei curdi (dall’estrema destra: “Ne uccidiamo dieci per ogni turco…”) (7 ottobre 2006)

Dal 1 ottobre il PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan, ora Kongra Gel) ha decretato unilateralmente il cessate-il-fuoco. Nella sua ultima assemblea il Kongra Gel aveva deciso di raccogliere le numerose richieste in tal senso che gli erano pervenute.
“La nostra lotta – recita un comunicato – ha raggiunto un tale livello da ritenere importante la dichiarazione di una tregua per permettere una soluzione democratica”. E continua sostenendo che “una delle due parti in causa può agire più responsabilmente di altre (…) offrendo anche alle altre parti coinvolte l’opportunità di lavorare per arrivare a un negoziato politico”.
Naturalmente politici e militari turchi si sono affrettati a ribadire che per loro “la tregua non ha alcun valore” e che il PKK può soltanto “lasciare le armi e consegnarsi alle autorità turche”. Il 2 ottobre una bomba è esplosa in un bar di Izmir causando almeno sette feriti. L’episodio in qualche modo ricorda quello ben più grave del 12 settembre 2006 a Diyarbakir che aveva provocato la morte di una dozzina di persone, più della metà bambini. Il quartiere dove era avvenuto l’attentato, Baglar, è uno dei più poveri della città e la maggioranza dei suoi abitanti sono curdi sfollati nel corso degli anni per sfuggire alle brutalità dell’esercito. Anche in quella occasione le accuse erano immediatamente piovute sui gruppi armati curdi, in particolare sui Tak (Falchi per la liberazione del Kurdistan) che in precedenza avevano rivendicato alcune azioni in località turistiche, come a Antalya dove erano morte tre persone. In seguito erano emerse altre responsabilità per l’attentato di Diyarbakir. Con una rivendicazione, le “Brigate della vendetta Turca” (TIT, una sigla dell’estrema destra turca) sosteneva di aver voluto vendicare i soldati uccisi dalla guerriglia curda e di voler “uccidere dieci curdi per ogni turco”. Nel loro sito le TIT, oltre a mostrare una foto della bomba utilizzata, hanno scritto che “il miglior curdo è il curdo morto”. Inoltre l’attentato era avvenuto nel 26° anniversario del golpe del 1980. Appariva evidente la mano dei servizi segreti, la stessa che negli anni ottanta organizzava le squadre della morte contro i curdi e i militanti della sinistra turca. Nei giorni precedenti a Diyarbakir si era tenuta una riunione del Jitem, i corpi speciali dell’esercito sospettati di operazioni illegali. Pochi giorni prima della strage del 12 settembre, il partito curdo DPT (fondato da Leyla Zana) aveva chiesto al PKK di proclamare un cessate il fuoco, ma forse una tregua non era ben vista dai militari turchi. Tanto meno una soluzione politica del conflitto. Il PKK aveva condannato la strage e, mentre alcune migliaia di persone si riunivano per protestare nel parco Kosuyolu di Baglar, aveva dichiarato che “questo è un altro episodio della guerra sporca contro il popolo curdo e un sabotaggio del processo di pace”. Da parte sua il DPT aveva detto che “poteva essere soltanto opera delle forze oscure dello stato turco”. Sedat Yurttas, vicepresidente del DPT, aveva parlato esplicitamente di “provocazione”. Nel suo comunicato il Kongra Gel sottolineava la “coincidenza dell’attentato” oltre che con gli appelli alla tregua e a una soluzione democratica “con l’arrivo ad Ankara di un emissario speciale statunitense, il generale Joseph W. Ralston, per discutere sulla presenza nel Kurdistan sud [nord dell’Iraq] di guerriglieri curdi”.
Alla prospettiva di una soluzione politica fa riferimento la risoluzione approvata alla fine di settembre dal Parlamento europeo sui diritti umani in Turchia, in cui è stato inserito un emendamento della sinistra europea che chiedeva al governo turco il riconoscimento del DPT come interlocutore e di impegnarsi per una soluzione non militare. Il parlamento europeo ha sottoscritto nella sostanza l’appello del DPT al PKK per un “cessate il fuoco”. Due giorni dopo anche il prigioniero politico curdo Abdullah Ocalan ha chiesto ai combattenti del PKK di dichiarare un’altra tregua. È probabile che anche quella di Izmir sia stata una provocazione contro l’avvio del processo di pace.
Il 16 ottobre a Strasburgo si terrà una conferenza sui diritti umani in Turchia a cui dovrebbero partecipare anche esponenti curdi e del DPT: l’avvocato Eren Keskin, Yeni Safak Karaalioglu e il difensore dei diritti umani Kerim Yildiz. Alcuni esponenti curdi in esilio riconoscono (a malincuore) che “forse è solo la presenza statunitense a impedire per ora un’invasione turca del Kurdistan iracheno”. Da tempo è nota la presenza di combattenti curdi provenienti dalla Turchia nei territori amministrati da PDK e PUK. Tempo fa si era parlato del gruppo guidato dal fratello di Ocalan che (stando alle informazione raccolte da Le Monde) sarebbe passato direttamente al servizio degli statunitensi. In seguito circolavano notizie (non confermate) di miliziani del PKK usati per sloggiare e sostituire gli abitanti arabi e turcomanni di alcuni villaggi. La Turchia era convinta che tutto l’Iraq sarebbe crollato, travolto dalla violenza e non si aspettava che il Kurdistan rimanesse in piedi. Attualmente è una zona autonoma con un governo locale appoggiato dagli Usa e meno coinvolta nelle violenze che insanguinano la Mesopotamia.
Ovviamente Ankara non vede con favore la nascita di uno stato indipendente curdo di cui in futuro potrebbero far parte anche i territori del Kurdistan sotto amministrazione turca. Per gli Usa sarebbe comunque un modo per controllare il petrolio iracheno, ma per la Turchia significherebbe la perdita del 30% della popolazione e forse ancora di più come territorio. È quindi difficilmente immaginabile che possa tollerare a lungo senza reagire l’esistenza di un “nucleo” del futuro Kurdistan indipendente. In questo quadro si è svolta ieri la visita del segretario di Stato americano Condoleezza Rice a Erbil, principale città del Kurdistan in Iraq, per colloquiare con Massoud Barzani, presidente della regione autonoma curda. La Rice ha discusso con Barzani della controversa questione della ripartizione delle risorse petrolifere. Il capo della diplomazia Usa ha ribadito la necessità di una distribuzione equa delle ricchezze derivanti dallo sfruttamento del petrolio, tentando di convincere i leader curdi iracheni a sostenere il varo di una legge in tal senso, nell’ambito del progetto del federalismo. “Il nostro punto di vista, che abbiamo esposto agli iracheni, è che il petrolio deve essere un fattore di unificazione e non una risorsa che porti a un paese meno unito”, ha precisato il capo della diplomazia statunitense. Occorre anche ricordare che solo pochi giorni fa, il 2 ottobre 2006, il premier turco Erdogan, in visita a Washington, ha ottenuto dal presidente George W. Bush l’impegno a combattere la guerriglia curda nel Kurdistan iracheno. In questo momento per la Turchia le fonti di preoccupazione sono molteplici. Sempre più viene riconosciuto il genocidio armeno ed esistono anche molte pressioni a livello internazionale sull’occupazione di Cipro. La Grecia poi sembra diventare più importante per l’Unione europea e non bisogna sottovalutare la questione delle numerose minoranze, anche religiose, presenti in Turchia che potrebbero nel giro di un ventennio provocare lo “scorporo” (o almeno la perdita del controllo politico e militare) di parte del Paese. Secondo alcuni dei miei interlocutori (esponenti dell’opposizione di sinistra turca, favorevoli all’autodeterminazione dei curdi) “queste preoccupazioni potrebbero spiegare alcuni madornali errori politici” dei vari governi turchi. Un grave errore, per esempio, sarebbe “l’alleanza con Israele, causa del profondo isolamento della Turchia nel mondo islamico”.

46) Un incontro con Xavier Jacob, assunzionista francese in Turchia dal 1959 e autore con Francesco Strazzari di Islam e Cristianesimo a confronto – conversazioni sul Bosforo (2006)

Recentemente il Nobel a Pamuk, in questi giorni il “premio Cutuli” a Elif Shafak: l’Europa sembra sinceramente interessata a valorizzare gli scrittori turchi dissidenti…
E la Francia in particolare, direi. Pamuk è giustamente considerato un grande scrittore; è molto aperto e non ha paura di trattare anche problemi delicati.
Molti intellettuali turchi vorrebbero una nazione moderna, ma finora la modernizzazione è avvenuta soltanto a livello industriale, tecnologico. Loro auspicano che avvenga anche a livello di mentalità, ma questo ovviamente è più difficile.

Entrambi gli scrittori citati hanno affrontato una delle questioni forse più scottanti per la Turchia, quella del genocidio degli armeni. Cosa può dirci in proposito?
Per quanto riguarda il genocidio, la Turchia nega ancora sostenendo che gli armeni sono stati espulsi. Oggi però ammette che durante l’esodo ci siano state delle vittime. “Accettano” la cifra di trecentomila, forse anche qualcuna di più, ma ripetono che non c’era l’intenzione di uccidere tutti gli armeni. Questa tesi viene ribadita in un libro ristampato recentemente in Francia, Le dossier armenienne di Gurun, ambasciatore turco. Hanno capito che non potevano continuare a negare il fatto incontestabile che sono morti moltissimi armeni (si ritiene che vi sia stato un milione e mezzo di vittime), ma continuano a negare che il genocidio fosse stato pianificato. E questo sia a livello di governo che di esponenti della cultura, oltre che di opinione pubblica.

Eppure le prove non mancano…
C’è addirittura il telegramma (che doveva restare segreto) di un ministro che ordinava di fare “tabula rasa”. Per gli armeni è un’altra prova incontestabile, mentre la Turchia sostiene che sia un falso. Sono due posizioni ancora inconciliabili.

Ritiene possibile l’entrata della Turchia nell’Unione Europea?
Ritengo sia possibile se vi saranno le condizioni, ma forse la Turchia non fa ancora abbastanza. Fare leggi è facile; difficile è cambiare la mentalità della popolazione. Da questo punto di vista vorrei sottolineare l’importanza della scuola e dell’insegnamento.
Le questioni principali riguardano la libertà di espressione, la libertà religiosa, la questione di Cipro e quella economica. Ossia rispettare i parametri europei. Va detto che a livello economico la situazione è migliorata rispetto a dieci anni fa e l’inflazione è molto ridotta. Oggi quasi tutto viene prodotto in Turchia. Se pensiamo che cinquanta anni fa soltanto il 10% della popolazione aveva l’elettricità, bisogna riconoscere che si sono fatti passi enormi.
A mio avviso le richieste fatte negli ultimi anni dalla Commissione europea sono corrette, ma i turchi dicono di sentirsi “espropriati” e di essere “stanchi di ultimatum” come quello su Cipro. Si va quindi diffondendo anche un atteggiamento antieuropeo perché “le regole sembrano paletti per impedire l’entrata della Turchia nella Ue”. In realtà la Turchia è già quasi dentro l’Europa. È nella Nato, al Parlamento europeo ci sono alcuni suoi rappresentanti, ci sono molti accordi commerciali…

La scrittrice turca Elif Shafak sosteneva che il suo Paese è giunto a un “crocevia”, che deve scegliere tra due possibilità. Quale potrebbe essere per la Turchia l’alternativa alla Ue?
Personalmente ritengo che le possibilità siano almeno tre. La Turchia può scegliere di integrarsi nell’Europa occidentale oppure nei Paesi arabi, anche se i rapporti attualmente non sono amichevoli. Una terza possibilità è quella di fare riferimento alle ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale (Tagikistan, Turkmenistan, Uzbekistan, Kirghizistan, Kazakistan). Come ipotesi ritengo più probabili la prima e la terza. Solo una minoranza islamica era favorevole alla seconda, ma negli ultimi cinque anni (secondo una recente inchiesta) i gruppi integralisti sarebbero diminuiti.

Per quanto riguarda la libertà religiosa, qual è la situazione per i cristiani?
Nelle leggi la libertà religiosa è garantita, ma in pratica i non-musulmani, anche se turchi, vengono considerati degli estranei, quasi stranieri. Alcuni esponenti del governo sostengono che l’unità nazionale dovrebbe basarsi sull’unità anche religiosa. Attualmente i cristiani (cattolici, ortodossi, protestanti) sono meno di diecimila su una popolazione di 74 milioni. In percentuale due su diecimila. Il 75% vive a Istanbul; altre comunità si trovano a Smirne, Ankara…

In passato la situazione era diversa?
All’inizio del secolo scorso, prima della guerra del 1914-1918, i cristiani erano il 22%, forse di più. Prima sono stati massacrati e cacciati gli Armeni; poi anche i greco-ortodossi (con il trattato di Losanna del 1923) hanno dovuto andarsene, con l’eccezione di Istanbul dato che non potevano mandare via il patriarcato. Contemporaneamente i musulmani che vivevano in Grecia furono costretti ad andare in Turchia.

Come valuta la condizione della donna in Turchia?
Sicuramente, rispetto a una ventina di anni fa, è molto migliorata. Possiamo dire che c’è stato un progresso autentico. Le donne sono molto presenti sia nell’istruzione che nei media, soprattutto nella stampa. Inoltre è aumentata la loro presenza nelle associazioni e nei partiti politici. Naturalmente non mancano anche aspetti deteriori, tipicamente occidentali, come quello della mercificazione dell’immagine femminile.

Pensando ad alcune prese di posizione nel mondo politico e in quello giornalistico, si era parlato di “islamofobia”. Esiste anche una “turcofobia”?
Sicuramente l’islamofobia si è diffusa nel mondo dopo l’11 settembre. Invece la “turcofobia” è cresciuta dove i turchi sono più numerosi. Per esempio a Berlino e Monaco, in Germania e in Alsazia e Lorena per quanto riguarda la Francia. Mi sembra presente anche tra gli austriaci che ricordano ancora l’assedio di Vienna. Forse qualcosa del genere si osserva anche da voi, nel Nord-Est, dove si evoca spesso la battaglia di Lepanto.
A mio avviso noi europei dovremmo smettere di dire che “i turchi sono così e cosà”. Non tutti sono islamici, non tutti ovviamente sono terroristi e la maggioranza non è intollerante.

Nel 2007 in Turchia ci saranno le elezioni. Quali sono attualmente i partiti principali?
Le elezioni per il parlamento e per il presidente della repubblica si svolgeranno in primavera o in autunno. Attualmente le due formazioni maggiori sono il “Partito della giustizia e del progresso” (Akp, il partito di Erdogan che aveva lasciato il partito islamico dell’ex premier Erbakan) ora al governo e il “Partito repubblicano del popolo” (il partito di Baikal) all’opposizione. Invece il “Partito della felicità” (Saadet, il partito di Necmettin Erbakan) alle ultime elezioni del 2002 ha ottenuto pochi voti, appena l’1,2%.

E i “Lupi Grigi” che recentemente hanno dato prova di spirito fortemente nazionalista e anche di una buona dose di intolleranza?
I “Lupi Grigi” in origine non erano integralisti, ma soprattutto nazionalisti. Solo in seguito, per avere più adesioni, hanno alimentato anche l’aspetto religioso. Nati circa venticinque anni fa, si possono definire un gruppo nazionalista di destra. Il loro partito, MHP, è legale e si presenta alle elezioni. Proprio in questi giorni c’è stato il Congresso nazionale.

47) Gli USA ridisegnano (a tavolino!) un nuovo Medioriente. Un tentativo di strumentalizzare le lotte per l’autodeterminazione di curdi e beluci? (21 gennaio 2007)

In un’intervista del 13 gennaio 2007 Condoleezza Rice ha spiegato che l’arresto di alcuni iraniani nella città irachena di Arbil non costituisce un fatto casuale, ma rientrava in un’operazione intrapresa da tempo. Forse l’escalation di Bush sta per estendersi anche all’Iran, accusato di aiutare gli insorti iracheni?
Già nel giugno 2006 l’Armed Forces Journal pubblicava una mappa ideata da Ralph Peters per ridisegnare il Medio oriente. Successivamente la mappa è stata presentata al Collegio di Difesa della Nato. Ralph Peters è un ex colonnello, noto stratega del Pentagono ed esponente del “project for the New American Century” di Cheney, Rumsfeld, Bolton e Wolfowitz. Potrebbe trattarsi dell’ennesimo progetto “a tavolino”, ma sembra in sintonia con le operazioni clandestine condotte attualmente dal Pentagono. La mappa prevede un “Free Kurdistan” formato da territori dell’attuale Iraq, della Siria e della Turchia. “Esteso da Diyarbakir a Tabriz”, diventerebbe “lo Stato più filo-occidentale tra Bulgaria e Giappone”. Ovviamente gli Stati Uniti potrebbero installarvi basi militari, da cui esercitare il controllo di fonti e condutture di petrolio e gas, e anche delle sorgenti dei fiumi Tigri ed Eufrate. Consapevole che uno Stato curdo indipendente verrebbe percepito come una minaccia dall’alleato turco, Peters scrive che “ad Ankara andrebbero assicurati la protezione della minoranza turcomanna e l’accesso ai campi petroliferi di Kirkuk”.
Nei progetti statunitensi per ridisegnare il Medio oriente sarebbe previsto un altro Stato indipendente, il “Free Baluchistan”, ritagliato da Iran, Afghanistan e Pakistan. Ricco di materie prime, è area di passaggio per i gasdotti dall’Iran all’India. Oltre che per il Belucistan e per il Kurdistan, l’Iran perderebbe altri territori a favore di un Azerbaigian unificato e dello Stato Arabo Sciita (“Arab Shia State”) costituito da buona parte dell’attuale Iraq, ma guadagnando però le province dell’Afghanistan intorno a Herat. I territori persi dall’Afghanistan a ovest e a sud verrebbero “compensati” a est con l’annessione di aree tribali nel nord-ovest del Pakistan. Cambiamenti (sempre nei progetti statunitensi dato che non sembra che i diretti interessati siano stati consultati) anche per l’Arabia saudita, dove si evoca un “Islamic Sacred State” comprendente La Mecca e Medina. Le due città verrebbero sottratte al controllo del regime saudita, ritenuto il maggior responsabile della diffusione del wahhabismo, il credo wahhabita fondato da Mohammed ibn Abd al-Wahhab. Secondo Peters sarebbe opportuno “affidare l’Islamic Sacred State a un Consiglio a rotazione, rappresentativo delle maggiori scuole e movimenti musulmani del mondo”, in modo che il futuro dell’Islam possa “essere dibattuto piuttosto che meramente decretato”. Naturalmente vien da chiedersi (oltre da dove derivi il diritto degli Usa di fare e disfare il pianeta a proprio uso e consumo) chi guiderà il “dibattito” qualora tali progetti si realizzassero.
In un articolo successivo, del novembre 2006, Peters si era occupato specificamente dell’Iraq. Se nel 2007 la situazione non dovesse volgere a favore degli Usa, bisognerà pensare a soluzioni alternative, compreso un “ritiro intelligente e ordinato delle truppe”. Ma, spiegava l’articolo, anche dopo il ritiro bisognerebbe “essere pronti a intervenire con la forza aerea per prolungare [non è un refuso!] la susseguente guerra civile”. Probabilmente al Pentagono si ritiene che una guerra civile irachena, tra sciiti e sunniti, finirebbe per incrinare l’alleanza tra Iran e Siria (dove il potere è in mano alla minoranza alauita, ma la maggioranza della popolazione è costituita da sunniti). Se poi l’Iran intervenisse direttamente in aiuto degli sciiti iracheni, fornirebbe agli Usa un pretesto per bombardare Teheran. Previdente, Peters aggiunge anche di non preoccuparsi per un “eventuale blocco delle forniture petrolifere”. Suggerisce infatti “l’occupazione a sorpresa dei campi petroliferi del Venezuela” definiti “ben posizionati” (praticamente nel retro di casa, Chavez permettendo).

48) Due appelli in difesa del diritto dei popoli (marzo 2007)

Il GAP, progetto idrico per l’Anatolia sud-orientale, prevede la realizzazione di un gran numero di dighe e centrali idroelettriche, soprattutto lungo l’alto corso del Tigri e dell’Eufrate. Altre dighe vengono costruite su vari fiumi della regione come il Munzur e lo Zab.
In particolare la diga di Ilisu, alta 135 metri, lunga 1820 e con una capacità di circa 10 chilometri cubi, occuperà un’area di 313 chilometri quadrati, sommergendo oltre 6mila ettari di terre arabili. Provocherà inoltre la distruzione di ben 289 siti archeologici. L’antico insediamento di Hasankeyf, posto lungo il Tigri, le cui origini risalgono a 12mila anni fa, rischia di scomparire sommerso dalle acque.
Per il governo turco, il GAP sarebbe un progetto indispensabile per la produzione di energia elettrica per metropoli come Ankara e Istanbul, ma la costruzione delle dighe ha già provocato un notevole aumento di sfollati, veri “profughi interni”, soprattutto curdi.
In dieci anni la popolazione di Dijarbakir è quadruplicata, mentre nelle periferie di Istanbul sono sorti campi profughi come quello di Ayazma, dove migliaia di persone vivono in pessime condizioni igienico-sanitarie.
Con la diga di Ilisu e la realizzazione del progetto GAP, la Turchia arriverà a controllare totalmente il flusso delle acque verso Siria e Iraq, contribuendo ad aumentare ulteriormente l’instabilità e i conflitti geopolitici della regione mediorientale. Va poi sottolineato che Tigri ed Eufrate, i maggiori corsi d’acqua del Medio oriente, rappresentano la fonte di un grande ecosistema, un habitat con importanti specie animali e vegetali, spesso endemiche, in terre altrimenti aride. Per difendere questi territori da un progetto devastante si è costituita “Initiative to keep hasankeyf alive”, di cui fanno parte settantadue organizzazioni (centri culturali, municipalità dell’area anatolica, gruppi ambientalisti, ordini professionali, sindacati e associazioni per i diritti umani) che operano in Turchia. In sintonia con questa iniziativa, anche il coordinamento Kurdistan (composto da Uiki, Azad, centro socioculturale Ararat, vari “Comitati Kurdistan” italiani, centri sociali, “Un ponte per…”, Comitato acqua pubblica) ha avviato una “Campagna italiana per la salvaguardia di Hasankeyf-acqua-dighe-Kurdistan”.
Dall’associazione “Un ponte per…” è intanto partita una raccolta firme per chiedere all’Eni di “non firmare accordi immorali ottenuti approfittando dell’avventura militare” in Iraq. L’Eni, si legge nell’appello, “è anche nostra, dato che il 32% delle azioni sono detenute dal ministero dell’Economia e Finanze”. Al momento attuale il petrolio iracheno “non è ancora stato svenduto”, ma entro la fine di marzo la Commissione governativa sul petrolio dovrebbe approvare una nuova legge sugli idrocarburi, una legge praticamente “scritta sotto occupazione militare, con l’esclusione dei sindacati iracheni, voluta dalle grandi multinazionali petrolifere, Eni inclusa”.
La nuova legge prevede l’introduzione dei cosiddetti Psa (Production sharing agreements) che consentirebbero alle multinazionali di realizzare enormi profitti a scapito dell’erario iracheno e consegnerebbe l’Iraq nelle mani dei grandi istituti finanziari internazionali. Contro l’approvazione di tale legge, i lavoratori iracheni stanno lottando da tempo con l’autogestione delle installazioni, scioperi, blocco delle esportazioni. Anche se l’Eni concludesse accordi solo per i campi di Nassiriya, con la nuova legge otterrebbe profitti di sei miliardi di euro, più di quanto avrebbe ottenuto con i vecchi contratti. Tale operazione, sottolinea “Un ponte per…”, renderebbe “inutili e farseschi i tanto sbandierati aiuti umanitari all’Iraq”. E ricorda anche che “i negoziati dell’Eni, in particolare per lo sfruttamento del giacimento di Nassiriya, erano già in essere prima della guerra” (accordi siglati con Saddam Hussein nel 1997). Appare evidente che la partecipazione italiana alla guerra in Iraq aveva “importanti ricadute economiche per l’Eni e la missione Antica Babilonia era dislocata a Nassiriya per proteggere il petrolio prenotato dall’Eni”.
Per la popolazione irachena sarebbe un importante segnale se l’Eni mostrasse di non voler approfittare dell’attuale situazione e dichiarasse “la propria disponibilità a negoziare sulla base delle condizioni precedenti alla guerra, in ossequio ai principi stabiliti dal documento Responsabilità d’impresa – Valori e comportamenti, in particolare in merito a Etica degli affari, Rispetto degli Stakeholders, Rispetto dei diritti umani e Cooperazione”. Secondo l’Ong l’Eni potrebbe rendere esplicita tale volontà “uscendo dall’International tax and investiment centre (Itic) e prendendo le distanze dalle proposte che questa ha avanzato”. L’Itic è una lobby (di cui, oltre all’Eni, fanno parte Shell, Total, Bp e Chevron) che “consiglia i governi” in merito a politiche fiscali ed economiche. Nell’autunno 2004 aveva pubblicato il documento Petroleum and Iraq’s future: fiscal options and challenger, le cui proposte sono alla base della nuova legislazione. A questa campagna contro la “rapina del petrolio iracheno” hanno aderito anche sindacalisti, giornalisti ed esponenti di Ong.

49) Armeni e curdi tra sterminio e speranza – intervista a Baykar Sivazliyan, docente universitario, esperto di Storia e letterature dell’area mediorientale – 2 (maggio 2007)

Recenti e drammatici avvenimenti ripropongono la “questione armena” e più in generale le violazioni del diritto dei popoli in Turchia. Cosa si nasconde dietro le contrapposizioni tra militari (e industriali) e religiosi?

A suo avviso, le grandi manifestazioni in favore della “laicità e della democrazia” (vedi il 14 e il 29 aprile 2007) organizzate dal partito di opposizione CHP (Cumhuriyet Halk Partisi – Partito popolare Repubblicano, fondato da Ataturk) hanno rappresentato un’iniziativa spontanea della società civile o potrebbero essere state “manovrate” dai militari? Stando alle dichiarazioni dei partecipanti, le manifestazioni erano anche contro il “golpe” (minacciato con il “comunicato di mezzanotte” dell’esercito). Come giudica l’esplicito richiamo ad Ataturk, esibito in tanti striscioni e bandiere?
Mustafa Kemal Ataturk (“Padre dei turchi”) è il simbolo della Turchia moderna. Non sempre però rappresenta la laicità; più volte i numerosi regimi che hanno tenuto sotto il tallone il popolo turco, si sono serviti della figura di questo soldato-politico. Quando si trattava di consolidare il proprio potere, in ogni periodo più o meno nefasto della storia della Turchia, molti si sono serviti della figura del fondatore della Turchia “moderna”. I primi governanti della Repubblica Turca erano i membri riciclati del partito Unione e Progresso (Ittihat ve Terakki) che tennero saldamente in mano il potere nell’Impero ottomano a cavallo fra il 1800 e il 1900. Portarono alla disfatta il paese durante la Prima Guerra mondiale, si macchiarono del Primo Genocidio del XX secolo, quello armeno, fondarono il loro potere economico sulle ricchezze sottratte agli armeni e ai greci massacrati. Potrei fare un lungo elenco di personaggi che da lugubri assassini divennero ministri della nuova Repubblica. L’Occidente nella sua voluta distrazione, confonde i nazionalisti turchi con i laicisti che si trovano in tutte le strutture del paese turco, non solo nelle file delle forze armate. Tanto per parlare chiaro, gli assassini di padre Santoro, del giornalista armeno Hrant Dink e i torturatori di Malatya [18 aprile 2007, assalto alla casa editrice cristiana Zirva e uccisione di tre persone] appartengono alla stessa radice.

Sia i militari sia la Tusiad (l’associazione degli industriali turchi) si sono mostrati ostili nei confronti di Abdullah Gul, il candidato del partito AKP (Adalet ve Kalkinma Partisi – Partito per la giustizia e lo sviluppo) di Erdogan, ritenuto un “fondamentalista” per quanto moderato. Contrari anche alcuni partiti, sia di destra sia di sinistra, tanto che alla fine Gul pensava di ritirare la propria candidatura. Può darci qualche chiarimento?
Quello che sta succedendo in Turchia non è una lotta tra laici e religiosi. Finalmente, dopo quasi 90 anni dalla fondazione della Repubblica Turca, si assiste a una nuova spartizione del potere. I militari si vedono sottrarre una parte delle loro prerogative di concessione “divina” a favore della società civile e delle minoranze. Ricordo che anche i curdi vengono considerati una minoranza, ma erroneamente. Infatti su un quarto del territorio sono la massiccia maggioranza e ogni tre cittadini turchi uno è curdo. Attualmente attorno alle grosse città come Istanbul, Ankara e Izmir ci sono delle vere e proprie città “curde”. In questa nuova realtà, di spartizione, si è inserito anche il mondo islamico moderato della Turchia. L’Islam fa parte integrante della Civiltà Turca e non ha le sembianze dell’Islam integralista. la religione turca è stata sempre mite e tollerante nei confronti del diverso, dell’ebreo, del cristiano. I Giovani Turchi erano tutti atei, non hanno organizzato il genocidio degli armeni per motivi religiosi, ma vedevano questo popolo come una minaccia all’integrità della Turchia. Negli anni successivi i loro eredi nazionalisti hanno fatto la stessa cosa con i curdi (e continuano ancora a farlo) che non sono cristiani ma islamici come i turchi. La religione in mano ai nazionalisti (che in questi giorni si presentano come paladini del laicismo) è stata un pretesto per l’oppressione. Anche gli industriali turchi oggi temono le spinte della massa operaia e della società civile come una minaccia ai loro interessi concreti. Hanno paura che domani, senza il pugno di ferro dei militari, potrebbero essere non più facilmente controllabili.

Tra i fatti più drammatici degli ultimi tempi, l’uccisione di uno scrittore armeno e di alcuni cristiani. Come ha reagito l’opinione pubblica turca?
L’opinione pubblica turca e la società civile in Turchia sono mille miglia più avanti rispetto al potere dominante. Ai funerali del giornalista armeno centinaia di migliaia di cittadini, turchi, curdi e gli ultimi pochi armeni rimasti gridavano: “Siamo tutti armeni, siamo tutti Hrant”. Tutto ciò ovviamente ci fa sperare in meglio, anche se la strada è lunga ed è molto faticosa. Il primo maggio, più di 700 cittadini sono stati incarcerati perché ricordavano gli eccidi che la forza brutale del potere aveva compiuto vent’anni fa durante un’analoga manifestazione.

Come è stato ricordato in Turchia quest’anno – 2007 – l’anniversario del genocidio armeno, il 24 aprile?
In Turchia non si ricorda il 24 aprile, Giorno della memoria del Genocidio degli Armeni. È vietato per legge. Malgrado i numerosi appelli di tanti intellettuali e membri della società civile turca, lo stato non ha avuto ancora il coraggio di riconoscere questa immane tragedia. Il governo di Erdogan ci è andato vicino, ma forse anche per questo motivo sta pagando una pesante fattura. Del resto non invidio i turchi onesti di oggi che devono fare una serie di conti con il passato per crearsi un presente dignitoso. La questione armena non è la sola. Esistono anche la questione curda, i diritti umani, la situazione sociale, la questione cipriota, le relazioni con i vicini (Grecia, Siria, Iran, eccetera). Numerosi intellettuali turchi, da anni, sono costretti a vivere fuori dalla Turchia e tantissimi sono stati giudicati in contumacia per reati di opinione. Il più grande sociologo turco vivente, Taner Akcam, è esule negli Stati Uniti. Il Premio Nobel per la letteratura Orhan Pamuk, il giorno dopo l’assassinio di Hrant Dink, ha preso il primo aereo per la stessa destinazione. A Parigi ci sono più intellettuali turchi che a Izmir.

Una domanda per quanto riguarda il quadro internazionale. Negli ultimi tempi si ha l’impressione che gli Usa stiano “scaricando” la Turchia, forse a favore del Kurdistan “iracheno” e di alcuni stati dell’Asia centrale che darebbero maggiori garanzie, anche in materia di basi militari. La sua opinione?
Il mondo globale è diventato sorprendentemente pratico. Se un aeroporto in Turkmenistan costa centomila dollari all’amministrazione statunitense, perché gli Usa dovrebbero spendere milioni di dollari per avere la stessa pista di decollo in Turchia? Prima era diverso; c’era l’Unione Sovietica, i due blocchi, il muro, i regimi, eccetera. Sembra che gli Stati Uniti, avendo puntato su un Kurdistan iracheno, l’unico pezzo dell’Iraq dove riescono a controllare “due case e tre strade”, abbiano deciso (ma non ancora confessato per il momento) per una sua autonomia. Così facendo, hanno scelto di andare in rotta di collisione contro i militari turchi che non potranno mai ingoiare un rospo di tali proporzioni. Vedono questa nuova realtà come un primo pezzo di un futuro Kurdistan indipendente che inesorabilmente chiederà fra qualche anno i suoi territori a Nord, oggi sotto l’amministrazione turca.

Quando si parla degli armeni viene privilegiato il discorso sul genocidio perpetrato dalla Turchia. Si rischia di dimenticare che esiste una Repubblica di Armenia che ha permesso a questo popolo di conservare la propria cultura e identità nonostante le tragiche vicissitudini. Che cosa rappresenta la Repubblica di Armenia?
La repubblica dell’Armenia attuale rappresenta, per gli armeni di oggi, soprattutto un decimo del territorio dei propri avi. L’Armenia è il baluardo della cultura e delle tradizioni armene, per tutti gli armeni sparsi per il mondo che sono ormai quasi una decina di milioni: 3,3 milioni in terra armena, due milioni in Russia, più un milione nell’America del Nord, mezzo milione in Francia, altrettanti in Medio oriente e il resto sparso per il mondo intero. La parte della popolazione armena più controversa numericamente si trova in Turchia: ufficialmente ci sono 60mila armeni cittadini turchi e 30mila armeni cittadini dell’Armenia, e circa 10mila armeni di varie cittadinanze, cioè in totale circa 100mila. Per altre fonti invece pare che in Turchia ci siano almeno due milioni di armeni o armeni turchizzati. È sicuramente una questione molto delicata. Ogni tanto si mormora dell’armenità di qualche pezzo grosso turco oppure salta fuori l’armenità di alcuni turchi molto importanti del passato. Un esempio lampante, causa di grande scandalo, risale a circa un anno fa. La figlia adottiva di Mustafa Kemal Ataturk, la prima ufficiale dell’aeronautica turca della storia, risultava figlia di una famiglia armena di massacrati.
Gli armeni della diaspora guardano all’Armenia come una grande speranza della rinascita. La realtà dell’Armenia ha le sue radici in una storia plurimillenaria. È noto che anche gli storici dell’antica Grecia parlavano degli armeni e dell’Armenia. Malgrado l’unità nazionale e lo stato nazionale armeno abbiano cessato di esistere per molti secoli (precisamente dal 1375 al 1918) sul territorio geograficamente chiamato Armenia non ha mai cessato di esistere il popolo armeno, anche sotto numerose dominazioni (araba, persiana, ottomana e russa). I due anni della Repubblica Armena Indipendente nata dopo il genocidio del 1915 sono stati il preludio difficilissimo della Repubblica Sovietica Socialista dell’Armenia che faceva parte dell’URSS. Per settant’anni, fino al 1991, è stato un angolo di rinascita per il popolo armeno. Cosa mai vista nella storia dell’Unione Sovietica, dal 1948 numerose famiglie armene decisero di trasferirsi nell’Armenia Sovietica acquisendone la cittadinanza. Se pensiamo alla quantità di cittadini sovietici desiderosi di andare in occidente, possiamo capire l’originalità del fenomeno.

Che ruolo hanno avuto gli armeni nella seconda Guerra Mondiale?
Malgrado fossero usciti da una immane tragedia come quella del Genocidio, gli abitanti dell’Armenia Sovietica hanno partecipato molto attivamente alla Seconda Guerra Mondiale.
Il popolo armeno in quel periodo contava circa un milione e trecentomila individui abitanti nella piccola Repubblica, e perse nella guerra contro i nazisti 250mila dei suoi migliori figli. Va detto che gli armeni sono stati la popolazione sovietica che in proporzione ha dato più ufficiali e più eroi all’Unione Sovietica durante la Seconda Guerra Mondiale. Va precisato che anche la Diaspora armena ha partecipato attivamente e concretamente alla guerra antinazista finanziando un intero corpo d’armata di mezzi corazzati, chiamato “Sasuntzi David” dal nome dell’eroe mitologico degli armeni. Fra i primi gruppi di soldati sovietici che entrarono a Berlino, c’erano numerosi giovani del corpo di spedizione formato esclusivamente da armeni. Il popolo armeno sparso per il mondo, anche quando le divisioni politiche erano aspre, ha considerato l’Armenia la propria terra a prescindere dal proprio orientamento politico, e tuttora numerosi esponenti della diaspora hanno una casa in Armenia e anche attività commerciali o economiche.

Uno dei problemi legati alla Repubblica di Armenia è quello del Nagorno Gharabagh. Può tracciarne una breve storia?
Il “malessere” dell’Armenia nel sistema sovietico, nasce a cavallo fra gli anni ‘80 e ‘90 del secolo appena trascorso. Bisogna comunque dire che quel sistema aveva portato un vero benessere ai figli dei sopravvissuti al primo Genocidio del XX secolo. Il terribile terremoto del 1989 si è presentato come un detonatore del malessere degli armeni caucasici già assillati dal silenzio del potere centrale moscovita nei confronti del Nagorno Gharabagh. Questa popolazione aveva continuato civilmente a chiedere, nell’ambito della legislazione vigente sovietica, una maggiore autonomia e la liberazione dal sopruso delle autorità azerbaigiane cui era stata consegnata una intera regione a maggioranza marcatamente armena, circa il 97% della popolazione residente. Quale risposta alle richieste armene, le autorità locali azerbaigiane, approfittando anche della situazione molto confusa delle autorità sovietiche ormai arrivate alla fine della propria storia, prepararono con cura un eccidio nella località di Sumgait. Sumgait è un importante sobborgo di Baku, capitale dell’Azerbaigian, dove abitavano migliaia di famiglie armene di ingegneri e operai specializzati nel settore dell’estrazione del petrolio. L’intento era di dare indirettamente un segnale forte agli armeni, facendo capire che, se avessero continuato a richiedere più libertà e autonomia, la pazienza degli azeri si sarebbe esaurita. In una notte furono trucidati centinaia di armeni, donne violentate, bambini soffocati nelle loro culle. Atrocità gratuite di ogni genere che sconvolsero l’intera armenità. Il popolo armeno, in Armenia e nella Diaspora, vide di nuovo il pesante incubo del genocidio e dell’annientamento fisico. Le proteste presso le autorità sovietiche servirono solo a far raccogliere i cadaveri e far scappare i sopravvissuti con le navi, verso il Turkmenistan, attraverso il Mar Caspio.
Ancora una volta come altre, troppe volte nella sua tragica storia, la piccola e pacifica nazione armena è stata costretta a prendere le armi. Fino al 1993 gli armeni combatterono contro le forze armate azerbaigiane, tre volte più numerose, armate fino ai denti e aiutate da mercenari venuti da altre repubbliche dell’URSS. Contro gli armeni intervennero anche migliaia di nazionalisti turchi capeggiati dai “Lupi Grigi” arrivati direttamente dalla Turchia, in qualche caso portandosi dietro le armi con la matricola della Nato, sottratte o semplicemente prese dagli arsenali dell’esercito turco. Certe guerre però vengono vinte dai disperati e questo fu il caso del Nagorno Gharabagh. Gli armeni, perdendo più di 5mila volontari, presero il controllo del loro territorio, spinsero le forze armate azerbaigiane verso l’interno del loro paese, riuscendo a occupare un territorio sufficiente per la migliore difesa strategica della loro terra. Attualmente Nagorno Gharabagh è una repubblica autonoma non riconosciuta da nessuno, ma finalmente libera dall’oppressore turco. Da allora i rapporti di dialogo, se pur attraverso terzi, fra l’Armenia e l’Azerbaigian non si sono mai interrotti. Ovviamente, come si usa in Oriente, ogni colloquio precede o succede a scaramucce che purtroppo ogni tanto lasciano qualche morto nelle rispettive trincee.
Intanto, nel 1991, è nata la Repubblica dell’Armenia, un paese di circa 30mila chilometri quadrati, con circa 3.200.000 abitanti. Il blocco attuato dalla Turchia alle sue frontiere non aiuta lo sviluppo del Paese, ma gli armeni, ben allenati a vivere in condizioni difficili, prosperano lo stesso con un certo aiuto dai loro fratelli della diaspora.

Mi sembra di capire che l’Armenia ha avuto un “rapporto privilegiato” con l’URSS. E oggi lo mantiene con la Russia. Da cosa deriva questa vicinanza?
È vero che gli armeni hanno un rapporto privilegiato con la Russia, per il semplice motivo che negli ultimi secoli gli interessi dei due paesi sono stati convergenti. Nel Caucaso l’unico paese che è corretto nei confronti della Russia è l’Armenia. I georgiani e gli azerbaigiani stanno cercando la loro prosperità e la loro potenza presso altre realtà mondiali. Ritengo sia una scelta strategica che a lungo andare darà i suoi risultati. Dopo tante sofferenze ed esperienze negative anche il popolo armeno ha imparato a destreggiarsi nella politica internazionale. Noi come sempre siamo ottimisti.

Ma in passato ci furono problemi anche con i sovietici?
Tutte le repubbliche che facevano parte dell’Unione Sovietica avevano avuto problemi con il governo centrale. Io non credo che l’armeno di Yerevan avesse più difficoltà del russo di Mosca o del kazako o dell’uzbeko dell’Asia centrale. Vivere bene o vivere male è una questione di cultura e il mio popolo ne possiede una, radicata da cinquemila anni. Abbiamo vissuto molte esperienze, anche dolorose, ma siamo ancora qui per sorridere e “per passare questa nostra vita di due giorni”, come dice il poeta armeno Hovhannes Tumanian.

Nella storia del popolo armeno c’è stato un movimento di liberazione nazionale analogo a quello curdo?
Non vorrei esagerare, ma tutta la storia armena è una lotta di liberazione nazionale. Gli armeni hanno dovuto fare i conti giorno per giorno con i loro vicini, con tante realtà politico-militari che hanno occupato la terra armena durante lunghi secoli. Solo per dare un piccolo esempio posso precisare che l’Armenia, dalla caduta del regno di Cilicia nel 1375 alla nascita della prima Repubblica Armena nel 1918, per più di cinque secoli, non ha avuto uno stato centrale ed è stata governata nelle autonomie locali con la presenza delle forze straniere. Già nel 1009 i Selgiuchidi avevano iniziato a occupare la parte orientale dell’Armenia. In seguito ci fu la presenza degli arabi e poi, di volta in volta, la spartizione della terra armena fra i grandi imperi. Prima quello persiano, poi l’ottomano e per ultimo la Russia zarista nella parte caucasica dell’Armenia. Le lotte più tremende però le abbiamo vissute nei confronti del nazionalismo turco. Iniziarono nella seconda metà dell’ottocento, culminando nel Primo Genocidio del XX secolo, organizzato a tavolino dai Giovani Turchi. Loro credevano che salvando la parte soltanto turca del decadente impero ottomano si potesse salvare la continuità. Tutto ciò che non era turco era da eliminare. C’erano tre principali minoranze e loro sono stati molto abili nell’annientare una alla volta queste componenti del tessuto civile dell’impero ottomano. Prima hanno diviso per religione, iniziando l’annientamento di quelle cristiane. Hanno usato molto abilmente la terza minoranza, quella curda, contro le prime due: armeni e greci. Dopo essersi sbarazzati dei cristiani, usando appunto i curdi come manodopera, si sono rivolti contro i curdi, il cui annientamento continua fino ai nostri giorni. L’Occidente, Italia compresa, sa benissimo quello che sta succedendo anche oggi nell’Anatolia Orientale, ma tace per potere continuare i suoi affari con la Turchia.

Qual è il suo ruolo attuale, in quanto esponente della comunità armena in Italia, nei confronti della Repubblica di Armenia?
Ogni armeno, nel rispetto della sua appartenenza come cittadino di un qualsiasi paese, non dimentica mai la sua terra natale. Noi siamo degli individui molto integrati nel paese dove abbiamo deciso di vivere. L’Italia è stata una terra molto ospitale per noi armeni, anche prima del Genocidio. Potrei dire che ha salvato la nostra cultura, nella sua integrità, dando spazio e libertà d’azione a un grosso centro che è stato ed è tuttora l’Isola di San Lazzaro degli Armeni. A Venezia fino al 1996 è esistito un Collegio che ha preparato gran parte degli intellettuali armeni iniziando dal 1836. Il lavoro più significativo che io personalmente riesco a fare per le mie due terre, per l’Armenia e per l’Italia, è quello di andare in tante scuole italiane di ogni ordine e grado, portare la mia testimonianza e raccontare la storia del mio popolo di appartenenza. Ho anche scritto molto su questi argomenti e per la Regione Veneto ho pubblicato due volumi che appunto parlano degli armeni del Veneto e della loro integrazione nell’ospitale terra veneta. Per desiderare la Pace bisogna anche portare degli esempi concreti. La Pace non è una cosa astratta. La convivenza, il reciproco riconoscimento e la concordia fra diverse culture e diversi popoli e religioni sono anche cose terribilmente pratiche: bisogna viverle con serenità, costruire assieme giorno per giorno.

Un’ultima domanda. La questione armena è entrata a far parte dei “Criteri di Copenaghen” per l’accesso della Turchia nella Unione europea?
Nei “criteri di Copenaghen” ci sono generiche richieste di “buon vicinato” con i confinanti della Turchia, Armenia compresa. Però ai primi di settembre 2006 la Commissione Esteri del Parlamento Europeo, fra centinaia di emendamenti acquisiti per sottolineare il rallentamento della Turchia nel processo di integrazione, ha inserito in modo assoluto il riconoscimento dl genocidio. E questo naturalmente ha fatto arrabbiare la Turchia perché, accettandolo, dovrebbero rivedere i fondamenti della propria storia, mettere in discussione anche l’onestà dei padri fondatori. Ammettere, come ha fatto lo scrittore Akcam (processato, condannato a quindici anni e fuggito negli Stati Uniti) che “la nostra economia è fondata sul denaro, le case e le terre rubate agli armeni”.

50) Don Renato Sacco (Pax Christi): i cristiani dell’Iraq trovano rifugio tra i curdi (20 maggio 2007)

Don Renato Sacco si occupa di “quattro piccole parrocchie di montagna e di lago” nella diocesi di Novara (provincia di Verbania). Fa parte della Commissione diocesana Giustizia e Pace e di Pax Christi, negli ultimi dieci anni è stato varie volte in Kosovo e in Iraq visitando in particolare le zone curde (dove ha trovato rifugio una parte della piccola comunità cristiana irachena).
A lui abbiamo chiesto di farci un quadro della situazione.

Le sue visite nella martoriata “Terra tra due fiumi” sono stati numerose. In quali circostanze si sono svolte?
Finora sono andato sei volte in Iraq, la prima volta con una delegazione di Pax Christi nel giugno 1988, all’epoca dell’embargo che stava provocando grandi sofferenze alla popolazione. Ricordo che una delle poche voci contrarie era quella del Papa. Sono ritornato nel 2000 e nel 2002, quando l’odore della guerra imminente era già nell’aria. Ero con don Fabio Corazzina, attuale coordinatore nazionale di Pax Christi. Ci siamo fermati per qualche giorno da Shlemon Warduni, vescovo ausiliare del patriarcato caldeo di Babilonia dei Caldei. In quella occasione è nata una profonda amicizia con la Chiesa locale di Ur, diocesi di Bassora, nel Sud dell’iraq. Scherzando il vescovo ci diceva: “Abramo era della mia diocesi”.

Cosa può dirci dei cristiani caldei? Quali altri cristiani ci sono in Iraq?
I cristiani caldei sono cattolici con rito caldeo, in aramaico antico, la lingua più vicina a quella di Gesù. Sopravvive ancora in qualche villaggio, ma oggi è soprattutto lingua liturgica. Ci sono poi latini, greci cattolici e greci ortodossi, assiro-cristiani e vari gruppi protestanti. Ricordo che in questa terra le radici cristiane sono profonde. Nel 1998 soltanto a Bagdad c’erano più di ottanta chiese, con una miriade di comunità cristiane. Naturalmente la quasi totalità della popolazione resta musulmana.

Altre figure significative conosciute durante i suoi viaggi in Iraq?
Sempre nel 2002, oltre a Warduni, abbiamo conosciuto Louis Sako, l’attuale vescovo di Kirkuk, nel nord-est del Paese, in territorio curdo. È una zona ricchissima di petrolio, con più di cento pozzi e al centro di tensioni. Nel novembre 2007 si dovrebbe tenere un referendum per l’annessione al Kurdistan. Nel dicembre del 2002 Louis Sako era ancora parroco di Mosul, l’antica Ninive. È diventato vescovo nel novembre 2003.

A suo parere, nei confronti dei cristiani dell’Iraq, è stata espressa sufficiente solidarietà? Da questo punto di vista che ruolo ha avuto Pax Christi?
A dire il vero non ci sembrava che ci fosse un grande “andirivieni” per esprimere condivisione e vicinanza. Spesso ci invitavano, anche il vescovo, a non abbandonarli. Il ruolo di Pax Christi, oltre a denunciare i traffici di armi, è stato quello di tessere e mantenere rapporti personali; di non lasciarli soli. Anche, sottolineo, per l’insistenza delle comunità locali.

Ha parlato dei traffici di armi. Ci sono armi italiane in Iraq?
Pensiamo soltanto alle pistole di marca italiana di cui recentemente, in una base della guerriglia, è stata scoperta una fornitura di almeno 20mila pezzi. E dato che sono le stesse Beretta in dotazione ai soldati americani, possiamo parlare di par condicio (come durante la guerra Iran-Iraq) da parte italiana.

Nel marzo 2003 cominciava la guerra, ma voi siete ugualmente ritornati in Iraq…
Siamo tornati nel maggio 2003. Era evidente che la situazione stava peggiorando sempre più, ma a Mosul, sempre nel Nord, ai confini territorio curdo, potevamo girare ancora da soli, anche con la macchina fotografica, come dei turisti. La gente era cordiale, ci invitava nelle case, ci offriva da bere. Oggi questo è impensabile. Il 13 novembre dello stesso anno eravamo nuovamente a Nassjiria, per coincidenza proprio nei giorni successivi alla strage. Il clima era molto teso, ma siamo andati anche a Bagdad. Il giorno 18 abbiamo partecipato a una cerimonia in memoria delle vittime, presieduta dal nunzio, Fernando Filoni. Era una vera “messa blindata” con elicotteri, carri armati, perquisizioni. I soldati americani perquisirono anche il vescovo Warduni e le suore; un gesto questo che in un Paese islamico è come accendere una miccia. Noi eravamo tra i pochi italiani presenti, con alcuni militari e la Croce Rossa. A monsignor Warduni non è stato concesso di prendere la parola. “Avrei detto – ci spiegò poi – che in questa circostanza il vostro sangue si è mischiato con il nostro, con quello degli iracheni”. Il timore è che si sia pregato soltanto per le vittime italiane, non per tutti i morti.

Il suo ultimo viaggio è piuttosto recente. Cosa emerge da un confronto tra la situazione attuale e quelle precedenti?
Sono tornato nel dicembre 2006. Ormai in Iraq non c’è quasi nessuno, nemmeno i giornalisti. Stavolta, l’unica, non siamo andati a Bagdad: ormai è praticamente impossibile. Invece il nord, fino a Kirkuk, è relativamente tranquillo. All’aeroporto di Erbil i voli arrivano regolarmente. Si parla soltanto curdo e i punti strategici sono presidiati da miliziani curdi, ormai un esercito vero e proprio. I soldati americani restano nelle caserme ed escono soltanto di notte. Li chiamano i “gufi”. L’attuale presidente dell’Iraq è il curdo Talabani e anche molti ministri sono curdi. Comunque anche a Kirkuk ci siamo spostati in auto, scendendo solo nel cortile interno del vescovado. Sicuramente in questi quattro anni la situazione è peggiorata e non solo per i cristiani. La vita quotidiana è diventata quasi impossibile. Manca il lavoro, manca la corrente elettrica… se va bene c’è la corrente per un’ora al giorno e quindi si usano “generatori di quartiere” e altri personali. Ogni bar, ogni negozio ha il suo e ci sono milioni di generatori con l’ovvio risultato di un baccano infernale. Paradossalmente manca anche la benzina (si dice per i sabotaggi) e si vedono code lunghissime ai distributori. Oppure molti venditori di taniche lungo le strade. I rapimenti sono un evento ordinario, quotidiano, e così le violenze sulle donne. Muoversi è sempre più rischioso, tornare vivi a casa è già una fortuna. La maggior parte non manda nemmeno i bambini a scuola. Ora sembra che questa situazione si stia diffondendo anche nel nord. E intanto aumenta la separazione. Ormai anche gli ospedali sono per le varie etnie e religioni, si diffida gli uni degli altri.

C’è poi il problema dei milioni di profughi, tra cui anche tanti cristiani. Cosa sta avvenendo?
La situazione dei profughi è esplosiva, probabilmente la peggiore mai vista in Medio oriente dopo quella dei palestinesi nel 1948. Si calcola che siano circa due milioni i “profughi interni” (i cosiddetti “sfollati”) e altrettanti quelli fuggiti in Siria e Giordania. Per i profughi sopravvivere non è facile. Se te ne vai perdi tutto. Se hai una casa non puoi certo venderla; parti solo con i vestiti che hai addosso. Se arrivi vivo, ricominci da un’altra parte. La maggior parte dei profughi interni è andata nel nord, una regione prevalentemente agricola, con villaggi e paesi che in qualche caso stanno passando da due-tremila abitanti a dieci-quindicimila. Il governo curdo ha costruito anche molti nuovi villaggi e sembra disponibile verso i cristiani. Si sta pensando a una enclave cristiana, ma alcuni non sono d’accordo. Dicono: “Siamo cittadini iracheni. Perché dobbiamo andarcene?”. Il mio timore è che la questione dei profughi diventi il pretesto per altri interventi internazionali, così come avvenne per il Kosovo.

Recentemente alcuni vescovi caldei del Nord dell’Iraq, hanno diffuso un appello (che lei aveva definito “disperato”). Cosa risponde Pax Christi?
Come Pax Christi siamo stati tra i primi ad accoglierlo, temendo che l’appello dei vescovi cadesse nel vuoto. La nostra risposta è stata un richiamo all’impegno per tutti i cristiani a solidarizzare con i nostri fratelli in Iraq. Stiamo pensando a una delegazione internazionale per incontrare le varie comunità e raccogliere questo grido di dolore. Dopo aver venduto per anni armi di ogni genere agli iracheni, sarebbe giusto che dall’Italia partisse anche un po’ di solidarietà, di aiuti concreti.

Esiste la possibilità di immaginare qualche prospettiva per il futuro dell’Iraq?
Qualcuno parla di una possibile spartizione etnico-religiosa, come avvenne per la ex Jugoslavia. Credo, e non è solo un mio pensiero, che non sia una cosa buona. Ma direi che oggi parlare di prospettive è quasi impossibile perché la quotidianità stessa della vita è allo sbando, può succedere di tutto. Chi ha invaso l’Iraq non si è preso anche la responsabilità degli obblighi che il diritto internazionale impone. Attualmente chi ha un problema non sa dove rivolgersi, anche se per le leggi internazionali chi invade un Paese dovrebbe essere responsabile della sicurezza, della sopravvivenza dei cittadini. Un ruolo importante possono ricoprirlo i responsabili religiosi, lavorando per il dialogo, per la tolleranza. Ma diverse persone mi hanno detto che “forse Dio si è dimenticato di noi…”. Qui si sta rischiando veramente di perdere la speranza.

51) I curdi del nord Iraq nel mirino di Ankara e al-Qaeda (2 settembre 2007)

In un’intervista realizzata a Diyarbakir e pubblicata sul quotidiano basco “Gara”, Hilmi Aydogdu, responsabile per l’informazione del partito curdo DTP (Partito della società democratica), ha dichiarato che il partito turco AKP (che con le ultime elezioni ha rinnovato il suo mandato governativo) “ha la possibilità di realizzare cambiamenti positivi, anche se rimane il dubbio se abbia il coraggio per farlo”. Durante la recente campagna elettorale, l’AKP aveva evocato la possibilità di una grande operazione militare contro le basi della guerriglia del PKK in territorio iracheno, in quello che per i curdi è il Kurdistan Sud. Parlando di questa eventualità, Hilmi Aydogdu ha ricordato che “sono più di vent’anni che in questa zona ci sono scontri armati tra i curdi e l’esercito turco”. Da parte di Ankara ci sarebbero stati “più di venti sconfinamenti, senza mai poter risolvere il problema”. In realtà, secondo l’esponente del DTP “è l’esercito a volere questa operazione” mentre l’AKP avrebbe “guadagnato voti mostrandosi restio a intraprenderla”. Se l’operazione militare venisse decisa, rappresenterebbe “un problema, dato che i Paesi dell’area, gli Stati Uniti e l’Unione europea non l’appoggerebbero e la Turchia si troverebbe isolata”. Per Aydogdu, il vero obiettivo di questa operazione non è rappresentato dalle basi del PKK. Sarebbe una mossa per “rendere le cose più difficili al governo regionale curdo in Iraq”. Ankara teme le conseguenze che questo governo regionale potrebbe innescare tra i curdi che vivono in altri Stati.
Il governo curdo in Iraq non rappresenta la prima esperienza del genere, ma questa “sta durando a lungo e la sua azione diplomatica potrebbe avere conseguenze positive per tutti i curdi”.
Per quanto riguarda l’attività parlamentare dei deputati curdi eletti al parlamento di Ankara, che sono solo una ventina invece dei trenta previsti, “il nostro primo obiettivo è la pace, risolvere la questione curda per vie pacifiche e democratiche. Trasformare l’attuale situazione di emergenza in cui viviamo in una situazione normale. Vogliamo discutere il problema curdo in Parlamento e parlarne come primo passo per una soluzione”. Da questo punto di vista, Hilmi Aydogdu giudica “prioritario che riprenda il processo per l’integrazione della Turchia nella Ue”. Osserva però che i “Criteri di Copenaghen stabiliti dall’Europa includono il riconoscimento e il rispetto dei diritti individuali, ma la questione curda non si risolve soltanto con i diritti individuali”.
Recentemente i mezzi di comunicazione internazionali avevano già dovuto occuparsi dei curdi del Nord dell’Iraq a causa di alcuni devastanti attentati. La sera del 14 agosto, tre kamikaze avevano fatto esplodere alcuni camion cisterna nei villaggi di Al-Khataniyah, Al-Adnanija e Tal Ouzair, abitati in prevalenza dalla minoranza di lingua curda degli yazidi.
Queste località si trovano nella provincia di Ninive, in prossimità della frontiera con la Siria e a un centinaio di chilometri da Mosul. I morti accertati sono stati più di duecento, almeno 400 i feriti. Secondo il sindaco di Sinjar, la città da cui dipendono i tre villaggi, molte altre vittime sarebbero rimaste sotto le macerie delle loro case. Per l’esercito americano “in questo attacco estremamente coordinato c’è la mano di Al-Qaeda”.
Gli attentati hanno colpito una comunità minoritaria composta da circa 500mila persone che, dopo aver accolto favorevolmente l’arrivo delle truppe statunitensi, avevano sempre cercato di non farsi coinvolgere nel conflitto interconfessionale che lacera il Paese. Rivendicati dai curdi come parte integrante della loro comunità, gli yazidi hanno visto peggiorare progressivamente le loro relazioni con i sunniti, il gruppo prevalente nella regione di Mosul.
Nell’aprile di quest’anno, 23 yazidi erano stati sequestrati nel villaggio di Bashika e poi assassinati, pare come rappresaglia per l’uccisione di una giovane appartenente alla setta, lapidata per essersi innamorata di un sunnita. Le severe regole di questa comunità preislamica, divisa in caste, proibiscono le relazioni e i matrimoni con persone appartenenti ad altri gruppi religiosi. Gli yazidi vivono soprattutto nel Nord dell’Iraq. Altri si trovano nel Caucaso (Armenia, Georgia), in Turchia e in Siria. Nella loro cosmogonia ritroviamo anche elementi zoroastriani e venerano Malak Taus, un arcangelo raffigurato con le sembianze di un pavone. Poiché in passato esponenti di altri gruppi religiosi avevano identificato Malak Taus con Satana, spesso vengono erroneamente definiti “adoratori del diavolo”. Perseguitati da sempre, in particolare all’epoca di Saddam Hussein, nella nuova costituzione irachena è stato riconosciuto il diritto degli yazidi di praticare il loro culto. Attualmente hanno tre deputati, eletti nella lista curda, sui 275 seggi dell’Assemblea nazionale irachena e due seggi su 111 nel Parlamento autonomo curdo. Il presidente dell’Iraq, il curdo Jalal Talabani, ha dichiarato che gli yazidi sono “vittime di una guerra genocida”.

52) Turchia: la nuova Costituzione preoccupa le gerarchie militari. Iran: repressione contro i curdi (settembre 2007)

Forse l’elezione di Abdullah Gul, esponente del partito islamico AKP, alla presidenza della Turchia non rappresenta ancora quella “tappa decisiva nel processo che sta portando alla sconfitta dei militari”, come ha scritto Lucio Caracciolo, ma è stato sicuramente un duro colpo per le alte gerarchie dell’esercito turco. Lo stesso esercito che negli ultimi quarant’anni del secolo scorso aveva rovesciato ben quattro governi, per ultimo quello di Necmettin Erbakan. Il nuovo governo di Erdogan non ha portato a grosse novità. Agli Esteri va l’ex ministro dell’economia Ali Babacan, che manterrà il suo ruolo di capo negoziatore con l’Unione europea. Sono stati nominati ministri anche l’economista Mehmet Simsek, l’accademico Nazim Ekren, Besir Atalay agli Interni e – unica donna – Nimet Cubukcu, ministro senza portafoglio.
Quello che inquieta gli ufficiali dell’esercito non è solo il foulard della first lady Hayrunisa.
Altrettanto preoccupante è il progetto di una nuova Costituzione civile che sostituirebbe quella del 1982, scritta dai militari. La nuova Costituzione implica una riduzione del potere dell’esercito. In particolare verrebbero colpiti il Consiglio militare supremo, le cui decisioni sarebbero soggette a revisione legale, e il Consiglio di sicurezza nazionale, uno dei maggiori organi del Paese attualmente dominato dai militari. Inoltre consentirebbe il riconoscimento delle diverse nazionalità presenti in Turchia (come armeni e curdi) e le autonomie regionali. Senza dimenticare l’acquisizione di standard europei in materia di diritti umani e civili. Per le donne è prevista la possibilità di indossare il velo anche all’interno degli edifici statali e delle università.
Nell’insieme la nuova Costituzione che nel 2008 dovrebbe essere sottoposta a referendum, si configura come un attacco all’ideologia del kemalismo, ispirata al padre della Turchia moderna Mustafa Kemal (Ataturk).

Impiccagioni a Teheran

Sottoposta da dieci anni all’Iran Sanction Act e periodicamente a ulteriori sanzioni (è di questi giorni, metà settembre 2007, la notizia che Washington vorrebbe aggiungere alla lista delle organizzazioni terroristiche anche i “Guardiani della Rivoluzione”, i pasdaran, accusati di fornire armamenti, oltre che agli insorti sciiti iracheni, anche ai talebani, a Hezbollah, Hamas e Jihad islamica palestinese), Teheran non evita da parte sua di reprimere le comunità minoritarie all’interno del suo territorio. In particolare curdi, azeri, arabi e beluci. Gli azeri, turcofoni di religione sciita, rappresentano il 25% della popolazione nelle province del nord e del nord-est, verso il Turkmenistan. Le loro rivendicazioni rimangono per ora di tipo linguistico e culturale. La minoranza araba vive nel Khuzistan, ai confini con l’Iraq e alcuni gruppi presenti in quest’area si sono resi responsabili di attentati. I beluci, sunniti e tendenzialmente separatisti, sono presenti nella regione Sistan-Belucistan alla frontiera con l’Afghanistan. L’organizzazione armata Jundallah, ritenuta vicina a Al-Qaeda, si è resa responsabile di attentati e della cattura di ostaggi. Il 14 febbraio 2007 è stato attaccato un autobus dei Guardiani della Rivoluzione e undici pasdaran sono morti (una trentina i feriti).
I curdi dell’Iran, almeno sei milioni di persone, in maggioranza sunniti, vivono nelle province del nord e del nord-est. Sono organizzati in vari partiti (PDKI, Komala…) ed è attiva anche un’organizzazione armata, Pejak (Partito per una vita libera in Kurdistan), accusata da Teheran di essere finanziata dagli Usa. Negli ultimi tempi la repressione contro le minoranze, soprattutto quella curda, si è inasprita con la chiusura di giornali, numerosi arresti e alcune condanne a morte. Ha suscitato scalpore quella contro due giornalisti curdi, Adnan Hassanpaur e Abdolvahed Botimar. Un responsabile in esilio del PDKI (Partito democratico del Kurdistan-Iran), intervistato da Le Monde, ha raccontato che “dopo l’elezione di Ahmadinejad, la repressione si era intensificata, ma il caso di Adnan è particolarmente grave”. Il giovane giornalista sarebbe stato “condannato a morte senza la minima prova”. Appare evidente che Teheran vuole “dare un esempio per terrorizzare la popolazione in quanto sente il pericolo di una sollevazione”.
Adnan Hassanpaur dirigeva la sezione curda di Asso (Orizzonte), un periodico bilingue chiuso nel 2005. Collaborava poi con alcuni giornali pubblicati nel Kurdistan “iracheno”. secondo l’accusa avrebbe “ricevuto dagli americani sofisticate apparecchiature per lo spionaggio, in modo da raccogliere informazioni sulle basi militari iraniane”. Avrebbe anche, sempre secondo l’accusa, “contattato alcuni responsabili del Dipartimento di Stato americano per aprire in Iraq un ufficio di appoggio agli oppositori della Repubblica islamica iraniana”. Ritenuto colpevole di “attività sovversiva contro la sicurezza nazionale, di spionaggio e di blasfemia”, Adnan è stato definito mohareb, un termine utilizzato per indicare chi prende le armi per rovesciare il governo,
L’altro giornalista condannato a morte, Abdolvahed Botimar, è noto anche come militante dell’associazione ambientalista Sabzchia (“Montagna verde”). Viene accusato di aver conservato nella sua casa alcuni proiettili per il gruppo armato Pejak. Per il suo avvocato le accuse sarebbero “una montatura e le confessioni sono state estorte con la tortura”.
Intanto nelle zone curde dell’Iran la situazione rimane difficile. In luglio, dopo l’uccisione di un giovane militante, sono scoppiati disordini e proteste. Negli scontri tra manifestanti e polizia ci sono stati altri morti e feriti. Particolarmente preoccupati gli esponenti delle comunità curda non islamiche (yazidi e yarzan) che temono di ritrovarsi sotto il tiro incrociato di sunniti e sciiti, analogamente a quanto sta avvenendo in Iraq.

53) È morto lo scrittore curdo Mehmed Uzun (21 ottobre 2007)

Il 13 ottobre Mehmed Uzun è stato sepolto a Diyarbakir, capitale della “nazione senza stato” del popolo curdo. Era rientrato in patria due anni fa, già ammalato del tumore allo stomaco che poi lo ha ucciso, scrivendo di “non essere tornato per morire, ma per vivere”. Giudicato dai critici letterari come il “miglior narratore in lingua curda”, Uzun aveva 54 anni e, anche se la sua carta di identità lo identificava come turco, si era sempre considerato curdo. Scrittore prolifico, aveva pubblicato una ventina di libri (racconti, saggi, raccolte di poesie) tradotti in varie lingue. La sua opera più conosciuta, All’ombra di un amore perduto, è ambientata nella Turchia del 1920. Molto apprezzato per i suoi studi sulla grammatica, la letteratura e il folclore curdi, nel 2001 aveva meritato il prestigioso premio Torgny Segerstedt. Nato a Siverek, nel sud-est dell’Anatolia, nel 1976 venne arrestato per la sua militanza in difesa dei diritti del popolo curdo. Trascorse dietro le sbarre alcuni mesi accusato di “separatismo” per gli articoli pubblicati su “Rizgazi”, la rivista di cui era redattore capo.
Al processo si difese sostenendo l’esistenza del popolo curdo (per Ankara i curdi erano soltanto “turchi di montagna”) e la legittimità della sua lingua. Scelse quindi l’esilio e si rifugiò in Svezia fino al 2005. Nel 1981 la Giunta militare al potere in Turchia lo aveva privato della cittadinanza come molti altri dissidenti, sia curdi sia turchi. Venne nuovamente processato nel 2000 (in contumacia), per un discorso tenuto a Diyarbakir durante un viaggio. Convinto che “proibire la lingua curda sia stato uno dei maggiori errori della repubblica di Turchia”, aveva protestato per la proibizione di esprimersi in lingua curda, auspicando che i giovani curdi avessero la possibilità di studiare nella loro lingua madre.

54) Basi USA nel Kurdistan “iracheno” (20 gennaio 2008)

La notizia della realizzazione di nuove basi statunitensi in territorio curdo ha rischiato di passare quasi inosservata, confusa tra la partenza di Bush per il Medio oriente (“un’ingerenza” per Teheran) e l’inquietante episodio nello stretto di Hormuz. Alcune vedette delle Guardie rivoluzionarie sembravano sul punto di lanciarsi contro tre unità della US Navy, ma quando erano ormai a soli 200 metri dalle navi da guerra (con i cannoni già puntati), i motoscafi dei pasdaran avevano invertito la rotta. Anche se per alcuni osservatori si era “sfiorato un nuovo incidente del Golfo del Tonchino”, quella che il filosofo Costanzo Preve ha già battezzato la “quinta guerra del nuovo ordine mondiale”, non dovrebbe scoppiare. Almeno per ora.
In un comunicato dell’Ufficio d’informazione del Kurdistan in Italia si denuncia che “appare sempre più chiaro il motivo del sostegno Usa al bombardamento dell’aviazione turca sui monti Kandil: nel Kurdistan meridionale [il Kurdistan sottoposto all’amministrazione irachena], con un accordo tra il governo regionale curdo e la Turchia, è stata istituita una base militare strategica, proprio al confine con l’Iran. Lì si trovano esperti militari Usa e israeliani che mirano appunto all’Iran”.
Un’altra base militarmente strategica dovrebbe essere presto creata a Hakkari-Yuksekova. L’agenzia di stampa Anf ha pubblicato alcune foto dell’area, strettamente sorvegliata. Le informazioni sono state raccolte dall’Anf grazie a un esperto militare che in passato ha lavorato per il regime di Saddam e successivamente per il governo del Kurdistan “iracheno” e per le truppe Usa. Questa base in costruzione sarebbe attrezzata con modernissime tecnologie radar e satellitari, trasportate attraverso la Turchia nel Kurdistan del Sud. Verrà costruita sul monte Korek, nei pressi della città di Diyana. L’intera area è stata dichiarata zona militare e vi possono accedere solamente esperti militari (statunitensi e israeliani) e unità speciali. La sicurezza della zona è garantita da 500 miliziani curdi addestrati dagli Usa. Prima dell’intervento statunitense in Iraq, in questa zona stazionavano unità dei servizi segreti turchi (Mit) allo scopo di intercettare le comunicazioni della guerriglia del PKK nei territori circostanti. Giornali israeliani e statunitensi (“Wall Street Journal” dell’11.09.2007) avevano già parlato di questa base che si trova a 3-4 chilometri di distanza dal confine iraniano. Non si può escludere che da questa zona abbiano inizio eventuali operazioni contro l’Iran. In un recente incontro tra esponenti dei servizi segreti statunitensi, israeliani e turchi si sarebbero presi accordi affinché la Turchia rinunci a dichiarazioni e minacce contro il governo del Kurdistan “iracheno” e contribuisca alla creazione di basi militari che puntano alla Siria e all’Iran. Ricordo che stando ai dati forniti dall’associazione Veterans for Peace le basi statunitensi sparse per il pianeta sarebbero circa 900!

55) L’AKP cerca di “conquistare” i curdi partendo da Diyarbakir (20 aprile 2008)

Il mese scorso Guillaume Terrier, inviato di Le Monde, ha potuto constatate di persona che, oltre a quella sulle montagne contro i guerriglieri indipendentisti del PKK, un’altra battaglia si svolge nelle città curde. Il partito attualmente al potere in Turchia (Partito della giustizia e dello sviluppo, AKP), in vista delle elezioni municipali dell’anno prossimo, ha lanciato una campagna per il prendere il controllo delle zone dove finora prevaleva il partito curdo DTP. Nelle periferie di Diyarbakir le Ong islamiche, alcune confraternite religiose (tra cui il movimento Fetullahci) e i rappresentanti dell’AKP “passano casa per casa con il Corano in una mano e un sacco di carbone nell’altra”. Ogni famiglia ha ricevuto trecento chilogrammi di combustibile e i militanti del partito distribuiscono anche “olio, zucchero e libri scolastici…”. Una Ong islamica ha aperto scuole serali con professori volontari che tengono corsi gratuiti per i bambini in difficoltà. Alcuni industriali interessati a investire nella zona hanno distribuito televisori, lavatrici e tonnellate di carne a centinaia di famiglie povere nel quartiere di Baglar. Grazie a questi accorgimenti propagandistici, in alcune zone della città (soprattutto nei quartieri più diseredati, in passato serbatoio elettorale del partito curdo) l’AKP aveva già ottenuto l’80% dei voti alle ultime legislative del luglio 2007. Ma ormai il partito dell’attuale primo ministro sembra vada acquistando consensi in gran parte della regione.
La speranza dell’AKP è quella di ridurre drasticamente il sostegno della popolazione al PKK, alimentando una nuova “amicizia turco-curda che abbia nell’Islam il comune denominatore”. Secondo un leader locale “Diyarbakir è la città che ha ottenuto i maggiori finanziamenti governativi dopo il 2003”. Ovviamente non basta la beneficenza. Riforme sociali e investimenti sono indispensabili in una città dove il tasso di disoccupazione supera il 35%. Numerosi imprenditori turchi mostrano interesse per le zone curde, anche se rimane aperto il problema della stabilità e della sicurezza.
Quanto alla questione, sempre in sospeso, della Turchia in Europa, sembra che Parigi potrebbe sopprimere l’obbligo del referendum. Nel 2005, iscrivendolo nella Costituzione, Chirac si era impegnato a sottoporre a referendum ogni futuro allargamento dell’Unione europea. Invece il progetto di legge costituzionale sulla riforma delle istituzioni francesi, attualmente sottoposto al Consiglio di Stato, lascerebbe al capo dello Stato la scelta tra il referendum e il voto parlamentare per ratificare una nuova adesione. Nel settembre 2007 era stato Jean-Pierre Jouyet, segretario di stato agli affari europei, il primo a sostenere questa proposta, a nome del comitato Balladur sulle riforme istituzionali. Decisamente contrari il deputato dell’UMP Richard Mallié, presidente del comitato parlamentare di vigilanza sull’adesione della Turchia all’Europa, e Jean-Christophe Lagarde, deputato di Nouveau Centre.
La proposta di Sarkozy di rinunciare all’obbligo del referendum viene giudicata positivamente dalla Turchia, per quanto consapevole che lo scopo è soltanto evitare il blocco dell’entrata nell’Unione europea dei Paesi balcanici. I negoziati con Ankara proseguiranno anche durante la presidenza francese dell’Ue, ma quello che Parigi propone alla Turchia rimane una “coopération renforcèe”, ovvero un “partenariat privilégié”, non una piena adesione.
Alcune recenti iniziative del “Partito della giustizia e dello sviluppo” del premier Erdogan, sembrerebbero voler assecondare le richieste provenienti dall’Europa di un maggior rispetto per la libertà di espressione. Il 7 aprile l’AKP ha depositato in Parlamento un progetto di legge per modificare l’articolo 301 del Codice penale con cui si reprime la “denigrazione dell’identità turca”. L’articolo è stato utilizzato in varie occasioni contro i dissidenti, in particolare curdi e armeni.
Ma altre nubi, stavolta di provenienza interna, si vanno addensando sul futuro politico di Erdogan e del suo partito. Il 31 marzo la Corte costituzionale turca ha giudicato ammissibile la richiesta del procuratore generale dell’Alta Corte d’Appello di giudicare l’AKP per violazione del principio della laicità dello Stato. L’attuale partito di governo, nonostante abbia il 47% dei consensi, rischierebbe addirittura lo scioglimento e 71 dei suoi membri (inclusi il primo ministro Recep Tayyip Erdogan e il presidente della Repubblica Abdullah Gul) di venir allontanati dall’attività politica. In cinquant’anni sono stati almeno una ventina i partiti tolti dalla circolazione in nome della laicità dello Stato. Tra questi il “Partito del benessere” (Yenilikciler) predecessore dell’AKP.

56) Donne curde

Fondamentale il ruolo ricoperto dalle donne nei movimenti curdi, anche all’interno delle formazioni guerrigliere. A causa dell’atavica subalternità che ha seminato paura nelle donne curde, perfino timore del proprio marito, inizialmente non veniva accettato che potessero integrarsi nella guerriglia, combattere in montagna. Ma in seguito le cose erano cambiate. “Al nostro interno, mi riferisco al PKK e alle organizzazioni collegate, non ci sono discriminazioni”, ci spiegava nel 1996 Ahmet Yaman, “e lottiamo anche perché questo tipo di mentalità diventi patrimonio comune di tutto il nostro popolo. Pensa solo ai cambiamenti che si vedevano già dopo tre-quattro anni di lotta armata, grazie anche alla grande determinazione delle donne. Sempre più spesso i genitori lasciano che le loro figlie vadano a combattere, quando fino a poco tempo fa non sarebbe stato permesso loro neanche di uscire di casa! Ora [1996] ci sono più di 5mila guerrigliere sulle montagne”.
Sempre negli anni ‘90, era sorta un’organizzazione che operava sia in Turchia sia in Europa, il “Movimento Indipendente delle Donne Curde”. Nel momento di maggiore espansione contava circa 10mila militanti. Oltre che per difendere l’identità e i diritti negati del popolo curdo, si batteva per “un ruolo di primo piano della donna nella società”.
Nello stesso periodo venne creata una divisione dell’esercito guerrigliero esclusivamente femminile. Un modo esplicito per rompere definitivamente con le strutture di stampo feudale e con la mentalità che vedeva le donne subordinate. Stando alle testimonianze rese successivamente da un gran numero di militanti, le donne partecipavano a tutte le decisioni e sicuramente il loro impegno è stato fondamentale per portare avanti la causa curda.
Va collocata in questo contesto di intensa partecipazione delle donne alla resistenza, la drammatica azione di protesta di due militanti curde (Beriwan e Ronaxi) che si erano date fuoco a Mannheim, in Germania, per protestare contro il governo tedesco che aveva messo fuorilegge il PKK e l’ERNK.
Il 30 giugno 1996, Zeynep Kinaci, una guerrigliera ventiquattrenne dell’ARGK, si era gettata su una parata militare nella città di Tunceli (Dersim) facendo esplodere una bomba nascosta sotto i vestiti e uccidendo nove soldati turchi. Per spiegare il suo gesto estremo lasciava alcune lettere, una delle quali indirizzata al presidente del PKK, Abdullah Ocalan.
Qualche mese dopo, il 25 ottobre 1996, Leyla Kaplan, una ragazza curda di 17 anni, nascondendo una bomba in modo da sembrare incinta, ha ucciso quattro poliziotti in un attacco suicida alla stazione di polizia della città di Adana per protestare contro le atrocità commesse dall’esercito turco. Ma non si può comprendere tanta disperata determinazione senza tener conto di quale sia stata per molte donne curde l’esperienza del carcere, della tortura e degli stupri subiti dagli aguzzini in divisa della polizia e dell’esercito turchi. Arrestata perché cantava in curdo, Hevi Dilara (questo il suo nome curdo, ma sui documenti risultava come “Bengin Aksun”, dato che i nomi dei curdi venivano forzatamente turchizzati) venne ripetutamente torturata: “Mi portavano davanti a mio padre svestito, con gli occhi bendati, torturavano me e minacciavano di uccidere mio padre; poi torturavano lui davanti ai miei occhi e dicevano che dovevamo pentirci perché avevamo cantato in curdo. Poi, viceversa, svestivano me, bendavano i miei occhi quando c’era mio padre davanti a me, mi torturavano con il manganello facendo delle cose molto brutte, delle cose che non si possono nemmeno raccontare… Soprattutto quando mio padre era davanti a me, mi torturavano con getti d’acqua intensa o corrente elettrica alle dita e alle parti intime del corpo: tutto questo è durato quindici giorni…”.

57) Intervista a Hevi Dilara, esponente di UIKI (4 novembre 2007)

Hevi Dilara, rifugiata politica curda ed esponente di UIKI (Ufficio d’Informazione del Kurdistan in Italia), è nata a Urfa. Da circa dieci anni vive in Italia. In passato è stata detenuta nelle prigioni turche, subendo la tortura per la sua militanza.

Rimane alta la preoccupazione per quanto sta avvenendo alle frontiere fra Turchia e Iraq nell’eventualità di altre operazioni militari contro le basi del PKK. Ci si occupa meno, invece, delle ragioni del popolo curdo e di quello che continua a subire.
Da trent’anni ormai c’è una lotta di liberazione da parte del popolo curdo, che è stato costretto a prendere le armi per difendere i suoi diritti. Dal 1993 in poi, il PKK ha offerto varie tregue unilaterali per una soluzione politica, chiedendo il riconoscimento della propria identità, di poter partecipare a un processo di democratizzazione della Turchia. In particolare, ha chiesto di applicare nella zona curda una forma di autonomia analoga a quella dell’Alto Adige in Italia o dei Paesi Baschi in Spagna. I turchi sembrano non voler riconoscere l’identità curda, sia culturalmente sia fisicamente, quindi non riconoscono nemmeno il movimento curdo.
Il PKK era nato come movimento studentesco nonviolento. Un insieme di cause lo ha poi portato alla scelta armata. Sicuramente la repressione, le torture subite dai militanti, ma anche il fatto che il Kurdistan è rimasto un’area sottosviluppata. È un territorio ricco di risorse, però la popolazione è molto povera.
Come popolo abbiamo ben conosciuto lo sciovinismo turco che vorrebbe annientare la nostra identità. Da bambina non potevo parlare la mia lingua in pubblico e a scuola. Perfino la musica curda era proibita. Sono stata arrestata anche per aver cantato nella mia lingua. Lo Stato turco ha praticato l’assimilazione nei confronti delle diverse etnie (assiri, armeni…) e la discriminazione religiosa. Esiste, per esempio, una piccola percentuale di curdi che sono rimasti zoroastriani, ma non possono manifestarlo. La necessità di difenderci ha portato alla nascita del PKK, ma sempre con l’idea di lasciare le armi, di trovare una soluzione politica per il conflitto. Inoltre il PKK condanna le azioni contro i civili, com’è scritto anche nel suo statuto.

Come ha risposto lo Stato turco alle proposte di tregua?
La risposta di Ankara è sempre stata “no”. Di fronte ai numerosi cessate-il-fuoco del PKK, la Turchia ha reagito con altre operazioni militari. Dal 1993 a oggi sono entrati in Iraq ventiquattro volte (questa è la venticinquesima) e sempre sono stati respinti dai guerriglieri. Nell’ottobre 2006 c’è stato un importante cessate-il-fuoco. La risposta turca è venuta con le bombe dei servizi segreti e con la “guerra sporca”. Sono state colpite famiglie curde e sono rimasti uccisi anche alcuni bambini. Inoltre vi sono stati nuovi casi di desaparecidos. In quella circostanza alcuni militari di alto grado hanno affermato pubblicamente “la vita di un soldato turco vale quella di dieci curdi”. Da parte sua il PKK ha dichiarato che è legittimo difendersi.

Quindi la presenza dell’esercito turco in Iraq non è una novità.
In Iraq i militari turchi c’erano già. Anche prima della mozione votata il 17 ottobre 2007 in Parlamento, in varie occasioni avevano bombardato i villaggi curdi dell’Iraq. Ma il loro obiettivo non è soltanto il PKK. Dietro questa ennesima operazione si può vedere una costante della politica di Ankara, l’idea di una “Grande Turchia” fino a Kirkuk. Inoltre, la Turchia si è resa conto che la zona curda irachena sta diventando veramente autonoma, con un proprio esercito, l’università curda, le risorse autogestite dai curdi… E questo naturalmente potrebbe contagiare anche i curdi dei territori sotto l’amministrazione turca.

Significa che la creazione nel Nord dell’Iraq di un’area autonoma rappresenta una possibilità anche per i curdi di Turchia, Siria e Iran?
È sicuramente una cosa molto positiva. La nostra terra è attualmente divisa in quattro parti e tutti i curdi hanno subito violenza dai vari stati. Coloro che hanno potuto visitare la zona autonoma del nord dell’Iraq hanno detto: “Adesso almeno una parte della nostra terra è libera”. Soprattutto ha favorito la solidarietà tra curdi, ha permesso il superamento di vecchie ostilità per esempio tra il PKK, il PUK (Unione patriottica del Kurdistan) di Talabani e il PDK (Partito democratico curdo) di Barzani.

Quali sono le conseguenze delle operazioni militari turche contro i villaggi curdi? Dietro questo accanimento ci sono anche ragioni di interesse economico?
I villaggi curdi distrutti in Turchia sono circa quattromila. Attualmente i “profughi interni” sono cinque milioni. Alcuni sono fuggiti in Iraq, altri in Europa. Quanto alle ragioni di interesse economico, è evidente che la Turchia vuole poter gestire le risorse del Kurdistan. Oltre al petrolio, ricordo che qui nascono due fiumi molto importanti, il Tigri e l’Eufrate. La Turchia sta utilizzando sia economicamente sia politicamente tali risorse, indispensabili per conservare un ruolo strategico nella regione. Questo spiega le alleanze con altri paesi come la Siria e l’Iran, dove vivono popolazioni curde. Prima della mozione che autorizzava l’intervento militare in Iraq, iraniani e turchi avevano firmato accordi per attacchi congiunti alle basi del PKK. Il giorno prima del voto del Parlamento turco, il capo del governo siriano, Assad, si trovava in Turchia e aveva dato la sua disponibilità alla lotta comune contro i curdi. Poi, tornato a Damasco, ha smentito. La Siria collabora con la Turchia fin da quando ha scacciato Ocalan. Lo fa soprattutto per paura di perdere i rifornimenti di acqua controllati da Ankara.

L’opinione pubblica in Turchia ha reagito molto duramente contro il PKK per il rapimento da parte della guerriglia curda di otto soldati turchi dopo l’attacco al ponte di Hakkari in cui ne erano morti altri diciassette. Un suo commento?
In un primo tempo, l’esercito turco aveva negato che ci fossero prigionieri. Aveva parlato di “guerra psicologica” della guerriglia. Successivamente aveva insinuato che forse i soldati si erano consegnati spontaneamente, disertando, e avevano cominciato a chiamarli “traditori”. Poi la televisione curda ha trasmesso le immagini che confermavano i comunicati del PKK. Ricordo che ciò è accaduto nel corso di un’operazione dell’esercito. In una operazione analoga di poco tempo fa sono stati usati anche i gas e undici guerriglieri sono rimasti uccisi. I familiari non hanno ancora potuto riavere le salme per impedire che vengano riconosciuti gli effetti dei gas. Chi ha visto i cadaveri ha detto che apparivano come bruciati.
La reazione in Turchia ai fatti di Hakkari è stata una manifestazione di sciovinismo. Tutta la stampa e molti scrittori hanno attaccato indistintamente i curdi. Sono stati assaliti sedi, ristoranti, librerie… In questo momento molti curdi non osano uscire di casa; dovunque sentono dire continuamente che “bisogna bombardare i curdi”. Lo Stato turco ha saputo alimentare lo sciovinismo e siamo di fronte al rischio di uno scontro tra le due popolazioni, non solo in Kurdistan. Infatti, tantissimi curdi, generalmente profughi, vivono a Istanbul, ad Ankara. Proprio a Istanbul recentemente il Comune ha fatto scacciare i curdi di una baraccopoli, abbattendo le loro povere case perché “imbruttivano la città”. La maggior parte dei profughi sono poverissimi e, in quanto curdi, hanno molte difficoltà a trovare lavoro.

Scioperi della fame contro le celle “F”, rivolte dei prigionieri, esecuzioni extragiudiziali e tortura. Sicuramente la situazione dei diritti umani in Turchia suscita parecchie preoccupazioni. Da questo punto di vista, come giudica l’eventuale ingresso della Turchia in Europa?
Ritengo che l’entrata della Turchia in Europa non sia un fatto negativo, ma bisognerebbe capire “quale Turchia”. Sicuramente non la Turchia che viola i diritti umani di un terzo della sua popolazione, i curdi. In questi ultimi tempi ci sono stati tentativi di adeguarsi alle richieste europee di una maggiore democratizzazione. I turchi hanno liberato Leyla Zana, sospeso la pena di morte, concesso una mezz’ora giornaliera di trasmissioni televisive in lingua curda. Tuttavia chi parla curdo dal palco (in occasione di comizi o concerti) o si richiama alle tradizioni curde, viene censurato.
Non si può parlare curdo negli uffici pubblici. Addirittura gli anziani, che parlano solo la loro lingua, non possono portare un interprete. Tra il 2004 e il 2005 erano stati rilasciati anche molti prigionieri politici, passando da 12mila a circa 5mila. Ma da un anno a questa parte sono di nuovo aumentati, almeno 10mila. Gli ultimi arresti sono il risultato delle azioni della polizia contro insegnanti, giornalisti e militanti del “Partito democratico della società”. Questo partito è presente in Parlamento con ventidue deputati, gli unici che abbiano votato contro l’invasione dell’Iraq. La maggior parte dei prigionieri curdi è appunto rinchiusa nelle famigerate celle “F” in totale isolamento, senza poter mai uscire, nemmeno per la prevista ora giornaliera, senza radio, senza poter telefonare. Rimane poi molto grave, anche dal punto di vista della salute, la situazione del presidente Ocalan. Contro questo stato di cose anche recentemente ci sono state proteste e scioperi della fame. Anche Leyla Zana è nuovamente sotto processo per aver difeso l’identità curda. Lo stesso sta accadendo a molti sindaci di località curde. Recentemente il sindaco di Diyarbakir è stato condannato a sei mesi per un saluto in curdo. Una Turchia così diventerebbe un problema per l’Unione europea. Forse alla fine prevarranno soltanto gli interessi economici, ma sarebbe un peccato che i Paesi europei, fondati sulla democrazia, accettassero questa Turchia. Potrebbero invece presentare un “pacchetto di proposte” per risolvere democraticamente la questione curda. Una Turchia che rispettasse le minoranze, etniche e religiose, rappresenterebbe una ricchezza per l’Europa.

58) Intervista a Leyla Zana, la voce dei curdi (dicembre 2008)

L’8 dicembre 1994 veniva pronunciata la sentenza di condanna contro otto parlamentari curdi, sette dei quali membri del Partito democratico, DEP, messo fuorilegge. Accusati di collaborazione con il PKK e di “attentato all’integrità dello stato”, cinque imputati, tra cui Leyla Zana, furono condannati a 15 anni di carcere. Gli altri a 3 anni e sei mesi. La corte aveva lasciato cadere le accuse di “alto tradimento” evitando quindi ai condannati la pena di morte. Presumibilmente grazie alle pressioni internazionali – tra cui un appello dal presidente francese Mitterand – esercitate sul governo di Tansu Ciller (“donna dell’anno” 1993 secondo i telespettatori di Euronews).
E intanto proseguivano le attività anti-curde, sia quelle ufficiali (secondo l’agenzia Anatolia l’ultima offensiva dell’esercito nella provincia di Tunceli aveva causato la morte di una cinquantina di presunti guerriglieri) sia quelle “coperte”: qualche giorno prima era stato colpito il giornale “Ozgur Ulke”, un morto e una ventina di feriti. Nel 1995 il Parlamento Europeo assegnava a Leyla Zana il premio Sakharov per la libertà di espressione; nel 1996 ha ricevuto il premio internazionale Rose dell’organizzazione del movimento operaio danese per la difesa dei diritti umani. Mentre era ancora detenuta nel carcere speciale di Uculanlar (Ankara) le è stata accordata la cittadinanza onoraria di Roma. Per molti anni l’ex prigioniera politica è stata la “bestia nera” delle unità speciali turche, responsabili di una durissima repressione nei territori curdi. La sua immagine veniva usata come bersaglio nei poligoni di tiro. A Leyla Zana stava per essere attribuito anche il premio Nobel per la Pace, ma poi la candidatura venne accantonata per le proteste della Turchia.
Giovedì 30 ottobre 2008, presso l’Ateneo Veneto di Venezia, si è svolto un incontro-dibattito con Leyla Zana. Vi hanno preso parte anche Hevi Dilara, Tiziana Agostini, Orsola Casagrande, Baykar Sivazliyan e Luana Zanella. Un’occasione per conoscere “non solo la sua storia di donna curda, ma la storia di una comunità, di una nazione senza stato”, ha commentato Tiziana Agostini. I curdi sono un popolo che “dall’antica Mesopotamia ha saputo arrivare fino ai nostri giorni per la sua forte identità, forza morale, generosità”. Attualmente smembrato in quattro stati, il Kurdistan “galleggia” su un mare di petrolio. Nel Kurdistan “iracheno” (Kurdistan Sud) i bombardamenti ordinati da Saddam – sulla città di Halabja e sui villaggi del nord-est – sono stati un disastro per un popolo in buona parte di agricoltori. Il cianuro è penetrato nel terreno e gli effetti durano ancora a venti anni di distanza. Se qui oggi i curdi possono parlare la loro lingua, altrove il “diritto alla parola” viene ancora negato. In particolare nel Kurdistan “turco” (Kurdistan Nord, 20-25 milioni di curdi) dove le tensioni sono maggiori. La giornalista Orsola Casagrande ha ricordato che “sono ormai passati diciotto anni da quando Leyla Zana venne eletta pronunciando poi nell’aula del Parlamento parole di pace e speranza in lingua curda. Successivamente arrestata e condannata per separatismo, ha trascorso 11 anni in carcere e decine di altri processi nei suoi confronti restano ancora aperti”.
“Nel Kurdistan turco c’è la guerra”, ha continuato Casagrande, “e anche in questi giorni proseguono i bombardamenti da parte dell’esercito e dell’aviazione. Inoltre la Turchia si è arrogata il diritto di bombardare il Kurdistan iracheno. Per aver tradotto in curdo (oltre che in inglese, tedesco, francese) gli opuscoli turistici, alcuni sindaci sono ora sotto processo. Nelle scuole la lingua ufficiale è quella turca. Si può scegliere di studiare l’inglese o il tedesco come lingua straniera, ma non il curdo. Quest’anno lo stand dei curdi a Francoforte è stato assalito da estremisti turchi per aver esposto la bandiera del Kurdistan e le emittenti curde in Europa sono minacciate di chiusura”.
Un panorama desolante. Baykar Sivazliyan, autore del recente libro Ospiti silenziosi – I curdi in Italia, ha ricordato che “ormai un quarto di secolo fa l’Ateneo Veneto aveva organizzato a Venezia, insieme alla Fondazione Lelio Basso e alla Lega per i diritti e la liberazione dei popoli, un incontro analogo dedicato al genocidio armeno di cui oggi almeno si comincia a parlare anche in Turchia”. Una nazione moderna, coraggiosa dovrebbe affrontare alcune questioni come il fatto che “in Turchia non esistono solo turchi, quasi un terzo della popolazione è costituito da curdi”. Per la prima volta in Italia, Leyla Zana racconta che “quando ieri sera sono arrivata a Venezia era buio, ma oggi non riuscivo a staccare gli occhi dalle infinite bellezze della città”. In mattinata c’era stato l’incontro con il sindaco Massimo Cacciari e con l’assessore alla cultura Luana Zanella che ha paragonato la situazione dei curdi a quella del Tibet. Leyla Zana ha ringraziato soprattutto “Tiziana e Orsola per aver raccontato quello che sta subendo il mio popolo”.

In Turchia per il vostro popolo la situazione resta difficile. Rifiuto da parte del governo di riconoscere l’identità curda e dura repressione. Ce ne può parlare?
Penso che nessun popolo al mondo altrettanto numeroso come i curdi (circa 40 milioni) sia rimasto senza un proprio stato. Quando venne fondata la Repubblica di Turchia i parlamentari curdi eletti andarono nel Parlamento, ma poco tempo dopo molti furono impiccati. Eppure Mustafa Kemal, Ataturk, aveva detto che era “la repubblica dei turchi e dei curdi”. Anche nel 1991 siamo stati eletti come curdi, 22 maschi e io, la prima donna eletta dal mio popolo a cui avevo promesso “sarò la vostra lingua”. Ho giurato in curdo, nella mia madre lingua e quasi tutti i parlamentari mi hanno attaccato. Io dicevo: perché non ascoltate le mie parole che parlano di pace? Loro sostenevano che dovevo parlare in turco, ma noi siamo nati curdi, abbiamo la nostra cultura, storia, lingua. Noi vogliamo convivere con voi, dicevo, ma voi dovete accettare la nostra identità. Ma per loro noi siamo “i turchi rimasti sulle montagne” e così ci hanno incarcerato per molti anni. Oggi, a causa della lotta di liberazione, riconoscono l’esistenza dei curdi, ma non i loro diritti. E tutto il mondo sembra ascoltare il governo turco quando dichiara che non sta violando i diritti umani. Ovviamente gli stati fanno i loro interessi e chiudono gli occhi sulla condizione dei curdi. Noi non siamo contro i rapporti economici, ma chi vende armi alla Turchia dovrebbe sapere che verranno usate contro i villaggi curdi. Molti curdi sono venuti in Europa, anche qui a Venezia. Però vorrei precisare che il mio popolo non è scappato per un pezzo di pane. Se avessero potuto continuare a vivere nella loro terra, a lavorare nella loro terra, i curdi non sarebbero venuti all’estero. Il Kurdistan non è ricco soltanto di petrolio e giacimenti minerari, ma anche di acqua, la principale fonte di vita. Se si avviasse un dialogo la ricchezza della nostra terra ci basterebbe per vivere.

Vien da chiedersi come possano i curdi continuare a vivere in questa situazione…
Vivono male infatti. Nel Nord Kurdistan più di 3500 villaggi sono stati evacuati. Molti curdi sono fuggiti in Europa, altri nelle metropoli turche. Soprattutto questi ultimi incontrano grandi difficoltà, il loro tasso di disoccupazione è altissimo. Nelle città turche i bambini curdi di sei-sette anni vendono fazzoletti e altri oggetti per la strada, mentre i loro coetanei vanno a scuola, fanno sport, imparano altre lingue. Molti bambini curdi figli di sfollati devono lottare per un pezzo di pane. Noi diciamo che “il peso della vita gli ha bloccato la schiena”. Nel mio caso, anche la mia famiglia è spezzata in quattro, come il mio popolo.

Esiste qualche Stato disposto a riconoscere l’indipendenza del Kurdistan?
Il Kurdistan è diviso in quattro stati, due arabi, uno persiano e uno turco che hanno stretto alleanze per non riconoscere uno stato curdo. Dopo la caduta di Saddam la repressione è aumentata sia in Iran (dove molti curdi sono stati impiccati) sia in Siria, dove attualmente i curdi non hanno diritti. Ogni volta che i curdi, divisi dalle frontiere statali, riprendono a dialogare tra loro, gli stati intervengono attaccandoli, creando difficoltà. Da quando nel Kurdistan Sud (la parte irachena) esiste una certa autonomia, la Turchia attacca militarmente perché non accetta questa realtà. Nessun governo aiuta i curdi. Naturalmente noi non chiediamo aiuti agli stati; ci basterebbe che almeno non sostenessero quelli che ci bombardano. Ogni popolo ottiene la libertà con le proprie mani, ma l’amicizia tra i popoli può avvicinare questo momento.

Poco tempo dopo questa intervista, il 4 dicembre 2008, Leyla Zana veniva nuovamente condannata a dieci anni di carcere dalla corte di Diyarbakir. La sua “colpa”, aver espresso durante conferenze e manifestazioni, sostegno al PKK e al suo fondatore Ocalan. Per il momento la condanna è sospesa.

59) Nuova invasione turca del Kurdistan “iracheno” (marzo 2008)

L’operazione via terra del 22 febbraio 2008, preceduta da pesanti bombardamenti a tappeto, con cui la Turchia ha invaso l’Iraq per distruggere le basi della guerriglia del PKK, ha avuto il sostanziale appoggio statunitense. La Casa Bianca, attraverso il suo portavoce Scott Stanzel, ha ammesso di essere stata informata prima che i diecimila soldati varcassero il confine, mentre erano ancora all’oscuro sia il governo iracheno sia il governo regionale curdo e il suo presidente Masud Barzani, leader del PDK (Partito democratico curdo).
Washington ha chiesto alle autorità di Ankara di limitare le azioni militari all’obiettivo del PKK, mentre per l’Unione europea si dovrebbero evitare “azioni militari sproporzionate”. I bombardamenti dei villaggi curdi oltre il confine – ritenuti basi operative della guerriglia indipendentista – erano iniziati nel dicembre 2007 con l’aiuto logistico e di intelligence degli Usa. L’invasione turca, per quanto annunciata, è iniziata prima del previsto. Le montagne del Kurdistan sono ancora coperte di neve e tra poco, il 21 marzo, si celebra il capodanno curdo, Newroz. Da anni questa data è sinonimo di scontri tra la polizia e i manifestanti curdi nel sud-est della Turchia. In questa situazione è possibile che il livello dello scontro cresca ulteriormente di intensità con conseguenze tragiche. Anche pochi giorni fa due manifestanti curdi sono rimasti uccisi durante i funerali di una decina di guerriglieri del PKK, mentre nella città di Cizre un quindicenne è stato ammazzato dalla polizia nel corso di una manifestazione per chiedere la liberazione di Ocalan, il leader del PKK in carcere. Le proteste sono durate alcuni giorni e i manifestanti hanno assalito la sede di Cizre dell’AKP, il partito al governo. Agli inizi del mese una marcia di almeno 20mila persone, guidata da sindaci, deputati ed esponenti del partito curdo DTP (Partito democratico popolare), aveva attraversato il Kurdistan turco chiedendo la fine delle operazioni militari e l’apertura di trattative fra tutti i soggetti coinvolti nel conflitto. L’invasione del Kurdistan iracheno è stata la prevedibile risposta di Erdogan e dei militari turchi.
Sabato scorso, si è svolta a Milano un’imponente manifestazione per protestare contro l’invasione e in segno di solidarietà con le migliaia di sfollati dalle zone del Kurdistan destinate a essere invase dall’acqua di immensi bacini artificiali costruiti dalla Turchia.

60) I popoli del Medio oriente come “pedine sulla scacchiera” (novembre 2009)

Venerdì 23 ottobre 2009: per il Pakistan una normale giornata di terrore. In poche ore almeno 25 morti, in gran parte civili, in tre diversi attentati. Il più grave, l’esplosione di un pullman nel Waziristan del Sud, dove è in atto l’offensiva dell’esercito per strappare le aree tribali al controllo dei talebani. Il giorno dopo due missili sparati da un drone (aereo senza pilota) colpiscono il villaggio di Damadola: 27 morti. Stando alle dichiarazioni del governo, era in corso un summit tra il comandante talebano Moulvi Faqir e altri capi guerriglieri del distretto di Bajaur. Intanto cadeva (per la terza volta in otto giorni) la roccaforte talebana di Kotkai nel Sud Waziristan, considerata il “feudo” di Hakimullah Mehsud, esponente di spicco dei Tehrik-i Taliban pachistani (TTP).
Se questa è ordinaria amministrazione in Pakistan, la situazione non appare più rosea in Afghanistan, Kurdistan, Belucistan, Palestina…
Comunque venga definita questa regione (Medio Oriente, Middle East, Mashreq o, alla francese, Levant) la sua storia, scrive Parag Khanna, “ha tutte le caratteristiche di una faida tra parenti protrattasi per decenni sotto lo sguardo vigile e interessato di arbitri imperiali sempre impegnati a mercanteggiare il favore dell’uno o dell’altro dei contendenti”. Non sbagliava il presidente americano Woodrow Wilson sostenendo che le potenze europee trattavano i popoli di questa area “barattandoli come fossero merci, o pedine sulla scacchiera”.
Nel 1916 Francia e Gran Bretagna si erano spartiti la Siria “usando con disinvoltura cartine del Settecento che rappresentavano la ripartizione delle diocesi all’interno dell’impero ottomano”.
Poco tempo dopo, negli anni Venti, i francesi “marciarono su Damasco rovesciando il regime fantoccio dell’emiro Feisal, insediato dagli inglesi, al quale per riparazione fu assegnato l’Iraq”.
In seguito, quando il fratello maggiore di Feisal, Abdallah, rientrò con le armi in Siria, gli inglesi non trovarono niente di meglio che “strappare alla Palestina tre quarti del suo territorio e assegnarlo a quest’ultimo insieme con il titolo di re di Transgiordania”.
Poi, come è noto “arrivarono gli americani” e non si può escludere, commenta l’autore de I Tre Imperi, che “siano destinati a percorrere la stessa strada dei loro predecessori europei”.
Risale al giugno 2006 la pubblicazione su “Armed Forces Journal”, rivista delle Forze Armate Usa, di una carta geografica approntata dal luogotenente Ralph Peters, ex colonello e rinomato stratega del Pentagono. La nuova mappa, proposta nel settembre 2006 anche al Collegio di Difesa Nato, avallava una divisione dell’Iraq in tre parti attraverso l’istituzione di un “Kurdistan libero” formato da territori iracheni, siriani e turchi ed esteso “da Diyarbakir fino a Tabriz, che diventerebbe lo stato più pro-occidentale tra Bulgaria e Giappone”. Con la garanzia per gli Usa di poter stabilire basi militari e controllare fonti e condutture di gas e petrolio. Sempre in base a questo “risiko” del Pentagono, l’Iraq verrebbe ulteriormente diviso tra uno stato arabo sciita e un altro sunnita.
In un articolo successivo, sempre su “Armed Forces Journal”, Peters suggeriva di alimentare il conflitto tra sciiti e sunniti (“tra musulmani e musulmani”) per “spezzare l’alleanza anti Usa”. Quanto alla prefigurazione di un “Belucistan libero” – ritagliato da Iran, Afghanistan e Pakistan – avrebbe lo scopo “nel lungo periodo di trasformare il Grande Iran in un piccolo Iran, determinando anche le condizioni per un cambio di regime interno”. Sostanzialmente un progetto di disgregazione e ridisegno delle mappe del Medio Oriente per garantirsi il controllo delle fonti e reti di trasporto energetiche dell’area attraverso la costituzione di regimi “più affidabili”.
Inevitabile collegare i due momenti di questa strategia (alimentare il conflitto tra sunniti e sciiti e sostenere strumentalmente alcuni movimenti separatisti) agli attentati compiuti dalle organizzazioni dei sunniti beluci. Il 18 ottobre 2009 nella località di Pisheen il gruppo denominato “Jundullah”, attivo soprattutto nel Sistan-Baluchistan (sud-est dell’Iran) abitato da quattro milioni di beluci sunniti, ha ucciso con un attentato kamikaze una cinquantina di persone, tra cui almeno venti civili. Tra le vittime sei alti ufficiali dei Pasdaran, i Guardiani della rivoluzione. Nell’attentato ha perso la vita anche il generale Nour Ali Shushatari, esponente di rilievo dell’entourage politico-militare iraniano. Teheran ha immediatamente accusato Usa, Gran Bretagna e Pakistan di sostenere, attraverso i rispettivi servizi segreti, il gruppo armato. È probabile che Abdul Malek Rigi, il leader di Jundullah, abbia potuto contare sul sostegno di alcuni settori dell’Isi, i servizi segreti pakistani.
E per gli Usa? Si riteneva che le cose potessero cambiare con il cambio della guardia alla Casa Bianca e le “purghe” operate da Obama nei servizi. Rimaneva comunque qualche dubbio ben sapendo che dal 2004, su concessione dell’amministrazione Bush, i ribelli beluci possiedono una televisione satellitare con residenza in Virginia a qualche decina di chilometri dalla sede della Cia. Nel novembre 2006 il giornalista Seymour Hersh (noto per aver rivelato il massacro del villaggio vietnamita di My Lay nel 1968 e le torture di Abu Ghraib nel 2004) aveva scritto sul “New Yorker” che in Iran “il Pentagono ha stabilito rapporti clandestini con curdi, azeri e beluci, incoraggiando i loro sforzi per minare l’autorità di Teheran”. E sottolineava che per il sostegno ai gruppi armati delle varie minoranze “non è richiesta l’informativa al Congresso, in quanto attività considerate militari e non di spionaggio”. Seymour è ritornato sull’argomento nel luglio 2008 sostenendo che il Congresso aveva “appoggiato la decisione del presidente Bush di stanziare 400 milioni di dollari per armare e sostenere gruppi iraniani”. In un servizio del 2007 ABCNews aveva citato fonti dell’intelligence pachistana e statunitense secondo cui non solo l’Isi, ma anche la Cia avrebbero avuto contatti non occasionali con Jundullah. Il gruppo sarebbe stato addestrato da esponenti dei servizi americani nell’ambito di un programma di destabilizzazione dell’Iran. Il 2 aprile del 2007 Abdul Malek Rigi venne intervistato dalla trasmissione in lingua persiana della Voice of America in quanto “leader del Movimento popolare di resistenza dell’Iran”, la nuova denominazione di Jundullah. L’organizzazione, di ispirazione qaedista, venne fondata nel 2003 da Nek Mohammed Wazir e inizialmente veniva considerata una “costola” del Movimento dei talebani del Pakistan (TTP) guidato da Baituyllah Mehsud.
Una settimana prima dell’attentato di Pisheen, il 10 ottobre 2009, anche i miliziani del TTP erano tornati clamorosamente in azione attaccando il quartiere generale dell’esercito pachistano a Rawalpindi, nei pressi di Islamabad. Per un’intera giornata una quarantina di soldati e civili che lavorano nel QG sono rimasti nelle mani dei guerriglieri. Alla fine sul terreno si contavano i corpi senza vita di otto soldati, altrettanti assalitori e tre ostaggi.
A più di duemila chilometri di distanza, sul confine turco-iracheno, un altro gruppo armato, il PKK ha compiuto un gesto di segno diametralmente opposto. Lunedì 19 ottobre 2009 otto guerriglieri provenienti dai monti Qandil hanno attraversato, disarmati, la frontiera nei pressi di Silopi. Erano accompagnati da un “gruppo di pace” formato da 26 civili provenienti da un campo profughi di Erbil, in Iraq. Il loro gesto voleva essere un “sostegno alle proposte di pace del governo turco” che sta per presentare al parlamento alcune misure per facilitare una soluzione del conflitto tra esercito turco e guerriglia curda. Una guerra iniziata nel 1984 e che in 25 anni avrebbe causato circa 50mila morti.

61) Curdi fuorilegge? (gennaio 2010)

Le vetrine infrante nei dintorni del commissariato di Dolapdere, un quartiere di Instanbul, confermavano la durezza degli scontri tra curdi e polizia avvenuti il 13 dicembre 2009. Più difficoltoso rintracciare i segni della violenza a mano armata esercitata da gruppi di miliziani nazionalisti turchi che, tra l’indifferenza degli agenti, avevano sparato sui manifestanti.
I disordini erano scoppiati nella città turca (dove vive la più numerosa comunità di sfollati e profughi interni provenienti dal sud-est, dal Kurdistan turco) per protestare contro l’ennesima messa fuori legge di un partito curdo, il DPT. Ma stavolta la decisione della Corte costituzionale di Ankara è giunta inaspettata, dopo l’entrata in vigore di alcune riforme di “apertura democratica” come il diritto di parlare la lingua curda e il ripristino dei nomi tradizionali di strade e piazze. In novembre il premier Recep Tayyip Erdogan aveva presentato in parlamento la sua “iniziativa curda” alimentando la speranza di una soluzione politica del conflitto.
E invece, agli inizi di dicembre, gli undici giudici della Corte costituzionale hanno richiesto la messa al bando del DPT (“Partito per una società democratica”, legale e presente in parlamento con 21 deputati) per presunti legami con la guerriglia del Pkk e per aver “violato la Costituzione” appoggiando il separatismo. Una quarantina di esponenti del DPT (tra cui i deputati Ahmet Turk e Aysel Tugluk, sospesi dal parlamento) sono stati banditi per cinque anni dalla vita politica.
Gli altri 19 deputati curdi hanno annunciato di voler abbandonare il loro seggio e, per solidarietà, anche sette indipendenti. Nonostante tutti i beni del partito siano stati confiscati, le insegne del DPT sono già state rimpiazzate da quelle della nuova formazione politica destinata a succedergli, il Partito per la pace e la democrazia (BDP). In meno di venti anni è la sesta volta che il movimento curdo rinasce sotto un altro nome, ma senza cambiare il progetto politico. “Se sarà necessario”, hanno dichiarato, “ne faremo un settimo, un ottavo, un nono…”.
Mentre i curdi rimasti feriti sotto i colpi dei miliziani turchi del Partito di azione nazionalista (MHP, estrema destra) sono stati arrestati dalla polizia, alcuni dei responsabili della sparatoria, in un primo tempo fermati, venivano rimessi in libertà. Altre manifestazioni di protesta si sono svolte nelle città curde di Diyarbakir e Bulanik. A Must un “guardiano di villaggio” (miliziani armati e addestrati dalla polizia) ha aperto il fuoco uccidendo due manifestanti curdi. La tensione cresce e i discorsi anticurdi dei leader nazionalisti turchi potrebbero far degenerare la situazione.
Per il giornalista di “Milliyet” Ece Temelkuran, ormai “manca solo una scintilla”. Soprattutto a Instanbul molte persone parlano apertamente di come intendano “ripulire le bidonvilles della periferia diventate dei quartieri curdi”.
Negli stessi giorni in cui la Turchia metteva fuori legge il DPT, Human Rights Watch pubblicava un rapporto sulle violazioni dei diritti dei curdi in Siria, il 10% della popolazione. Da qualche anno, dopo le manifestazioni del 2005, la repressione di Damasco si è intensificata, impedendo sia le riunioni politiche sia le manifestazioni culturali e arrestando un gran numero di attivisti.

62) Tra Grecia e Turchia ci rimettono i curdi (maggio 2010)

Intervistato dalla televisione greca, il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan ha voluto sottolineare che “le nostre economie sono complementari”. L’incontro di Atene del 14 e 15 maggio 2010 è frutto del riavvicinamento tra i due nemici storici e potrebbe, secondo lo specialista dei rapporti greco-turchi Umut Ozkirim, “inaugurare un consiglio strategico bilaterale inspirato al consiglio franco-tedesco”. Commenti positivi anche dal vice ministro degli Esteri greco, Dimitris Droutsas che ha parlato di “inizio di un nuovo serio impegno comune e di una cooperazione più stretta con la Turchia”. Erdogan ha voluto “mostrare la nostra solidarietà nei confronti della Grecia che potrà, con pazienza, superare questa crisi”.
Istanbul era stata la prima visita ufficiale di Georges Papandreu dopo la sua elezione a primo ministro. Nel 1999, quando era ministro degli Esteri, aveva lanciato un segnale di riconciliazione offrendo l’aiuto della Grecia alla Turchia colpita dal terremoto. La crisi ha offerto ad Ankara la possibilità di ricambiare, anche se molte questioni rimangono aperte. Non sembrano facilmente risolvibili il problema di Cipro (invaso nella parte nord dall’esercito turco nel 1974) e il contenzioso territoriale intorno alle isole del mare Egeo. Gli aerei turchi violano ripetutamente lo spazio aereo e nel 1996 l’equipaggio di una nave turca aveva occupato lo scoglio di Imia mettendo in discussione la sovranità della Grecia. A causa di questa “guerra fredda a bassa intensità”, l’acquisto di armamenti era cresciuto a dismisura. È auspicabile che l’enormità del debito pubblico possa ora indurre i governanti greci a un ridimensionamento. Il ministro aggiunto della Difesa, Panos Beglitis, ha previsto che nel 2010 il budget del suo ministero dovrebbe ridursi da 6,8 a 6 miliardi di euro, il 2,8% del Pil. Negli anni ottanta e novanta le spese militari raggiungevano il 6%.
Ma non tutto sembra andare per il verso giusto. Il deputato europeo Daniel Cohn-Bendit ha dichiarato di aver appreso dallo stesso Papandreu che “il sostegno di Parigi e di Berlino al piano di aiuti per la Grecia sarebbe stato condizionato dal rispetto degli accordi per l’acquisto di armi stipulati dal governo precedente”. Si riferiva all’acquisto di alcune fregate Fremm vendute dalla Francia (un contratto da 2,5 miliardi di euro) e alla chiusura di una vertenza con la ThyssenKrupp per la costruzione di quattro sottomarini.
Le smentite del governo greco che ha parlato di “semplici coincidenze” sono apparse poco convincenti.
Per Ankara la Grecia non è più il nemico principale. Ormai la maggiore minaccia strategica è costituita dal fronte curdo. Truppe precedentemente inviate a presidiare la “zona grigia” nell’Egeo vengono ora schierate nel sud-est del paese.
Mentre si ripetono gli episodi di scontri armati tra esercito e PKK, dalla Turchia arriva la notizia di una nuova condanna per Leyla Zana. Tre anni di reclusione per aver criticato pubblicamente le torture contro i militanti kurdi e l’isolamento carcerario imposto a Abdullah Ocalan nel carcere-fortezza di Imrali. I giudici di Diyarbakir hanno stabilito che le parole pronunciate dalla militante curda costituiscono una “propaganda a favore di un’organizzazione terroristica”. Insignita dal Parlamento europeo del premio Sacharov e per due volte candidata al Nobel per la Pace, Leyla Zana ha già trascorso in prigione oltre dieci anni per aver pronunciato il giuramento da parlamentare nella sua lingua madre. Una curiosità, sempre in materia di riavvicinamento greco-turco. Nell’ottobre del 1998 Ocalan iniziava le sue peregrinazioni tra Russia, Italia e Grecia. Trasportato da Atene presso l’ambasciata greca di Nairobi, nella notte del 15 febbraio venne rapito da uomini mascherati dei servizi segreti. Un “regalo” di Atene alla Turchia.

63) Curdi impiccati in Iran mentre in Turchia rischiano di rimanere in carcere gli esponenti del BDP (giugno 2010 )

Cinque oppositori, un esponente monarchico e quattro membri di un gruppo della guerriglia curda (PJAK), sono stati impiccati nella capitale iraniana il 9 maggio 2010. Familiari e avvocati venivano informati solo a esecuzioni ormai avvenute. Shirine Alamhouli, Ali Heidarian, Mehdi Eslamian, Farzad Karmangar e Farad Vakili erano accusati di “azioni terroriste, compresi attentati contro edifici governativi”.
Mentre in molte capitali europee i dissidenti iraniani organizzavano manifestazioni di protesta, un esponente dell’opposizione, Mir Hossein Moussavi, ha espresso la sua condanna e definito questi processi “ingiusti”. A pochi giorni dall’anniversario della contestata elezione di Ahmadinejad nelle elezioni del 12 giugno 2009, si temeva un’ennesima stretta repressiva per prevenire iniziative di contestazione contro il regime. Timori poi ampiamente confermati. Un ulteriore segnale negativo era venuto nello stesso giorno delle cinque impiccagioni. Il leader studentesco Abdollah Momeni e la giornalista Hengameh Shahidi, politicamente vicini all’ex presidente del Parlamento Mehdi Karoubi, sono stati condannati rispettivamente a 4 anni e 8 mesi e a 6 anni di carcere.
Quanto alla Turchia, più che una ennesima manifestazione di disprezzo per la comunità curda, la decisione del tribunale di Dijarbakir appare come un tentativo per garantire al Partito per la giustizia e lo sviluppo (AKP) una maggioranza qualificata (almeno 330 seggi in Parlamento), così da poter riformare la Costituzione senza doversi troppo confrontare con l’opposizione.
Il 26 giugno veniva respinta la domanda di scarcerazione, in base al principio dell’immunità parlamentare, per Gulser Yildirim e Ibrahim Ayhan, eletti nelle liste del Partito per la pace e la democrazia (BDP). Stessa risposta il giorno prima per altri tre detenuti curdi eletti nel suffragio del 12 giugno. Un sesto esponente del BDP, Hatip Dicle, eletto con 78mila voti, veniva invece dichiarato “ineleggibile” dall’Alto consiglio delle elezioni (YSK). Il suo seggio potrebbe essere occupato da Oya Eronat, esponente del partito di governo AKP. Mentre il presidente della Repubblica, Abdullah Gul, invitatava tutti i partiti, compreso il BDP, a partecipare alla vita politica in quanto “il solo luogo per trovare una soluzione è il Parlamento”, il partito curdo legale ha minacciato di boicottare l’istituzione. Sei eletti nelle liste del BDP, su un totale di 36, vengono accusati di “collusione con un’organizzazione terroristica”, il KCK, ritenuto un’associazione di fiancheggiatori del PKK. Altan Tan, deputato del BDP, ha definito questa decisione “inaccettabile”. Analogamente, due eletti del Partito repubblicano del popolo (CHP, Mustafa Balbay e Mehmet Haberal) e un eletto del Partito nazionalista (MHP), il generale Engin Alan), tutti accusati di aver preso parte a un complotto antigovernativo, sono stati mantenuti provvisoriamente in detenzione. “Per rispetto – o almeno così recitava il comunicato ufficiale – dell’indipendenza dei giudici”, l’AKP non ha contestato queste decisioni.

64) Turchia dopo il referendum del 12 settembre 2010 e breve storia dei colpi di Stato (16 settembre 2010)

Il progetto di riforma della Costituzione proposto dal governo turco ha ottenuto il 58% dei voti. Una percentuale che va ben oltre quella elettorale (40%) del partito di Recep Tayyip Erdogan, l’AKP (“Partito della giustizia e dello sviluppo”, islamico-conservatore) attualmente al potere.
Per il giornalista turco Ishan Dagi (“Zaman”) questi risultati confermerebbero che “quando viene interpellato, il popolo turco manifesta sempre il desiderio di un paese democratico”. La riforma della Costituzione rappresenterebbe un “passo avanti verso una repubblica post-kemalista, non più governata dalla burocrazia civile e militare”. Gli ha fatto eco Alain Frachon su “Le Monde”. Votando una serie di emendamenti costituzionali per una vita politica più democratica, i Turchi avrebbero “compiuto un ulteriore passo verso l’Europa, quello che chiedeva loro l’Unione europea in conformità con i criteri di Copenaghen”.
Per la segretaria di stato agli affari europei Aysé Sezgin, al suo paese non interesserebbero “le sovvenzioni che l’Ue elargisce alle regioni più povere, ma entrare a far parte di un club di cui condivide valori e destino”. La coalizione dei filoeuropei sembra essere piuttosto ampia. Oltre all’AKP, ne farebbero parte buona parte dei laici (convinti che l’appartenenza all’Ue impedirebbe le derive islamiste) e dei curdi che sperano in una maggiore autonomia. L’economia turca, la 17esima a livello mondiale, è già ampiamente integrata con quella europea. Si parla di un 50% del commercio estero. Contemporaneamente Ankara sta sviluppando un’azione diplomatica da “potenza globale emergente” in Medio oriente, Asia centrale, Caucaso e Balcani, entrando talvolta in contraddizione con la politica europea e con quella della Nato. Dialoga con le corrente radicali dei palestinesi (Hamas) e al momento di votare le sanzioni contro l’Iran, ha manifestato il suo rifiuto.
Una delle prime conseguenze del referendum, è stata la valanga di denunce contro i generali autori del colpo di stato del settembre 1980. Tra le 26 modifiche adottate, la soppressione dell’articolo 15 che garantiva l’impunità giudiziaria agli autori del golpe. Dal mattino di lunedì 13 settembre, centinaia di persone si sono radunate davanti al tribunale di Besiktas, a Istanbul, reclamando giustizia contro i responsabili. Tra i manifestanti, intellettuali turchi e curdi, rappresentanti di Ong che difendono i diritti umani, sopravvissuti alla repressione e parenti delle vittime. Manifestazioni analoghe si sono registrate ad Ankara, Bursa, Samsun e nelle aree a maggioranza curda. Il mondo giuridico turco si sta dividendo sulla legittimità delle denunce e sull’eventuale prescrizione dei reati. L’intellettuale Orhan Miroglu ha ricordato di essere stato “torturato giorno e notte per tre anni di seguito e poi sottoposto a un trattamento di rieducazione durante il quale venivamo picchiati e umiliati”. Si augura che “anche in Turchia si possa costituire una Commissione di verità e riconciliazione” come è avvenuto in Cile, Argentina e Sudafrica.

I colpi di stato turchi

Chi all’epoca aveva orecchi (e un minimo di coscienza antifascista) ricorda sicuramente quanto gridavano, speranzosi, i neofascisti nostrani nel marzo 1971 dopo un ennesimo colpo di stato in Turchia: “Ankara, Atene… e adesso Roma viene”. Fortunatamente la storia doveva smentirli. Per Atene, ovviamente, il riferimento era ai colonnelli greci. Dalla nascita del regime autoritario a partito unico, fondato da Mustafà Kemal (Ataturk), la Turchia ha periodicamente conosciuto l’intervento dei militari. Il Partito democratico di Celal Bayar aveva vinto le elezioni nel 1950, ma venne rovesciato con un golpe dal generale Gursel nel 1960. Bayar venne condannato all’ergastolo e quattro suoi ministri furono impiccati. Nel 1961 si formò un governo di coalizione, imposto dai militari e guidato da Ismet Inonu, tra il Partito repubblicano del popolo (il partito kemalista) e il Partito della giustizia. Quattro anni dopo, in seguito alla vittoria elettorale del Partito della giustizia nelle elezioni del 1965, diventava capo del governo Suleyman Demirel. Seguirà un periodo difficile, segnato da almeno due tentativi di colpo di stato, mentre cresceva nel paese l’ostilità contro la presenza della VI flotta, le basi militari statunitensi e il comando della Nato a Smirne. Dopo il rapimento di quattro marinai statunitensi a opera del gruppo di sinistra “Esercito di liberazione popolare turco”, il 13 marzo 1971 i militari imposero lo stato d’assedio e un governo guidato da Nihat Erim. Durissima la repressione contro i sindacati e i movimenti di sinistra.
Le successive elezioni, ottobre 1973, furono vinte da Bulent Ecevit, nuovo leader del Partito repubblicano del popolo che governerà insieme a due partiti minori di destra. Nel 1974, dopo l’occupazione turca del 40% del territorio cipriota, tornava al potere Demirel. Per qualche anno, dal 1975 al 1978, si inasprirono i rapporti tra Turchia e Stati uniti (embargo sulle forniture militari e “statuto provvisorio” per il funzionamento delle basi militari), mentre il 1977 viene ricordato, oltre che per l’aggravarsi della crisi economica, per l’esplodere della violenza politica, con più di trecento morti e migliaia di feriti. Il primo maggio, durante un comizio organizzato dalla DISK (Confederazione dei sindacati operai riformisti, nata dagli accordi tra 17 organizzazioni nel 1967), dei cecchini uccisero una quarantina di persone.
Dopo tre brevi governi, nel gennaio 1978 toccherà a Ecevit, sostenuto dai settori economici filoccidentali, guidare una nuova coalizione. Nel corso dell’anno le azioni dei “Lupi grigi” e dei gruppi della sinistra rivoluzionaria provocheranno un migliaio di morti. Il 23 dicembre 1978, i quartieri popolari della città di Maras vennero attaccati da bande di estremisti di destra, armati e mascherati, che lasciarono sul terreno un centinaio di morti. Lo stato d’assedio, proclamato in 13 delle 67 province, fu il preludio per il sanguinoso colpo di stato del settembre 1980 che portò al potere la giunta militare guidata da Kenan Evren. Dopo il golpe vennero arrestate circa 650mila persone. Centinaia quelle uccise o scomparse, mentre le condanne a morte eseguite furono una cinquantina.
Una repressione particolarmente dura si scatenò nelle regioni curde dove, anche ai nostri giorni, in epoca formalmente democratica, i metodi rimangono comunque brutali. Un’ulteriore conferma è venuta dalle immagini di otto cadaveri di combattenti curdi uccisi dai militari turchi. Raccolti in sacchi di plastica, maciullati dai cingoli dei carri armati, i resti dei guerriglieri presentano una pelle grigiastra e liquefatta. Tuttavia capelli e barba non risultano bruciati e, secondo gli esperti dell’ospedale universitario di Amburgo, “non è stata una fiammata a distruggerli in questo modo”. Le ustioni sarebbero la conseguenza dell’uso (e non è certo la prima volta) di “sostanze chimiche”. Le foto, consegnate ancora nel marzo 2010 a una delegazione tedesca da alcuni militanti curdi, sono state giudicate attendibili da esperti di tecnica fotografica e da medici forensi. In Germania ne hanno parlato “Tageszeitung” e “Spiegel”, ma senza pubblicarle perché ritenute troppo crudeli. Le vittime, due donne e sei uomini uccisi nella regione di Kukurka, erano militanti del PKK. I cadaveri sarebbero stati calpestati e fatti a pezzi dai blindati per cancellare le tracce che confermano l’uso da parte dell’esercito turco di armi chimiche proibite dalla Convenzione di Ginevra. Numerosi politici tedeschi, tra cui Claudia Roth dei Gruenen e Ruprecht Polenz della Cdu hanno chiesto “spiegazioni” al governo turco. Anche perché l’episodio di Kukurka sarebbe soltanto l’ultimo di una lunga serie. Evidentemente Ankara predica bene (solidarietà con i palestinesi di Gaza) ma razzola male. Almeno nei confronti dei curdi.

65) Intervista con Riccardo Redaelli (11 settembre 2010)

Abbiamo incontrato il professor Riccardo Redaelli, docente di Geopolitica all’Università Cattolica di Milano, al 43° Convegno di Recoaro “Nel Mediterraneo il riflesso del mondo”, organizzato dall’Istituto Rezzara di Vicenza. Titolo della sua relazione: “Ripercussioni mondiali dei conflitti del Mediterraneo”.

Da vari decenni l’area mediterranea è attraversata da molteplici conflitti di “varia intensità”. Oltre a quello più noto israelo-palestinese (o arabo-israeliano) sembra periodicamente sul punto di riesplodere quello interno libanese. Di altre situazioni, come l’Algeria o Cipro, si parla sempre meno…
Prima di parlare dei conflitti è necessario definire il Mediterraneo. Da questo punto di vista le carte possono trarre in inganno. La geografia fisica sembra oggettiva, ma non lo è geopoliticamente. Il Mediterraneo è cambiato in passato e cambia ancora con le condizioni politiche. Senza andare troppo indietro con la storia, durante la Guerra Fredda era sostanzialmente il “fianco sud” della Nato con una sua unitarietà. Con la fine del bipolarismo, la crescita dell’Asia, l’insorgere del fondamentalismo, si è spaccato: l’occidentale, il Maghreb, e l’orientale che si è trovato agganciato al Medio oriente. Da Israele, Libano, Siria fino all’Iraq, all’Afghanistan, all’Asia centrale, con le ex repubbliche sovietiche e lo Xiniang, quello che gli uiguri chiamano Turkmenistan orientale. È un’area in divenire, profondamente influenzata da tensioni esterne.
Quindi le coste orientali del Mediterraneo rappresentano il punto di partenza di un grande arco di crisi che ha fortemente condizionato l’occidente, soprattutto dopo l’11 settembre. A confronto l’Africa è un “buco nero” che suscita uno scarso interesse sia politico sia mediatico.

Torniamo al conflitto arabo-israeliano. Perché lo ha definito un “iper-conflitto”?
È un conflitto, quello tra palestinesi e israeliani, attraversato da altri conflitti. Per esempio tra una visione più secolare e una più fondamentalista. Questo è più evidente nel campo islamico, ma esiste anche in Israele. Un altro conflitto che emerge è quello, interno al mondo islamico, tra sciiti e sunniti. Il Libano è ancora il principale terreno di scontro della rinascita del movimento sciita per una ridistribuzione del potere politico.

Quando si parla di sciiti si pensa soprattutto alla potenza iraniana. Appare scontato il rapporto privilegiato di Teheran con gli sciiti libanesi di Hezbollah. Come si spiega invece il legame con i palestinesi sunniti di Hamas?
In effetti da un punto di vista teologico è una contraddizione. In realtà quella tra Iran e Hamas è una “convergenza tattica”. Invece quella con Hezbollah per l’Iran è un’alleanza strategica.

Il problema di un non adeguato riconoscimento della comunità sciita esisteva anche in Iraq all’epoca di Saddam. La situazione attuale appare più equa?
In Iraq il riequilibrio del potere tra sunniti e sciiti è avvenuto nel modo peggiore.
La guerra è stata gestita male e il dopoguerra è risultato un fallimento. L’Iraq rappresenta l’evento più drammatico degli ultimi anni, un evento che ha lacerato il mondo islamico, non solo l’Occidente. La nuova entità irachena è molto fragile, una pseudo-democrazia che rischia di crollare attirando non solo l’estremismo islamico, ma anche i paesi confinanti.
Forse soltanto i curdi hanno guadagnato qualcosa, ma se l’Iraq dovesse implodere difficilmente potrebbero conservare la loro autonomia.

Anche in questi giorni si è tornati a parlare dei progetti iraniani in campo nucleare e dell’eventualità di un attacco di Israele ai siti incriminati. Cosa può dirci a riguardo?
Israele vede il programma nucleare di Teheran come una minaccia esistenziale. Direi che non siamo di fronte a un conflitto ma piuttosto a una crisi molto grave. Non solo non è stato possibile trovare un compromesso sul nucleare, ma gli ultraconservatori hanno riportato l’Iran in una situazione di durissima repressione interna. Non vedo molte alternative. O accettare un Iran provvisto del nucleare o bombardare con tutte le possibili, drammatiche conseguenze.

Resta incerta la situazione in Afghanistan. Dopo la discutibile vittoria della coalizione sui talebani, come procede la ricostruzione del paese?
Anche in Afghanistan c’è stata una serie di errori, di sottostima dei problemi. È una guerra che può ancora essere persa e che ha evidenziato i limiti della comunità internazionale come attore di ricostruzione. Somalia, Iraq e Afghanistan ci hanno insegnato che la Nato è in grado di agire militarmente, ma che non è facile ricostruire. Se si decide per un intervento, si deve anche sapere che deve durare almeno dieci anni. Come in Kosovo e in Bosnia. Un esempio positivo, di successo, è rappresentato dal Libano.

Finora abbiamo parlato soprattutto di conflitti con l’esterno. Esistono nell’area anche paesi travagliati da conflitti eminentemente interni?
Si tratta di conflitti squisitamente politici, di lotte per il potere. Conflitti che possono degenerare come è avvenuto in Algeria quando il governo del Fln e l’esercito sono intervenuti contro la vittoria elettorale degli islamisti del Fis.
Questi conflitti, penso anche all’Egitto, alla Tunisia, alla Siria, rivelano l’incapacità di questi regimi di rigenerarsi. Il sistema statuale nei regimi arabi appare bloccato.

Un altro problema è quello delle minoranze etniche e religiose oppresse, tra cui anche quelle cristiane.
In Libano i cristiani maroniti, come tutte le minoranze, sono garantiti dalla Costituzione. Il loro maggior problema, attualmente, è di essere divisi politicamente, schierati su fronti contrapposti. In parte con Hariri, in parte a fianco degli Hezbollah. Invece in Iraq i cristiani rischiano di sparire. Come ha spiegato un vescovo iracheno: “ InIraq si è spezzato il legame tra il popolo cristiano e la sua terra”. Una delle conseguenze della guerra scatenata da Bush.
Resta preoccupante la situazione dei copti (in Egitto), quella dei caldei e degli assiro-cristiani. Ma vorrei ricordare anche l’oppressione subita in Arabia saudita dalla minoranza sciita. Per gli sciiti dello Yemen invece i problemi sono originati da dispute di origine tribale. Senza dimenticare i berberi e i tuaregh in Algeria o i palestinesi di religione cristiana in Israele. In Medio oriente le minoranze vengono sistematicamente rese invisibili, emarginate. Con queste premesse dubito che un sistema federale sia praticabile in Iraq. Non è compatile con una visione islamista, con quel modello di potere.

66) Intervista a Baykar Sivazliyan – 3 (febbraio 2011)

Venerdì 4 febbraio 2011 a Villa Lattes, Vicenza, si è tenuto un incontro-dibattito con il professor Baykar Sivazliyan, docente dell’Università degli Studi di Milano, sul tema “Del Veneto, dell’Armenia e degli Armeni: la memoria dell’integrazione”.

Il premier turco Recep Tayyip Erdogan, finora considerato un leader moderato e dialogante, sembra volersi fare portavoce di un rinnovato “orgoglio islamico” (soprattutto in politica estera) e rivendicare con forza il ruolo di potenza emergente della Turchia. Cosa è cambiato dal referendum del 12 settembre 2010?
Penso che non sia cambiato molto, forse eravamo stati troppo ottimisti prima. La Turchia di oggi è, senz’altro, l’erede dell’Impero Ottomano e, come si sa, questo enorme impero multietnico è stato assai longevo nella storia moderna dell’umanità e ha lasciato ai governanti attuali una formidabile esperienza di governo e di diplomazia. Negli ultimi tempi, mi tornano in mente le lucide e veritiere parole del giornalista del “New York Times”, Jonathan C. Randal, che nel 1997 scrisse nel suo libro I curdi: “Gli ottomani erano veri maestri nell’arte della corruzione e degli intrighi tribali, tanto che persino quando trionfavano in battaglia, i leader curdi venivano sistematicamente ingannati nei negoziati successivi e finivano in esilio, in prigione, o assassinati”.
È vero che la Turchia desidera avere il ruolo di potenza emergente nell’area, ma realmente non ha la levatura morale per poter vestire questi panni. Sappiamo bene che le sue relazioni con il mondo arabo non sono così eccellenti come ci fanno credere. Nessun paese arabo ha dimenticato gli anni di schiavitù e di dura repressione che sono durati, in qualche caso, secoli. La politica di zero problemi con i vicini non ha dato nessun risultato tangibile. Ormai nella politica internazionale contano i fatti, perché i popoli stessi sono più vigili e informati; le parole o le carte firmate se non supportate immediatamente da atti concreti non fanno più sognare nessuno. L’esempio più lampante sono i due protocolli concordati con l’Armenia, e pomposamente firmati in Svizzera, che da circa due anni rimangono ancora lettere morte, in quanto la parte turca immediatamente ha frapposto delle precondizioni per iniziare a discutere. Era una goffa manovra per impedire il riconoscimento definitivo del Genocidio Armeno da parte del Mondo intero.

Il fatto che la Turchia si riscopra “islamica” avrà qualche implicazione nella prevista integrazione con l’Europa?
Non penso che il cammino della Turchia verso l’Europa possa subire un qualsiasi rallentamento o accelerazione per queste aperture “strane” verso l’Islam. Come sappiamo bene, l’entrata di un paese nell’Unione Europea dipende sostanzialmente dal livello del raggiungimento dei parametri richiesti da parte di quest’ultima. Su circa 36 capitoli, fino a oggi la Turchia è riuscita a centrarne solo due. Qui nasce un’altra questione basilare, secondo me. Oggi il numero dei turchi che desiderano veramente integrarsi in Europa sta sensibilmente diminuendo.

In passato la Turchia aveva buoni rapporti di collaborazione con Israele (anche in materia di repressione, vedi il caso Ocalan). Dopo la tragica conclusione dell’attacco israeliano alla nave di aiuti umanitari per Gaza, cosa è cambiato? Come si potrebbe riassumere l’attuale confronto tra Gerusalemme e Ankara?
Le relazioni con Israele e in generale con il mondo ebraico della Turchia sono state eccellenti per tanti decenni. Ricordiamoci l’enorme aiuto che la lobby ebraica dell’America, non certo disinteressatamente, ha sempre dato per impedire che il governo statunitense riconoscesse ufficialmente il Genocidio del Popolo Armeno. Contraddizione nella contraddizione: una delle documentazioni essenziali che oggi gli studiosi e diplomatici di tutti i paesi usano per studiare il Genocidio degli Armeni è costituita dalle carte dell’ambasciatore H. Morgenthau, rappresentante a Costantinopoli degli USA durante gli anni del Genocidio Armeno (1915-1918), un ebreo americano che gli armeni riconoscono come uno dei maggiori “Giusti” del proprio popolo.
La Turchia ha tanti, troppi e importantissimi legami diplomatici-militari con Israele e penso che questo pseudo confronto è semplicemente di facciata. I due paesi sono legati l’uno all’altro da interessi che oserei chiamare vitali. Del resto l’operazione maldestra di un corpo speciale israeliano che ha causato la morte di nove cittadini turchi è stato criticato moltissimo anche in Israele.

Di recente alcuni intellettuali armeni residenti in Francia hanno accusato Sarkozy di aver fatto marcia indietro sulla denuncia del genocidio degli Armeni. Qual è l’atteggiamento in proposito delle principali nazioni europee?
Finché la Turchia non avrà il coraggio civile di interloquire direttamente con i vicini dell’Armenia con onestà e correttezza, le terze parti si adegueranno di volta in volta ai loro interessi concreti. Non solo in merito alla questione armena, ma anche curda e cipriota (e anche sui diritti umani in Turchia). È questo il punto che i governanti turchi, se veramente onesti e amanti degli interessi della Turchia, devono capire. Nella diplomazia non esistono sentimentalismi, contano solo gli interessi concreti. La storia recente dell’Europa ci insegna molto bene questo fatto. Molti stati che fino a pochi decenni fa per un metro di terra versarono copiosamente il sangue dei propri giovani, oggi hanno abolito le frontiere. E soprattutto nei momenti di crisi economica, una fattura regolarmente pagata gonfia di euro vale molto di più della integerrima moralità e del senso di giustizia. Mi risulta che anche in Francia la crisi economica sta mietendo molti posti di lavoro.

In che modo la Turchia è inserita nei progetti energetici della regione (vedi gasdotto Nabucco) e questo ciò influisce sugli sviluppi politici?
La Turchia negli ultimi anni si è inserita in un gioco molto ingarbugliato di politica energetica, firmando ugualmente accordi con la Russia, i paesi europei, l’Iran e l’Azerbaigian. In questo affare si è inserita pure la Georgia, come paese di passaggio del greggio. Qualcuno ha pensato che tutto ciò fosse stato architettato per lasciare fuori da questa politica lucrosa e strategica la piccola Armenia e per ricattarla con più facilità. Ma la questione è più complessa. L’Armenia ha canali di approvvigionamento privilegiati sia con la Russia sia con l’Iran, frutto di una relazione di pace, di amicizia di secoli e di interessi strategici reciproci con queste due potenti nazioni dell’area. Al contrario, dopo avere firmato numerosi e importanti accordi con i paesi citati, la Turchia si è accorta che la quantità del greggio (che si sta esaurendo sensibilmente nel Bacino del Mar Caspio) e anche la sicurezza di passaggio di queste vie non hanno una lunga vita. Infatti è notizia abbastanza recente che i governanti turchi hanno deciso di rivolgersi, attraverso una gara internazionale, alle società di costruzioni di centrali nucleari russe per potere acquistare alcune centrali chiavi in mano, per riconvertire le vie di approvvigionamento e di produzione di energia elettrica del paese, per rafforzare le esigenze dell’industria crescente.

E l’attuale situazione dei curdi nello stato turco?
I curdi, sulla scia di una maggiore autonomia loro concessa nel nord dell’Iraq dopo la
caduta di Saddam, avevano sperato di ottenere maggiori ed elementari diritti anche in Turchia. Chiedevano il minimo: poter usare la loro lingua, studiare in curdo, avere una piccola autonomia nell’amministrazione locale delle zone abitate con stragrande maggioranza dai loro connazionali, potersi difendersi nella propria lingua nei numerosi processi politici che riguardano cittadini turchi di origine curda. Nulla di più di quanto è in vigore da decenni in Sudtirolo. È evidente a tutti che per questi riconoscimenti lo stato Italiano non è crollato. Purtroppo, a parte qualche visita pomposamente reclamizzata dei governanti e le belle parole, rimangono ancora decine di migliaia di soldati in assetto antisommossa sul territorio abitato da curdi, il famoso sud-est della Turchia, perché già indicare con il nome di Kurdistan turco crea molti e gravi problemi. Anche qui bisogna sottolineare le enormi contraddizioni dell’amministrazione governativa. Da decenni Abdullah Ocalan è rinchiuso come unico detenuto su un’isola sperduta del mar di Marmara, come “capo terrorista”, nemico numero uno del regime turco. Ogni tanto però circolano, palesemente autorizzate dal governo turco, le sue lettere scritte dal carcere ai capi dei guerriglieri o a qualche politico curdo e recanti la lista delle azioni da fare per trovare un modus vivendi per i curdi nella Turchia.

Che ne pensa della distruzione di un monumento per la fratellanza e l’amicizia turco-armena nella città di frontiera di Kars?
Non fa altro che confermare il mio pessimismo. Il signor Erdogan, di passaggio nella città di frontiera di Kars (a pochi chilometri dall’Armenia), ha trovato molto “strano” il monumento raccomandando al sindaco di distruggere l’opera d’arte, del resto costruita da un bravissimo artista turco. Più voci hanno confermato che questa presa di posizione cosi drastica era per accattivarsi i voti di un 10% di turchi-azeri residenti in città che possono ribaltare l’ago della bilancia politica a favore del partito islamista.

67) Nuova vittoria dell’AKP in un contesto di pericolose inquietudini mediorientali (2011)

Gli avvenimenti libici non costituiscono l’unica fonte di preoccupazione per quanto potrebbe accadere in Nordafrica e Medioriente. Le notizie dei massacri operati in Siria (si è parlato di “Sharpeville siriane” con cecchini che sparavano sulla folla durante i funerali) si sovrappongono alla rivendicazione di Al-Qaida nel Maghreb islamico (AQMI) per l’uccisione, avvenuta il 15 aprile 2011, di quattordici soldati algerini nella località di Azazga.
Durissimi scontri tra polizia turca e manifestanti curdi si erano scatenati, il 19 aprile 2011, a Dijarbakir e Istanbul a causa della non accettazione da parte dell’Alto Consiglio elettorale di alcune candidature del partito BDP, tra cui quella di Leyla Zana (Premio Sakharov per la libertà del Parlamento europeo). Mentre in Algeria veniva ritrovato cadavere un esponente dell’opposizione, Ahmed Kerroumi, scomparso da alcuni giorni, in Iraq, il 23 aprile 2011, migliaia di persone hanno manifestato contro l’intervento dell’Arabia Saudita e del Qatar in Bahrein. Sempre il 23 aprile, la popolazione yemenita ha scioperato massicciamente contro il presidente Ali Abdullah Saleh. Negozi, scuole mercati e uffici chiusi ad Aden e Taiza, manifestazioni a Sanaa e altre località. In cambio dell’impunità, Saleh ha accettato la proposta del Consiglio di cooperazione dei paesi del Golfo di dare le dimissioni in vista di nuove elezioni.
Alla fine le elezioni turche sono state ancora vinte dal Partito della giustizia e dello sviluppo, Akp, guidato da Recep Tayyip Erdogan. Si tratta della terza vittoria consecutiva dal 2003 (per quanto meno trionfale delle previsioni) e viene ritenuta il “frutto dei progressi ottenuti negli ultimi otto anni”. Dopo decenni di inflazione, bancarotta e colpi di stato, la Turchia ha raggiunto una discreta stabilità economica, con un rapporto debito/pil del 41% e una crescita dell’8,9. Quella che attualmente è la sedicesima economia al mondo, non nasconde l’ambizione di diventare la decima entro il suo primo centenario (2023).
Passato da 16 a 21 milioni di voti, l’Akp non ha tuttavia raggiunto quel 52% che avrebbe permesso una immediata riforma della Costituzione, formalmente ancora quella del golpe militare del 1980, per quanto emendata. Con soltanto 326 deputati (invece dei 367 necessari per avere i due terzi del Parlamento), la riforma costituzionale di tipo presidenziale, alla francese, dovrà passare per un referendum popolare e attraverso la mediazione con gli altri partiti.
Il Partito repubblicano del popolo (CHP, di ispirazione kemalista e vagamente socialdemocratico) guidato da Kemal Kilicdaroglu, è arrivato al 25,9%, mentre il Partito di azione nazionalista (MHP, di destra, gli ex “Lupi grigi”) di Devlet Bahceli si è fermato al 13%, superando comunque la soglia di sbarramento. Altri partiti dell’opposizione, una dozzina, non hanno raggiunto l’indispensabile 10%. Buoni risultati per i candidati curdi. Come nel 2007, la soglia di sbarramento è stata aggirata con candidature indipendenti nel Blocco per il lavoro e la democrazia (i curdi del Partito della pace e della democrazia, BDP, insieme a candidati arabi, assiri e della sinistra). I deputati curdi sono passati dai 22 del Parlamento uscente a 35. Nel programma elettorale di Leyla Zana – già eletta con il DEP nel 1990 insieme a Hatip Dicle e subito imprigionata – anche l’amnistia per militanti e detenuti curdi.
Tra le sfide che Erdogan dovrà affrontare, la prosecuzione dei negoziati per entrare nella Ue, bloccati dal veto di Cipro e dall’opposizione di Francia e Germania. Dopo l’incidente dell’anno scorso con la nave turca di Freedom flottilla, permangono difficoltà nei rapporti con Israele, in passato alleato strategico della Turchia. Altro problema, le migliaia di rifugiati provenienti dalla Siria entrati in territorio turco. Numerose tendopoli sono state installate nella provincia di Hatay. La maggior parte dei profughi proviene dalla città di Jisr al-Sughour, attaccata dalle truppe di Assad con i blindati e sottoposta a una dura repressione che avrebbe coinvolto anche i villaggi circostanti. Il premier turco Erdogan non ha escluso la possibilità di una soluzione militare creando una “zona cuscinetto” nel nord del territorio siriano. Ufficialmente per gestire la crisi umanitaria, ma soprattutto per timore di infiltrazioni curde.

68) Minoranze a rischio tra Iraq e Siria (intervista con don Renato Sacco di Pax Christi – 2) (2011)

Curdi, alawiti, drusi, cristiani, sciiti, sunniti. La Siria si presenta come un fragile mosaico etnico-religioso. Inevitabile pensare all’Iraq dove il numero dei cristiani (circa un milione nel 2003) risulta dimezzato. Ne abbiamo parlato con don Renato Sacco, diventato recentemente consigliere nazionale di Pax Christi.

Come interpreta il fatto che molti cristiani iracheni che avevano trovato rifugio in Siria stiano per rientrare in patria?
Paradossalmente dove ci sono poteri forti, se non vieni sterminato, hai diritto di sopravvivenza. In Iraq la guerra aveva distrutto ogni struttura statale e le minoranze sono state stritolate. Ora temo che questo possa accadere anche in Siria.

In Iraq con monsignor Giudici ha incontrato le comunità cristiane. Mi sembra di capire che il Kurdistan iracheno stia diventando un rifugio anche per chi rientra dalla Siria. Potrebbe essere una soluzione?
Attualmente in Iraq le minoranze sono indifese, soprattutto i cristiani che non hanno la mentalità di chi è propenso a combattere con le armi per la propria identità.
Nel Kurdistan iracheno hanno trovato rifugio molti cristiani fuggiti da Bagdad e da Mosul. Un quartiere della città di Erbil, Ankawa, è diventato una zona quasi completamente cristiana. Qui si è trasferita anche la Scuola teologica, il seminario diocesano di tutta la chiesa caldea. Naturalmente è anche nell’interesse dei curdi, sia per legittimarsi di fronte alla comunità internazionale, sia per poter annettersi altri territori. Sarebbe importante fermare l’esodo dei profughi cristiani in quanto costituiscono una presenza fondamentale, una garanzia di pluralismo, per l’Iraq come per la Siria.

La vostra rivista “Mosaico” si sta occupando della crisi siriana. Che opinione vi siete fatti?
Su uno dei prossimi numeri la copertina sarà dedicata alla Siria e pubblicheremo una testimonianza di padre Paolo Dall’Oglio che recentemente ha avuto l’espulsione. Chi predica e testimonia a favore del dialogo, chi invita a “non soffiare sul fuoco”, in questo momento non è ben visto dal regime. Per il momento padre Dall’Oglio è ancora a Marmissa, ma come comunità stanno prendendo in considerazione la possibilità di andare nel nord dell’Iraq, a Suleimanya.
Mentre è relativamente facile identificare le colpe del regime siriano, risulta più complesso stabilire cosa ci sia dietro le rivolte. Molte notizie non sono confermate da testimonianze. Il problema è capire chi alimenta il conflitto. Per “ragioni nobili” o per secondi fini? Si sta cercando di destabilizzare un potere per instaurarne un altro di segno opposto? Noi proponiamo una lettura del conflitto anche dal punto di vista del commercio delle armi. Chi le fabbrica e le vende ha soltanto da guadagnarci, in Siria come in Iraq o Libia.

Come potrebbe agire la comunità internazionale? È proponibile un intervento militare?
A mio avviso, la comunità internazionale dovrebbe intervenire con una massiccia presenza disarmata, inviando un gran numero di osservatori, così come si auspicava per i Balcani. Un intervento militare avrebbe effetti destabilizzanti. Pensiamo a quello che è accaduto in Iraq con la violenza settaria. Per questo, ripeto, è importante capire, verificare le fonti. In un contesto del genere c’è il rischio che la battaglia dell’informazione sia vinta da chi le spara più grosse. Non vorrei che si stesse preparando il terreno per un intervento armato contro l’Iran.

Esistono già iniziative del Mondo pacifista?
Al momento non mi risulta. ne abbiamo parlato alla Tavola per la Pace, ma di fatto non ci sono proposte concrete. Resta sempre valido quanto dichiarò il vescovo ausiliario del patriarcato caldeo di Bagdad, monsignor Warduni, davanti alla Commissione Esteri. Agli esponenti del mondo politico italiano che mostravano preoccupazione per la sorte dei cristiani in Medio oriente disse senza mezzi termini: “Piantatela di vendere armi”. Ma nessuno dei parlamentari presenti mostrò in seguito di aver raccolto l’invito. Si potrebbe invece far rispettare la Legge 185, impedire ai mercanti di armi di fare affari sulle crisi internazionali. Quindi, se non sappiamo esattamente cosa dovrebbe fare la Comunità internazionale, diciamo almeno cosa può NON fare.

69) I curdi in Siria (2011)

Dopo otto mesi di rivolte e repressione, dal conflitto interno siriano emergono aspetti che rinviano alla lotta di influenza tra Arabia Saudita e Iran. Finora questa guerra mascherata prediligeva come scenario il Libano. Soprattutto dopo l’assassinio del primo ministro Rafic Hariri, protetto di Riyad e in possesso di passaporto saudita, il 14 febbraio 2005.
In passato la principale potenza del mondo sunnita, alleata di primo piano degli Usa in Medio oriente, si era comunque mostrata conciliante con Damasco riconoscendone il ruolo di punta nel “fronte del rifiuto”. Ma il timore di una ulteriore espansione dell’influenza iraniana alle porte di casa (vedi le ribellioni sciite in Arabia Saudita, Yemen e Barheim) ha spinto Riyad a opporsi con fermezza a Damasco, il principale alleato di Teheran.
Similare per certi aspetti la posizione del Qatar, il piccolo principato del Golfo in profonda relazione con l’Arabia saudita. A lungo sostenitore di posizioni di mediazione tra i paesi dell’area, il Qatar si è convertito in uno dei principali avversari del regime siriano. Hamad ben Jassem Al-Thani, primo ministro e ministro degli Esteri presiede il Comitato della Lega araba. Da lui (notoriamente molto filo-statunitense) è partita la proposta della sospensione della Siria.
Nel contenzioso con Damasco va acquistando un ruolo sempre più preciso la Turchia. All’antica questione del sangiaccato di Alessandretta, territorio turco rivendicato dalla Siria, nel 1998 si era sovrapposta la questione curda. Sotto la pressione di ricatti e minacce da parte di Ankara, la Siria aveva dovuto allontanare dal proprio territorio il leader del PKK Abdullah Ocalan. Dieci anni dopo si era assistito a una spettacolare pubblica riconciliazione tra Recep Tayyip Erdogan e Bachar Al-Assad, ma la luna di miele è durata poco. Le rivolte scoppiate in Siria, con il conseguente aumento di profughi che cercano rifugio in Turchia, hanno spinto il governo turco ad appoggiare apertamente alcune componenti dell’opposizione siriana in esilio, in particolare i Fratelli musulmani. Oltre alle sanzioni economiche, Ankara auspica la costituzione di una “zona tampone” nel nord della Siria abitato in prevalenza da curdi. La Turchia vede infatti con preoccupazione il nuovo attivismo della guerriglia che sembra riavere il sostegno di Damasco. Sia il PYD, gruppo armato curdo presente nel nord della Siria (l’equivalente del PKK operante in Turchia) sia lo stesso PKK, ben più temibile per Ankara.
In Siria i curdi costituiscono il 10% della popolazione e sono concentrati soprattutto nella regione di Jezireh. Consapevole di non poter combattere contemporaneamente su troppi fronti, Bachar Al-Assad è corso ai ripari, restituendo la nazionalità siriana a quei 60mila curdi che ne erano stati privati nel corso degli anni sessanta, come ritorsione per le loro richieste autonomiste. Inoltre, in cambio della garanzia di mantenere l’ordine nella regione, il PYD, ufficialmente illegale, ha avuto la possibilità di realizzare una embrionale forma di autonomia. Anche i maggiori esponenti curdi iracheni, sia Massud Barzani che Jalal Talabani, attuale presidente dell’Iraq, in passato avevano sostanzialmente appoggiato Assad. Ma ora le loro posizioni potrebbero cambiare a favore degli insorti. Da parte dell’Iran, con cui la Siria ha stretto nel 2008 un accordo di difesa comune, pieno sostegno a Damasco, sia attraverso le pressioni esercitate sul primo ministro iracheno, sciita, Nouri Al-Maliki, sia direttamente con l’invio di pasdaran (guardiani della rivoluzione) in Siria.

70) Intervista con Adel Jabbar (2012)

Sociologo, saggista, esperto di comunicazione interculturale, Adel Jabbar vive in Italia da diversi anni. In quanto dissidente, ha dovuto lasciare l’Iraq all’epoca di Saddam.

Dal novembre del 2010 si è scatenata una serie di rivolte a cui si è voluto dare il nome di “primavera araba”. È possibile, a un anno e mezzo di distanza, tracciarne un bilancio?
Una precisazione. Più che “primavera araba” quella iniziata nel novembre 2010 andrebbero considerate una “semina” per una eventuale primavera. Comunque un avvenimento fondamentale per il futuro della società araba. Questo è avvenuto dopo mezzo secolo di stagnazione (dal punto di vista etico, sociale, culturale, politico ed economico) che ha caratterizzato tutti i paesi arabi, dal Marocco allo Yemen. Per quasi 50 anni il mondo arabo è rimasto ai margini della Storia. All’interno di questo periodo di stagnazione, senza dibattito sui temi essenziali, ha prevalso un senso di paura. Anche chi restava alla larga dalla politica viveva nella paura nei confronti di tutto ciò che aveva a che fare con governi, istituzioni, Stato (tanto quanto chi si trovava politicamente coinvolto).
In una collettività che vive in termini di paura le persone sono come paralizzate. Non mi spingo ad affermare che gli eventi iniziati il 17 novembre 2010 hanno messo la parola fine a questa fase paralizzante, ma sicuramente hanno dato una scossa.

Quanto hanno pesato inizialmente in queste sollevazioni le religioni e le ideologie? Le componenti sunnite sembrano acquisire un ruolo preponderante…
In Tunisia e in Egitto la gente si è mossa senza particolari riferimenti religiosi o ideologici. Giustamente si è parlato della “spontaneità” di queste rivolte non ideologiche, smarcate da riferimenti a religioni o “socialismi” vari. Si è trattato di una sollevazione di tipo fisiologico, fisico, caratteristica di società con molti giovani (il 60% ha meno di 30 anni), pieni di energia, di potenzialità. Giovani in gran parte istruiti, con aspettative simili ai coetanei della sponda nord del Mediterraneo. Sollevazione fisiologica (in una società stagnante sia a livello economico sia politico) che ha messo in evidenza bisogni a cui finora si era risposto in maniera repressiva.
Non mancavano i precedenti. Pensiamo agli scioperi del 2003, poco dopo la caduta di Bagdad. La caduta della capitale irachena, con tutto il suo carico di umiliazione, rimane un evento importante nell’immaginario della popolazione araba. Aveva visto e riconosciuto come in uno specchio la propria impotenza, la propria marginalità, sia rispetto all’Occidente che ai vari regimi. Regimi che erano il prolungamento dei poteri forti occidentali, vassalli telecomandati, “usa e getta”, in base alle dinamiche della geopolitica. Potremmo definirle rivolte contro la propria impotenza per rivendicare non un’ideologia salvifica, ma un ruolo attivo nella Storia.

E per il futuro?
Per il futuro è tutto da vedere. In Egitto e Tunisia siamo in un’area nel complesso omogenea, legata da una storia e sentimenti comuni. Soprattutto in Tunisia dove esiste un forte senso di appartenenza linguistica e culturale, l’omogeneità di fondo ha permesso una mobilitazione diffusa, trasversale. Sia territoriale che di genere, di ceto, di religione e di appartenenza politica.
Vedendo questi giovani manifestare, fare quello che fino a quel momento si riteneva impossibile, i loro coetanei degli altri paesi arabi sono stati “contagiati”, si sono riconosciuti e sono scesi in piazza. Soprattutto perché stava accadendo in paesi dove i governanti si sentivano in una botte di ferro, sia per l’esteso controllo poliziesco sia per gli appoggi esterni. Ma forse quello che è venuto dopo ha perso la naturalezza originaria. In altre realtà, quando si è messo in moto un movimento simile, gli esponenti politici, locali e internazionali, hanno preso provvedimenti e sono intervenuti utilizzando sia il confessionalismo sia l’intelligence. In Barhein, Marocco, Yemen e Siria (dove, a causa delle divisioni tribali e religiose, manca una coesione paragonabile a quella di Egitto e Tunisia) i movimenti hanno perso spontaneità, lo smarcamento dai riferimenti religiosi e politici è stato ridimensionato e la geopolitica ha ripreso il sopravvento. I principali attori dell’area, Iran, Turchia e Arabia saudita, cercano di indirizzare gli eventi in base ai loro interessi e ormai la rivendicazione originaria (vedersi riconosciuto un ruolo attivo nella società) viene strumentalizzata. Ogni Stato ha la sua agenda anche a scapito delle rivendicazioni popolari. In Barhein la richiesta di una maggiore democrazia è diventata una questione confessionale, mentre nello Yemen stanno cercando di tamponare, di prendere tempo. Pensiamo a quanto sia importante la stabilità yemenita per l’Arabia saudita…

Cosa può dirci su quanto è accaduto in Libia?
Quello della Libia è stato un cambiamento molto orchestrato, una sintesi tra ribellione tribale e colpo di stato. Oggi possiamo vederne le conseguenze. Oltre alla proclamazione unilaterale di uno “Stato federale” da parte dei leader di alcune tribù di Bengazi, va ricordato che nel sud del paese continua la guerra tra fazioni tribali. Si tratta di realtà molto ampie e territorialmente estese, con legami parentali in Ciad e Sudan. Anche Misurata è controllata da una milizia, e una città vicina, Tauerga, in passato legata a Gheddafi, è stata completamente sgomberata. Tripoli è a sua volta divisa tra fazioni tribali, di cui una controlla l’aeroporto, un’altra un ministero, e così via.
In Libia c’è stata convergenza di interessi tra alcuni golpisti, alcuni centri finanziari (come il Qatar) e alcuni leader tribali. Possiamo definirlo un golpe in quanto molti esponenti del passato regime hanno abbandonato Gheddafi per integrarsi nel CNT. Quando se ne andava un ministro o un ufficiale dell’esercito, anche la sua tribù lo seguiva. Sicuramente il colonnello era un despota, ma è anche vero che la natura, gli obiettivi della ribellione andrebbero analizzati con uno sguardo diverso rispetto a quanto è avvenuto in Tunisia e Egitto. In Libia l’appartenenza alla tribù è prevalente, praticamente non esistono partiti e movimenti nazionali. Ovviamente Gheddafi dava fastidio, in particolare all’Arabia saudita, per il ruolo che intendeva esercitare in Africa. Bisognerebbe poi chiedersi quale sia l’autorità morale dell’Arabia saudita nel rivendicare la democrazia. Comunque, mentre in Siria tra gli oppositori di Assad ci sono vari orientamenti, su Gheddafi tutti erano sostanzialmente d’accordo: i nazionalisti, la sinistra, i liberali…

Quindi per la Siria non prevede uno scenario di tipo libico con intervento militare esterno?
Come ho detto, l’opposizione interna siriana è divisa. Ora, dopo 40 anni, si è svegliata anche l’opposizione esterna che sostanzialmente aspira al potere, da conquistare anche con le guerra. Invece chi subisce la repressione dentro i confini del paese ragiona diversamente.
L’uso delle armi fa il gioco di Assad mentre la disobbedienza civile crea parecchi problemi al regime. Diciamo che la violenza fornisce un alibi al regime. In passato l’immagine del mondo arabo veniva schiacciata su Bin Laden e Al Qaeda. Le sollevazioni hanno avuto anche il merito di superare questa falsa rappresentazione. Non si tratta di un fatto completamente nuovo. Agli inizi del ‘900 nei paesi arabi si sono sviluppati movimenti di massa non-violenti con un profondo coinvolgimento della società civile. Lo stesso movimento anticoloniale, con l’eccezione dell’Algeria, si è basato più sulla disobbedienza civile che sulla lotta armata. I movimenti attuali derivano da questa tradizione.
Già agli inizi del ’900 alcuni pensatori e religiosi siriani (come Al Kawakibi poi costretto all’esilio) avevano individuato i “tre ingredienti” del dispotismo. Una massa ignorante, un ceto religioso corrotto, una élite di opportunisti. Ma anche un regime ha bisogno di una certa dose di consenso e oggi in Siria questo si va riducendo, il cerchio si stringe. I movimenti hanno dimostrato che si può vincere sulla paura e che il cittadino normale può contare. Inoltre lo spazio pubblico è tornato a essere luogo di scambio, di incontro. Ancora l’anno scorso era monopolio degli apparati dello Stato.

E per quanto riguarda il suo paese, in quale situazione versa l’Iraq? C’è stata anche una “primavera” irachena?
Intanto vorrei ricordare che Bagdad, la mia città natale, vive una situazione disastrosa. Così come gran parte dell’Iraq. Un paese ricco, ma con un alto numero di poveri, di affamati, con una media di 50 vittime al giorno per attentati o scontri armati e dove molte donne rischiano la morte per parto. Inoltre, a causa delle armi utilizzate, è diventato uno dei paesi più inquinati del mondo con un alto numero di nascite deformi. Ma l’Iraq è anche uno dei più corrotti, governato da vere e proprie bande. Emblematico il recente caso del vicepresidente accusato di “terrorismo”. Sembra proprio di vedere una banda di criminali che si sfalda, si spacca, dopo una rapina, per il bottino.
Hanno approfittato della fine del regime per impadronirsi del paese. Ognuno cerca ora di avere più vantaggi. Lo Stato non esiste, la società è frantumata e manca un programma politico per ricostruire la nazione. L’esercizio della violenza, della repressione non accenna ad arrestarsi. Tra le vittime anche molti giornalisti.
In sintonia con quelle degli altri paesi arabi, anche qui c’era stata una sollevazione popolare. Era dagli anni sessanta che non assistevo a manifestazioni di queste dimensioni nel mio paese. Sono state represse duramente, distrutte. Molti attivisti sono stati uccisi a casa loro, con il silenziatore, nello stile delle squadre della morte. I desaparecidos si contano a migliaia, ma solo le madri organizzano manifestazioni di protesta. Io penso che non si dovrebbe intervenire così in un paese, demolirlo e poi lasciarlo in queste condizioni.

Ritiene che le ragioni dell’intervento occidentale siano state soprattutto economiche?
Non credo si sia trattato solo di interessi economici. Si interviene militarmente anche per ragioni di prestigio, simboliche. Sicuramente Saddam e Gheddafi erano dei dittatori. Dittatori che nella loro megalomania avevano comunque un disegno politico e pestavano i piedi a qualcuno più grosso di loro. Diciamo che ci sono dittatori che eseguono, subalterni e controllabili, mentre altri non sono controllabili, collaborano solo in base ai loro interessi.

Saddam è stato condannato a morte, tra l’altro, per aver massacrato curdi e sciiti. Sono state queste due comunità a subire maggiormente la dittatura di Saddam?
Personalmente non mi trovo d’accordo con questa “confessionalizzazione del crimine” che mi sembra funzionale alla divisione del paese. Serve a legittimare le rivendicazioni di potere da parte di chi non ha progetti né politici né sociali. Saddam ammazzava tutti, non solo curdi e sciiti. Assumere soltanto il ruolo di vittima non è corretto, significa non voler fare i conti con la propria storia. Vien da chiedersi come avrebbe fatto Saddam a governare con il 70% della popolazione (curdi e sciiti) contro di lui.

71) Il conflitto tra sunniti e sciiti (leggi: tra Arabia Saudita e Iran) (gennaio 2012)

Venti di guerra nel Golfo Arabo-Persico. Alle dichiarazioni del capo della marina iraniana, Habibollah Sayyari, sulla chiusura dello stretto di Ormuz (“chiudere lo stretto è più facile che bere un bicchier d’acqua”) gli Stati uniti hanno reagito mettendo in guardia Teheran. Lo stretto di Ormuz rappresenta l’estremità sud di un’invisibile linea del fronte nella contrapposizione tra l’Iran sciita e un blocco arabo-sunnita, guidato dall’Arabia saudita e sostenuto dall’Occidente. Con un ruolo particolare per gli Stati Uniti, presenti nell’area con la Quinta Flotta (all’àncora nel Bahrein) e una decina di basi militari. Nel 1988, all’epoca della guerra tra Iran e Iraq, un airbus iraniano con 290 civili a bordo venne abbattuto da un missile americano. Nel 2011 tra Washington e Riyad è stato stipulato un contratto per la vendita di 84 aerei F-15.
Il 2 gennaio 2012, a conclusione delle manovre navali iniziate il 28 dicembre, l’ennesimo test missilistico da parte di Teheran. I missili Nasr, Nour e Ghader, con una portata da 35 a 200 km, “sono trasportabili, precisi e con una capacità di distruzione molto elevata”, ha ricordato Habibollah Sayyari. Alla richiesta di nuove sanzioni (embargo petrolifero) da parte di Usa e Ue, Teheran ha risposto dichiarando di voler proseguire nel programma di arricchimento dell’uranio al 20%.
Un contesto difficile e reso più incandescente dai ricorrenti attacchi settari contro i quartieri sciiti di Bagdad (Kadhimiah, Medinet Sadr…) e di altre città irachene. Alcuni osservatori parlano di un possibile collegamento tra questi episodi e gli attentati suicidi che periodicamente colpiscono gli sciiti afgani. Più difficile stabilire se esista una relazione con gli avvenimenti di Damasco. Le recenti stragi in Siria, governata dalla minoranza alawita di derivazione sciita, potrebbero essere sia opera di Al Qaeda (come sostiene il governo) che “stragi di stato” organizzate dal regime stesso. È comunque evidente che si è aperta una nuova fase nella lotta di influenza tra l’Iran sciita e l’Arabia saudita sunnita. La storica rivalità tra le principali correnti dell’Islam si era riaccesa con il rovesciamento di Saddam e l’arrivo al potere della maggioranza sciita in Iraq. Da quel momento il timore di un “arco sciita” (da Teheran al Mediterraneo, passando per Bagdad, Damasco e gli Hezbollah libanesi) è diventato concreto.
Sospesa dagli accordi di Doha del 2008, la “guerra fredda” tra Teheran e Riyad si è risvegliata nel 2010-2011 con le rivolte delle “primavere arabe”. Rivolte a geometria variabile, verso cui sono stati usati due pesi e due misure. Il Consiglio di cooperazione del Golfo che riunisce le petrol-monarchie è intervenuto con brutalità nel Bahrein contro la sollevazione sciita. Al contrario, la Lega araba ha preteso dure sanzioni nei confronti del regime siriano responsabile di una sanguinosa repressione. L’Arabia saudita e la Turchia appoggiano apertamente i ribelli siriani, in maggioranza sunniti, mentre nello Yemen la ribellione zaydita (corrente sciita nel nord del paese) è stata repressa con il sostegno di Riyad. Stroncata sul nascere anche ogni contestazione delle minoranze sciite nella zona orientale dell’Arabia saudita.
Contemporaneamente il Qatar è intervenuto militarmente in Libia a fianco dei rivoltosi, appoggia gli islamisti di Ennahda in Tunisia e consente ai talebani di aprire un loro ufficio-esteri (in pratica un’ambasciata) a Doha. Oltre a Hezbollah, si mostra solidale con Damasco anche l’altra formazione sciita libanese, Amal (e anche alcune frazioni cristiano-maronite), mentre sembra intenzionata a rientrare nei ranghi Hamas, organizzazione dei sunniti palestinesi in passato alleata di Hezbollah (e indirettamente di Damasco) ora sotto l’ombrello protettivo della Turchia. A breve Hamas potrebbe chiudere la sua rappresentanza a Damasco per aprire una sede in Egitto. L’Iran da parte sua non lesina gli sforzi per garantire la sopravvivenza del regime siriano esercitando pressioni sul governo iracheno del primo ministro sciita Nouri Al-Maliki.
Con la ripresa di attentati settari contro gli sciiti si cerca di alimentare le tensioni tra le organizzazioni pro-Assad (sciite) e anti-Assad (sunnite). O forse sono soltanto l’esplicito invito agli sciiti di tutto il Medio oriente a non “immischiarsi” quando in Siria si dovesse scatenare apertamente la guerra civile o l’Iran venisse bombardato. Tra le popolazioni di religione sciita più colpite, gli hazara della regione pachistana del Belucistan (circa 600mila) periodicamente vittime di uccisioni e massacri. Si calcola che dal 2001 al 2011 più di 600 abbiano perso la vita in attacchi settari. Nel solo gennaio 2012, altri 30. La maggior parte degli attentati sono stati rivendicati dai fondamentalisti sunniti di Lashlar-e-Jhangvi (LeJ) e Lashkar-e-Jhangvi Al-Alami, braccio armato del Sipah Sahaba Pakistan (SSP) e presumibilmente manipolati dai servizi segreti pachistani. Dopo essere stati dichiarati illegali si sono ricostituiti come Millat Islamia Pakistan e Ahl-e-Sunnat Wal Jamat.
Finora la minoranza degli hazara ha risposto politicamente, con proteste e scioperi. Aveva suscitato scalpore la grande manifestazione del 21 settembre 2011 contro l’attentato a un autobus di pellegrini sciiti. Pochi giorni dopo, il 4 ottobre, nell’attacco a un altro autobus venivano uccisi alcuni operai hazara. Con le stesse modalità, il 29 marzo 2012 hanno perso la vita otto hazara e il 9 aprile altri sei sono stati uccisi in una bottega. E lo stillicidio di uccisioni settarie nelle strade di Quetta non sembra doversi fermare. Nella città vivono sia pasthun che beluci e aimak, ma le vittime sono quasi sempre hazara. Recentemente i fondamentalisti sunniti sono tornati a colpire anche gli hazara dell’Afghanistan, accusandoli di essere “infedeli”. L’attentato (opera di miliziani provenienti dal Pakistan) è stato poi rivendicato da Lashkar-e-Jhangvi Al-Alami, mentre i talebani afgani si dichiaravano estranei.
Nel 2003 nasceva il Partito democratico hazara. L’attuale presidente Abdul Khaliq Hazara è subentrato al suo predecessore, Hussein Ali Youssafì, assassinato nel 2010. Recatosi a Islamabad per denunciare la situazione del suo popolo, gli è stato chiesto di sospendere le manifestazioni di protesta.
Finora la comunità internazionale (Usa e Unione europea in particolare) non ha mostrato particolare interesse per le vicende di questa minoranza, così come non sembra preoccuparsi più di tanto della “primavera” sciita nel Barhein, repressa con l’aiuto di Arabia saudita e Qatar. In quanto sciiti, gli hazara vengono considerati potenziali alleati di Teheran.
E l’Iran? “Non ci aiuta, cerca piuttosto di infiltrarci e controllarci tramite la religione”, ha dichiarato Khaliq Hazara in conferenza stampa. Grazie ai finanziamenti di Teheran, gruppi filoiraniani come Tehrik-e-Nifaz-e-Fiqa-e-Jafria “hanno aperto a Quetta dozzine di scuole coraniche, ma noi siamo laici e lottiamo per la giustizia sociale, la democrazia, il rispetto della vita umana e la tolleranza”. Khalid Hazara ha poi ricordato “i due milioni di hazara rifugiati dall’Afghanistan che vivono in Iran trattati come cittadini di serie C”, ostaggi del conflitto di influenza tra l’Iran sciita e l’Arabia saudita sunnita.
Per alcuni osservatori le nuove stragi settarie in Iraq confermano la tesi che soltanto la presenza statunitense garantiva la convivenza interconfessionale nel paese. Un segnale diametralmente opposto era invece arrivato da Falluja. La partenza delle truppe Usa a metà dicembre 2011 aveva fornito l’occasione per un riavvicinamento tra le due principali correnti islamiche. In migliaia, provenienti dall’intero Iraq, sunniti e sciiti si erano ritrovati a festeggiare e pregare insieme nelle strade e nelle piazze dove nel 2004 i soldati statunitensi erano entrati (con gli altoparlanti che inondavano i quartieri popolari di musica rock ad altissimo volume) convinti di spazzare via ogni resistenza. Avevano invece dovuto fare i conti con la combattività dei guerriglieri sunniti a cui ben presto si erano uniti gli sciiti dell’esercito del Mahadi di Muqtada al-Sadr. Alla fine gli americani avevano vinto soltanto grazie all’uso di fosforo bianco (familiarmente chiamato “Willy Pete”) e di MK77, un nuovo tipo di napalm. Armi vietate dalle convenzioni internazionali. 140 i morti statunitensi, migliaia quelli iracheni. Attualmente tra i cittadini della Gernika irachena la percentuale di tumori e leucemie risulta superiore a quella registrata a Hiroshima nel dopoguerra.
Altro possibile conflitto, per ora latente, quello interno al mondo sunnita tra Fratelli musulmani e salafiti. I primi sostenuti da Qatar e Turchia, gli altri dall’Arabia saudita.

72) Il curdo? Seconda lingua facoltativa (giugno 2012)

Verso la metà di giugno 2012 ha suscitato un certo scalpore l’appello di Leyla Zana per una trattativa con il governo turco e il suo invito al PKK a deporre le armi.
Risposta positiva del premier Erdogan, ma forti perplessità (con tutto il rispetto per Leyla Zana e i suoi oltre dieci anni di carcere) dal partito della deputata curda, il Partito per la Pace e la Democrazia (BDP). Per il dirigente Selahattui Demirtos, “Zana rischia di trovarsi sola in mezzo a dei lupi affamati”.
All’inizio di giugno Erdogan si era incontrato con il capo dell’opposizione, Kemal Kilicdaroglu, del Partito del Popolo Repubblicano (CHP, gli eredi di Ataturk), per definire una comune strategia anti-PKK. Due giorni dopo l’annuncio che nelle scuole sarà possibile scegliere il curdo come seconda lingua per 6 ore settimanali. Nota bene: si parla soltanto di insegnamento (facoltativo) del curdo, non in curdo. Non si può escludere che si tratti di un diversivo per sparigliare le carte e disinnescare la mobilitazione curda. Ben accolta dalla maggioranza dei deputati del Parlamento turco, l’apertura di Erdogan ha lasciato perplessi (ovviamente per opposte ragioni) sia i curdi del BDP che la destra nazionalista turca del Partito del movimento nazionalista (MHP). Per il loro leader Devlet Bahceli “la questione curda semplicemente non esiste”. Gulten Kijanak, co-presidente del BDP sostiene che “non c’è nulla di così dispotico come insegnare una lingua madre come corso a scelta. Come dire: prima vi assimiliamo come turchi e poi imparate la vostra lingua madre”.
Tra gli episodi recenti che stanno a indicare una recrudescenza della guerriglia curda, l’attacco del PKK contro una postazione militare a Yesiltas. Una decina di morti tra i soldati e altrettanti tra i guerriglieri. Non si può escludere che, in parte, questi episodi costituiscano una sorta di guerra per procura tra Siria e Turchia. Potrebbe rientrarvi anche la strage di Ukudere di fine dicembre 2011. In questa occasione l’esercito turco massacrò 34 civili curdi, probabilmente giovani contrabbandieri, sostenendo di averli scambiati per guerriglieri. Pochi giorni prima Damasco aveva riconsegnato documenti di cittadinanza e agibilità politica alle formazioni curde presenti in Siria, in prossimità della frontiera turca e ideologicamente affini al PKK. Ukudere potrebbe essere stata una sorta di “rappresaglia preventiva” sui civili per inibire sul nascere il protagonismo delle milizie curde.
E intanto migliaia di studenti e militanti, decine di giornalisti, sindaci, avvocati e deputati del BDP (in maggioranza curdi) restano rinchiusi nelle galere turche.

73) I curdi in un Iraq diviso (agosto 2012)

Verso la fine del 2011, poco prima del ritiro statunitense, i dirigenti della provincia autonoma curda firmavano un contratto con la compagnia petrolifera Exxon mandando su tutte le furie il governo di Bagdad. Non solo perché veniva scavalcato il ministero iracheno del petrolio, ma per le condizioni di pagamento giudicate troppo favorevoli per la major statunitense. Come se non bastasse, tre dei sei blocchi attribuiti a Exxon si trovano a Kirkuk e nella piana di Mosul, in quelle “zone contestate” che solo dopo il previsto referendum (finora rinviato) potranno essere attribuite alla provincia curda o a quelle arabe. Ignorando le minacce di Bagdad, quest’anno la Exxon ha già cominciato a estrarre idrocarburi.
A preoccupare il governo, guidato dal primo ministro sciita Nouri Al-Maliki, sia l’evidente perdita di sovranità nazionale sia l’eventuale “contagio”. La stessa politica di sfruttamento “autonomo” delle risorse potrebbe venir adottata dalle provincie sunnite e perfino da quella sciita di Bassorah. Per i curdi, stando alle dichiarazioni provenienti dall’entourage del leader del Partito democratico del Kurdistan, Massud Barzani (schierato con gli Usa e con la Turchia), “la presenza di Exxon equivale a quella di due divisioni americane. Un’assicurazione per il futuro”. Un futuro che non esclude l’ipotesi dell’indipendenza, anche se sotto tutela statunitense.
Altri segnali di indisciplina da parte di Erbil (capoluogo della provincia autonoma) nei confronti di Bagdad sono arrivati negli ultimi mesi.
Nel corso di una visita negli Stati Uniti, Barzani avrebbe cercato, invano, di impedire la vendita da parte di Washington di caccia F16 a quello che in teoria rimane il suo paese, l’Iraq. Il 27 luglio 2012 i peshmerga curdi (ieri miliziani in costume tradizionale, oggi soldati in mimetica) hanno impedito all’esercito iracheno di accedere ai posti di frontiera con la Siria.
Il 29 luglio, citando una fonte ufficiale irachena, l’AFP riferiva di “acquisti clandestini da parte delle autorità curde di missili terra-aria e di armi anticarro con l’aiuto di un paese straniero”. Inevitabile pensare alla Turchia, principale socio in affari del Kurdistan iracheno. Tra il governo di Bagdad e quello curdo di Souleimanieh le ragioni di contrasto sembrano destinate ad aumentare. Oltre allo sfruttamento degli idrocarburi e alla delimitazione dei confini, Barzani e Al-Maliki si trovano schierati su fronti opposti anche sulla guerra civile in Siria. Con gli insorti il leader curdo, dalla parte del governo di Bachar Al-Assad il primo ministro iracheno. Barzani si sta poi presentando come garante e difensore delle minoranze irachene di fronte alla “egemonia sciita”. Dopo aver preso le difese dei cristiani, è ora la volta dei sunniti. In questa logica si spiega l’ospitalità (l’asilo politico) offerto al vice-presidente Tarek Al-Hachemi, sunnita e accusato di aver guidato uno squadrone della morte anti-sciita tra il 2005 e il 2008.
Dietro le quinte del riavvicinamento curdo-sunnita in Iraq, ritroviamo ancora la Turchia. Mentre sponsorizza la corrente locale dei Fratelli musulmani, Ankara spinge per una coalizione in grado di rovesciare Al-Maliki. Godrebbe invece dei favori di Teheran la nuova formazione curda, Goran (“cambiamento”), formata da fuoriusciti dell’Unione patriottica del Kurdistan (PUK) di Jalal Talabani, presidente dell’Irak. Di questo clima di tensione etnico-religiosa sta approfittando la branca irachena di Al-Qaeda che il 23 luglio 2012 con una serie di attentati ha provocato la morte di oltre cento persone. Complessivamente, in base ai dati forniti dai ministeri della Salute, dell’Interno e della Difesa, nel mese di luglio sono morte circa 350 persone a causa di attentati e scontri settari (di cui 250 civili).
E intanto, dopo aver firmato un contratto anche con la Chevron, i dirigenti curdi hanno cominciato a esportare il greggio direttamente in Turchia.

74) “… per amici soltanto i monti…” (ottobre 2012)

Mentre la situazione alla frontiera tra Siria e Turchia diventa ogni giorno più incandescente, i curdi riprendono a combattere. E potrebbe non essere un caso che proprio ora Erdogan abbia fatto concessioni sull’insegnamento della lingua curda.
La rinnovata attenzione di Turchia e Siria per i curdi non è certo disinteressata. Da parte di Ankara, il tentativo è quello di tenerseli buoni in attesa di aver saldato i conti con Assad; nelle intenzioni di Damasco, usarli come minaccia, come elemento di instabilità per la Turchia.
Triste destino quello dei popoli minorizzati! Sopravvivere, resistere comunque, anche rischiando di essere usati come pedine.
In passato era toccato anche ai curdi dell’Iraq. Negli anni settanta il leader Mustafà Barzani si era alleato addirittura con lo scià di Persia pensando in questo modo di godere della protezione degli Stati Uniti. Duramente sconfitti dal regime iracheno, abbandonati dagli alleati, migliaia di curdi morirono congelati sui valichi di frontiera tentando di raggiungere l’Iran.
Nel decennio successivo Saddam fece distruggere decine di città e più di 4mila villaggi curdi deportando gli abitanti in campi di concentramento. Nel 1988, bombardamenti chimici sulla città di Halabja e su molti villaggi.
Quanto ai curdi della Turchia, nel 1979 (dopo l’emanazione della legge marziale in tutta la parte sud-orientale del Paese, cioè nel Kurdistan Nord) Abdullah Ocalan si spostò con la sua organizzazione, PKK, in Libano nella Valle della Beka’a sotto controllo siriano. La situazione in Turchia continuò a peggiorare con il colpo di stato del 12 settembre 1980. Per i curdi circa 150 condanne a morte, di cui 122 immediatamente eseguite. Ai ripetuti proclami di cessate-il-fuoco per una soluzione pacifica, in una prospettiva autonomista e federalista, il regime turco rispose regolarmente con la violenza dell’esercito e con la violazione dei diritti umani (torture, esecuzioni extragiudiziali…). Dal 1993 Ankara cominciò a concentrare migliaia di soldati al confine con la Siria, una forma di pressione su Damasco per ottenere l’espulsione di Ocalan e dei guerriglieri curdi, arrivando a interrompere il flusso verso la Siria delle acque provenienti dalla diga di Ataturk. Nell’ottobre 1998, dopo un accordo con cui Damasco si impegnava a cessare ogni sostegno al PKK, il leader curdo prese la via di Mosca iniziando una serie di peregrinazioni che si concluderanno nel carcere-fortezza di Imrali. Grazie all’ingerenza statunitense e al tradimento del premier italiano dell’epoca, Massimo D’Alema.
Niente di strano se la storia dovesse ripetersi, con i curdi variabile indipendente, non completamente normalizzata, dell’area mediorientale. Come recita un antico proverbio, “per amici i Curdi hanno soltanto le montagne”.

Una primavera anche per i curdi?

Appare comunque evidente che la crisi siriana e le “primavere arabe” hanno contribuito a rimescolare le carte. E per i curdi, forse, si va delineando una possibilità di rientrare in gioco non come pedine, ma come protagonisti sulla scacchiera mediorientale.
Il Kurdistan, una nazione senza stato, è attualmente diviso tra Turchia, Iraq, Iran e Siria.
Un popolo di oltre 40 milioni di persone (contando anche quelli che vivono in Armenia, in Libano e nella diaspora) di cui si dovrà tener conto nel futuro Medio oriente.

I curdi in Turchia

In Turchia i Curdi sono tra i 15 e i 20 milioni, oltre il 20% della popolazione. Vivono prevalentemente nell’est e nel sud-est del paese, in Anatolia (Kurdistan Nord), non riconosciuti come minoranza da Ankara e privi di ogni forma di autonomia. Parlano il kurmandji, principale insieme linguistico curdo che viene scritto in alfabeto latino. Il Partito per la pace e la democrazia (BDP), accusato di essere la vetrina politica del PKK, dispone di 35 deputati e governa la maggioranza dei municipi nelle zone curde. Nel giugno 2012 Recep Tayyip Erdogan, primo ministro e leader del partito Giustizia e Sviluppo (AKP), in accordo con l’opposizione kemalista (Il Partito del Popolo repubblicano, CHP, di Kemal Lilicdaroglu) ma non con il BDP, ha proposto la possibilità dell’insegnamento del curdo. Volontario, per sei ore settimanali e soltanto dopo la quarta. Esclusa la possibilità dell’insegnamento in curdo.
Il 17 settembre 2012 Erdogan ha annunciato l’uccisione da parte dell’esercito di circa “500 ribelli del PKK in un mese”. I militanti del Partito dei lavoratori del Kurdistan (ma non si può escludere la presenza di civili) sono stati uccisi nel sud-est dello Stato turco, una regione abitata prevalentemente da curdi. In questa zona i combattimenti si erano intensificati durante l’estate, probabilmente come effetto collaterale della crisi siriana. La dichiarazione di Erdogan è arrivata nel giorno successivo alla morte di otto soldati turchi a Karliova, nella provincia di Bingol, per un’esplosione attribuita alla guerriglia. All’intensificarsi delle azioni armate del PKK in tutto il sud-est della Turchia, Ankara ha risposto con un massiccio dispiegamento di truppe. Negli ultimi mesi del 2012 si sono intensificati gli arresti di giornalisti, avvocati, studenti e sindaci curdi. In carcere a migliaia nel quadro dell’inchiesta sull’Unione delle comunità del Kurdistan (KCK), organismi civili accusati di sostenere il PKK. Quanto al leader del PKK, Abdullah Ocalan, come è noto dal febbraio 1999 è rinchiuso nel carcere-fortezza sull’isola di Imrali, al largo di Istanbul.

L’incognita curda in Siria

In Siria vivono attualmente due milioni di Curdi (9% della popolazione) nel nord-est del paese (Djèzireh) e nelle città di Aleppo e Damasco. In maggioranza sunniti, parlano il kurmandji. Nel 1962 più di 300mila curdi erano stati privati della cittadinanza siriana. È stata loro restituita solo recentemente insieme ad altre “aperture” come la possibilità per il Partito dell’unione democratica (PYD, la principale forza politica curda in Siria, emanazione del PKK) di riaprire sedi, scuole in lingua curda e il ritorno dall’esilio del leader politico Salih Muslim. È possibile che dalla Siria siano partiti alcuni dei gruppi armati responsabili nel 2012 di attacchi in Turchia (come quello di Daglica del 20 giugno 2012: ufficialmente, 8 vittime tra i soldati e 18 tra i ribelli). Allentando il controllo sulla guerriglia curda e minacciando di fornire nuovamente “santuari” al PKK (come prima dell’allontanamento di Ocalan nel 1999), Damasco cerca di tenere a distanza la Turchia che da parte sua sostiene l’Esercito Libero Siriano. Una opportunità per il PKK, attualmente in difficoltà nei suoi campi sui monti Kandil (nord dell’Iraq) sottoposti a bombardamenti da parte degli aerei turchi.
Alcune formazioni curde minori avevano preso parte alle prime riunioni del Consiglio Nazionale Siriano (CNS, all’opposizione) fondato in Turchia alla fine del 2011 sotto il controllo dei Fratelli musulmani. Successivamente, preoccupate per i possibili sviluppi dell’insurrezione e per la situazione delle minoranze, si sono ritirate per costituire un Consiglio nazionale curdo (CNK).
Significativo che il CNS avesse nominato (il 10 giugno 2012) come proprio presidente un curdo, il dissidente Abdelbasset Sayda. Un tentativo per rassicurarli e integrarli nella lotta contro Assad.
Appena nominato, Abdelbasset Sied aveva invocato il capitolo VII della carta dell’Onu per un intervento armato a protezione dei civili.
Invece il 3 luglio 2012, alla Conferenza del Cairo, un leader curdo-siriano ha accusato pubblicamente il CNS di “voler instaurare un regime islamico”.

La “regione autonoma” curda in Iraq

Dei circa 5 milioni di Curdi presenti in Iraq (22% della popolazione, in maggioranza sunniti), un milione vive a Bagdad, il resto nel nord del paese (province di Duhok, Erbil e Suleimaniyè considerate “regione autonoma” e province “miste” di Kirkuk, Mossul e Diyala, sotto il governo centrale). Parlano il sorani, un dialetto curdo che si scrive in alfabeto arabo. Le due principali formazioni curde presenti all’interno dei confini iracheni sono il Partito Democratico del Kurdistan (PDK) e l’Unione Patriottica del Kurdistan (PUK) il cui leader, l’ex comandante guerrigliero Jalal Talabani, è dal 2005 presidente dell’Irak. Al momento delle elezioni presidenziali e legislative nella regione autonoma (luglio 2009), è sorto il Movimento per il cambiamento (Gorran) fondato dall’ex vicesegretario generale del PUK, Nawshirwan Mustapha.
L’emanazione “irachena” del PKK è il Partito per una soluzione democratica in Kurdistan (PCDK). Nel 2012 dal Kurdistan iracheno sono arrivate dure critiche al PKK. Dalla televisione di stato turca TRT, il presidente della Regione autonoma del Kurdistan, Massud Barzani, leader del PDK, ha condannato la ripresa della guerriglia invitando il PKK a deporre le armi. Da segnalare che un analogo appello è stato lanciato in Turchia dalla parlamentare del BDP Leyla Zana. Contestata dal suo stesso partito, l’ex prigioniera politica si era rivolta a Erdogan ritenendolo un garante della pacificazione.

I curdi in Iran

In Iran, circa 7 milioni di Curdi (9% della popolazione) vivono nelle province di Kurdistan, Kermanchah, Azerbaidjan occidentale (nord-est del paese ) e nel Khorassan, alla frontiera con il Turkmenistan.
La maggior parte (circa due terzi), in quanto sunniti, vive una doppia condizione di minoranza, sia etnica che religiosa. Possono parlare la loro lingua (il sorani) e vivere la loro cultura, ma non godono di autonomia politica. Dal 2005 nella zona curda si sono svolte varie manifestazioni di protesta antigovernative. È seguita una durissima repressione con condanne a morte per impiccagione nei confronti di militanti e prigionieri politici, ben 16 nel solo mese di maggio 2010. Alle ultime elezioni legislative (2 marzo) il Consiglio dei Guardiani della rivoluzione aveva rigettato la candidatura di un rappresentante del Fronte curdo unito. Più recentemente, dopo un accordo di cessate il fuoco del governo iraniano con il PKK e con la sua emanazione iraniana (Partito per una vita degna in Kurdistan, PJAK), alcuni comandanti curdi catturati dall’esercito iraniano sono stati rimessi in libertà. Tra questi Murat Karayilan.

A questo punto, volenti o nolenti, le formazioni curde (e il PKK in particolare) si ritrovano al centro di un complesso gioco diplomatico regionale. Approfittando della situazione in Siria, il PYD sta cercando di controllare la regione curda e di ottenere da Damasco una qualche forma di autonomia. Qualcosa del genere potrebbe accadere in Iran. In Turchia gli attacchi della guerriglia curda appaiono, anche, come un tentativo di “alzare la posta” in vista di future trattative dopo il fallimento degli incontri di Oslo nel 2010 tra rappresentanti del PKK e dei servizi segreti turchi (MIT). In questa prospettiva trovano spazio i sospetti che la strage di Ukudere (34 civili curdi massacrati dagli F-16 dell’aviazione turca nel dicembre 2011) sia stata una “rappresaglia preventiva” di Ankara per inibire sul nascere il protagonismo della guerriglia. Pochi giorni prima Damasco aveva restituito agibilità politica alle formazioni curde presenti in Siria. Quanto al ruolo della diaspora curda (con presenze consistenti in Germania, Paesi scandinavi, Gran Bretagna, Italia, Francia, Canada) è paragonabile per consistenza e peso politico più a quella armena che a quella ebraica. Con i suoi mezzi di comunicazione (giornali, radio e televisioni) ha contribuito a proiettare la questione curda in ambito internazionale.

75) Il 2012 finisce con altri prigionieri politici in sciopero della fame (gennaio 2013)

Nel corso degli ultimi anni decine di curdi hanno perso la vita per aver adottato come forma di protesta lo sciopero della fame. Basti ricordare uno dei fondatori del PKK, Kemal Pir morto nel carcere di Diyarbakir dopo 65 giorni di digiuno, seguito da altri quattro compagni. Nel 1996 suscitò scalpore la morte di dieci prigionieri turchi e curdi appartenenti a Tikp e Dhkp (organizzazioni m-l-m, marxisti-leninisti-maoisti, in parte provenienti da Devrinci Sol). Totale indifferenza venne invece riservata alla morte volontaria per fame di più di un centinaio di militanti delle stesse organizzazioni tra il 2000 e il 2004 (sia detenuti sia in libertà) per protestare contro l’introduzione delle celle “F”.
E negli ultimi mesi del 2012 in alcuni paesi del Medio oriente e del Maghreb prigionieri politici di vario genere hanno intrapreso questa forma di protesta, talvolta con esito letale.
In novembre, nove prigioniere politiche e di coscienza iraniane rinchiuse nel carcere di Evin a Teheran, sono entrate in sciopero della fame per i trattamenti degradanti e le perquisizioni corporali cui vengono sottoposte. Amnesty International era intervenuta presso le autorità iraniane chiedendo di “non adottare misure punitive nei confronti delle detenute in sciopero della fame”. Nella stessa prigione dal 17 ottobre stava digiunando l’avvocata Nasrin Sotoudeh, condannata a sei anni per la sua attività in favore dei diritti umani e dei prigionieri politici.
In Tunisia, due salafiti rinchiusi nella prigione di Mornaguia (e accusati di aver preso parte all’assalto del 14 settembre contro l’ambasciata statunitense di Tunisi) sono deceduti tra il 15 e il 17 novembre 2012. Lo studente di 23 anni Béchir Gholli era in sciopero della fame dal 20 settembre mentre Mohammed Bakhti (27 anni), già in coma, era stato rimesso in libertà tre giorni prima di spirare in un ospedale tunisino.
Un’altra protesta era iniziata il 12 settembre 2012 nelle prigioni turche con centinaia di prigionieri politici curdi in sciopero della fame. Tra le richieste, l’uso della loro lingua nei tribunali e la fine dell’isolamento per “Apo”, Abdullah Ocalan, fondatore del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK). Da circa sette mesi all’esponente curdo, segregato ormai da 13 anni, veniva impedito di vedere i suoi avvocati. Agli inizi di novembre si sono aggregati alla protesta anche i deputati del Partito per la pace e la democrazia. Per il primo ministro Recep Tayyip Erdogan (che recentemente si era espresso a favore del ripristino della pena di morte per i guerriglieri) l’ipotesi degli arresti domiciliari “non va nemmeno presa in considerazione” e Ocalan dovrebbe rimanere sepolto vivo nel carcere di massima sicurezza dell’isolotto di Imrali, al largo di Istanbul.
Un po’ di storia. Nel 1998, di fronte all’intransigenza turca e vedendo le pressioni subite dal governo siriano, Ocalan e altri dirigenti del Pkk rifugiati in Libano cercarono un dialogo con la controparte, analogamente a quanto era già avvenuto con vari cessate-il-fuoco decretati unilateralmente dalla resistenza curda. Ma sempre invano. Intanto Ankara andava ammassando truppe al confine con la Siria e interrompeva il flusso delle acque proveniente dalla diga di Ataturk. Nonostante il vero e proprio assedio, Damasco si rifiutò di consegnare Ocalan alla Turchia. Tuttavia il 9 ottobre, dopo quaranta ore di negoziati ininterrotti, accettò di siglare un accordo con cui si impegnava a sospendere ogni appoggio al Pkk. Lo stesso giorno Ocalan volava a Mosca dove il primo ministro russo rifiutò di concedergli l’asilo politico.
Dopo una serie di peregrinazioni, il 12 novembre 1998 sbarcava a Roma. Con lui sull’aereo il responsabile degli Esteri di Rifondazione Comunista, Ramon Mantovani, e il rappresentante in Italia dell’Ernk (Fronte di liberazione nazionale del Kurdistan) Ahmet Yaman. È accertato che in un primo momento il premier Massimo D’Alema aveva garantito il suo interessamento per concedere al militante curdo l’asilo politico. Le ripetute ingerenze di Washington gli faranno cambiare non solo atteggiamento, ma anche linguaggio. Quello che inizialmente definiva il leader curdo” diventa un generico “signor Ocalan” per finire con “il terrorista Ocalan”. Alla fine, nonostante l’impegno allo stremo del compianto Dino Frisullo e l’arrivo a Roma di migliaia di curdi della diaspora, Ocalan dovrà andarsene.
Il 29 gennaio 1999 è in Grecia da dove viene immediatamente inviato in Kenya presso l’ambasciata ellenica di Nairobi. Essendo nota la disponibilità di Nelson Mandela, gli viene fatto credere che sarà portato in Sudafrica. Invece il 15 febbraio viene sequestrato e rapito da agenti mascherati (presumibilmente turchi, ma si parlò della partecipazione di servizi segreti di altri paesi).
Verso la fine di dicembre 2012, il quotidiano turco “Hurriyet” ha evocato “colloqui” tra esponenti dei servizi segreti e l’esponente curdo. Una conferma ufficiosa è arrivata il 31 dicembre da Yalcin Akdogan, principale consigliere politico di Erdogan. Notizie da prendere in considerazione (nella prospettiva di una soluzione politica del conflitto), ma senza escludere che la situazione di Ocalan, suo malgrado, possa venir strumentalizzata per demoralizzare il movimento curdo di liberazione.
Tentativi di dialogo tra il PKK e i rappresentanti dello Stato turco si erano svolti segretamente a Oslo nel 2009, ma senza risultati concreti. Sia i governanti turchi sia i loro alleati (tanto occidentali che mediorientali) dovrebbero comprendere che una soluzione politica del conflitto turco-curdo richiede la partecipazione diretta di Ocalan ai negoziati. Così come nel Sudafrica del secolo scorso la fuoriuscita dall’apartheid era impensabile senza il contributo attivo del prigioniero Nelson Mandela, il leader dell’African National Congress (ANC).

76) Esecuzione di rue la Fayette: un “effetto collaterale” dei mutamenti in atto nello scacchiere mediorientale? (gennaio 2013)

In Afghanistan, mentre le operazioni delle forze speciali contro gli insorti vanno intensificandosi, aumentano anche i segnali di una possibile accelerazione del ritiro della NATO.
Circa 250 presunti talebani, rinchiusi nel carcere di Pul-e-Charkhi, sono stati rimessi in libertà dal governo di Karzai, un gesto definito “distensivo per favorire la riconciliazione nazionale” nella prospettiva di una soluzione politica negoziata. Il ministero della Difesa ha poi confermato che “tutti i detenuti liberati hanno firmato un documento in cui si impegnano a cessare di combattere”. In precedenza, novembre 2012, era stata Islamabad a liberare 26 dirigenti talebani afgani detenuti nelle carceri pachistane.
Anche la designazione del repubblicano Chuck Hagel al Pentagono sembra preludere a un rapido disimpegno. Noto per aver contestato il “surge”, l’invio di rinforzi in Afghanistan nel 2009, il reduce pluridecorato Hagel ha già indicato le sue priorità: accelerazione del ritiro dall’Afghanistan e riduzione delle spese militari. Dei circa 65mila soldati statunitensi presenti in Afghanistan, nel 2014 ne potrebbero restare soltanto 5 o 6mila. Fermo restando che in caso di intervento armato contro l’Iran o la Siria né lui né John Kerry (l’altro ex-militare, democratico, designato da Obama al dipartimento di Stato) si tirerebbero indietro. Anche per non farsi scavalcare dal neoprotagonismo di Parigi in Africa. Mentre l’esercito francese interveniva in Mali e in Somalia, il presidente francese Hollande si preoccupava di portare in Francia alcune centinaia di interpreti afgani che in patria rischierebbero di subire ritorsioni in quanto “collaborazionisti”.
Ed è sempre Parigi al centro di un tragico episodio che proietta l’ombra dei conflitti mediorientali nel cuore dell’Europa. La triplice esecuzione in rue Lafayette (9 gennaio 2013) di tre esponenti curde legate al PKK rischia di far saltare le trattative tra il governo turco e Abdullah Ocalan. Oltre al capo dei servizi segreti segreti Hakan Fidan, agli incontri avevano partecipato anche esponenti del Partito per la pace e la democrazia (BDP, talvolta considerato la “vetrina legale” del PKK). Particolare inquietante, l’uccisione di Sakine Cansiz, Fidan Dogan e Leyla Soylemez è avvenuta appena due giorni dopo le rivelazioni del giornale turco “Radikal” sull’esistenza di trattative per porre termine al conflitto iniziato nel 1984. In particolare Ocalan aveva richiesto ai combattenti un nuovo cessate-il-fuoco e ottenuto dai militanti curdi in carcere la sospensione dello sciopero della fame. L’ipotesi più accreditata resta quella di un’azione dei “Lupi Grigi”, in combutta con settori dell’esercito contrari alla soluzione politica. Questa sembra essere l’opinione anche di Zubeyir Aydar che ha definito il triplice omicidio “un attacco diretto contro i negoziati sull’isola di Imrali” (dove Ocalan è rinchiuso dal 1999). L’alto responsabile in Europa del PKK ha quindi accusato “forze oscure legate allo Stato profondo turco”.
Alcuni osservatori hanno evocato un possibile intervento dei servizi segreti siriani che vedrebbero con favore la ripresa della guerriglia curda in quanto destabilizzante nei confronti della Turchia.
Scontate le dichiarazioni di Erdogan e del vice-primo ministro Bulent Arinc. Per i due esponenti dell’AKP si tratterebbe di “un regolamento di conti interno al PKK”. Una tesi difficilmente sostenibile pensando al ruolo delle tre militanti assassinate. Particolarmente amata dalla resistenza curda, Sakine Cansiz era stata una delle fondatrici del PKK e aveva trascorso molti anni in prigione dove aveva subìto la tortura. Fidan Dogan, 32 anni, era la responsabile del Centro d’informazione del Kurdistan dove è avvenuto il massacro. La più giovane, Leyla Soylemez di 24 anni, dirigeva l’organizzazione giovanile.

77) Addio alle armi del PKK? Per ora i guerriglieri si limitano a ritirarsi (maggio 2013)

Mercoledì 8 maggio i guerriglieri curdi del PKK hanno iniziato ad abbandonare il territorio turco. L’annuncio dell’imminente ritiro era stato dato già in aprile da Murat Karayilan, comandante dell’ala militare del PKK. Una conferma era poi venuta da Gultan Kisanak, presidente del Partito per la pace e la democrazia (BDP). In realtà guerriglieri stavano scendendo dalle montagne, a piedi, già da alcuni giorni diretti alla frontiere irachene per poi raggiungere il monte Qandil, sotto il controllo di più di 5000 combattenti del PKK.
Si prevede che per il completo ritiro di tutti i guerriglieri presenti sul territorio turco (circa 2000 secondo fonti dei servizi segreti) dovranno trascorrere alcuni mesi. Il PKK in un comunicato ha confermato di voler “mantenere quanto promesso rispettando le decisioni del nostro leader, Abdullah Ocalan”. Il 21 marzo, giorno della festa di Newroz, dalla cella dove è rinchiuso Ocalan aveva decretato il cessate-il-fuoco. Da parte del governo turco non si perde occasione per minimizzare la portata di questa decisione sostenendo (come ha fatto il primo ministro Erdogan) che “l’importante non è il ritiro, ma il disarmo dell’organizzazione”. Ancora più duro il giudizio dell’opposizione. Il partito kemalista (CHP) ha definito “disonorevoli le trattative con l’organizzazione terrorista”, mentre il Partito dell’azione nazionalista (MHP) le considera niente altro che “un tradimento”.
Quanto a lasciare le armi, i guerriglieri curdi non ci pensano nemmeno, ben sapendo che durante la ritirata potrebbero subire attacchi sia dall’esercito sia dalle milizie filo-governative. Nel 1999, poco dopo la cattura di Ocalan, in circostanze analoghe più di 500 guerriglieri erano stati uccisi dai militari turchi mentre scendevano dalle montagne dopo che era stato decretato un cessate-il-fuoco unilaterale. Un comandante curdo, Murat Karayilan, ha già preavvisato che “in caso di attacco o di bombardamento” il ritiro verrebbe immediatamente sospeso e i curdi reagirebbero con le armi. Intanto l’esercito turco ha inviato altre truppe nelle aree curde, aumentato i posti di blocco e fa sorvegliare dai droni la frontiera con l’Iraq. E la popolazione del Kurdistan “turco”? Per il momento rimane in attesa delle preannunciate misure legislative (tra cui una decentralizzazione dello Stato) che dovrebbero garantire ai curdi una certa autonomia e il rispetto dei loro diritti. Tuttavia, al momento, la discussione su un nuovo progetto di Costituzione che riconosca per legge l’identità curda sembra essersi arenata.

78) Siria: tentativi di pulizia etnica contro i curdi (agosto 2013)

Secondo l’UNHCR si aggira sui 40-50mila profughi curdi il “fiume umano” in fuga dalla Siria verso il Kurdistan come diretta conseguenza degli scontri tra milizie islamiste e combattenti curdi dei Comitati di protezione del popolo curdo (YPG, ala militare del Patiya Yekitiya Democrat, Partito Unione Democratica Curda). La causa primaria sta tuttavia nei rapimenti e nei massacri di civili operati dai gruppi fondamentalisti legati ad Al Qaida: in particolare, Jabhat Al-Nusrah (Fronte Al-Nosra, il cui leader, Mohammed Al-Jawlani è sospettato di legami sia con l’intelligence turca che con la CIA) e una formazione da qualche tempo molto attiva nel nord della Siria, il cosiddetto “Emirato islamico in Iraq e Levante” di origine irachena.
Il conflitto aperto tra curdi e milizie integraliste arabo-sunnite era ripreso verso la metà del luglio 2013. Aveva poi conosciuto un’ulteriore accelerazione il 31 luglio quando più di 200 civili curdi, in gran parte donne e bambini, venivano presi in ostaggio nei villaggi di Tall Haen e Tall Hassel, nella provincia di Aleppo. Il rapimento di massa era apparso una ritorsione per le recenti sconfitte inflitte all’Emirato islamico in Iraq e Levante dalla resistenza curda nella zona di Ras Al-Ain. Secondo fonti curde “i rapiti provenivano dalle famiglie dei soldati curdi delle brigate che in precedenza facevano parte dell’opposizione dell’Esercito libero siriano e avevano poi disertato per integrarsi nelle forze di autodifesa curde”.
Per alcuni osservatori, “nel nord della Siria è ormai in corso la prevista campagna di agosto e settembre con cui si tenta di far instaurare una no-fly zone, corridoi umanitari e, infine, l’intervento militare”. A farne le spese, soprattutto i civili curdi. In agosto (2013) il presidente del Kurdistan iracheno, Massoud Barzani, aveva invocato un’inchiesta internazionale avvertendo i Paesi coinvolti nel conflitto siriano, in particolare la Turchia, che “se cittadini innocenti, donne e bambini curdi, risultassero sotto minaccia di morte e terrorismo, la regione del Kurdistan irachena sarà disposta a difenderli”.
Il Kurdistan siriano è composto sostanzialmente da tre enclave attualmente non comunicanti: la regione di Afrin (nord ovest di Aleppo), alcuni territori sotto la città turca di Urfa (Ras Al-Ain, Amude, Hassaké) e Djezireh dove sorge Kameshli, considerata da Damasco “città strategica”.
In Siria i curdi rappresentano circa il 10% della popolazione. Consapevole di non poter combattere contemporaneamente su troppi fronti, all’inizio del 2012 Bachar Al-Assad era corso ai ripari restituendo la nazionalità siriana a quei 60mila curdi che in passato ne erano stati privati (come ritorsione per le loro richieste autonomiste). Inoltre, in cambio della garanzia di mantenere l’ordine nella regione, l’ufficialmente illegale PYD ha avuto la possibilità di realizzare un’embrionale forma di autonomia.
Dal luglio 2012, con il tacito accordo del governo di Damasco impegnato a riconquistare le grandi città, i curdi controllano almeno sei centri abitati nella zona di frontiera con la Turchia: Ain Al-Arab (Kobani), Amuda, Afrin, Dirbassyé, Til Temur, Derik. Anche Qamishli, Hassaka, Tirbaspi sono amministrate di fatto dai curdi dove, limitatamente all’interno delle caserme, è ancora presente l’esercito lealista siriano.
Nel novembre del 2012, quando la recente tregua e il processo di pace erano ancora lontani, un comunicato del PKK accusava “il regime turco di aver aperto un corridoio tra città come Antep, Mardin e Urfa fino ad Aleppo, per far passare gli assassini”. In riferimento, oltre all’immancabile Fronte Al Norsa, anche al gruppo jihadista Ghourab Al-Cham che aveva ucciso alcuni curdi, compreso il presidente del Consiglio del popolo di Serekaniye. Altro precedente, l’attacco da parte dell’ESL all’aeroporto della città curdo-cristiana di Qumishlo.
Continuava il comunicato: “Lo stato turco fa di tutto perché il conflitto siriano si trasformi in una guerra arabo-curda e noi rivolgiamo un appello a tutte le forze democratiche perché contrastino la sporca collaborazione tra AKP, partito al potere in Turchia, e Al Qaida”. Di seguito si registravano duri combattimenti tra curdi e islamisti, giunti dalla Turchia, nelle città curde di Ras Al-Ain. Mentre il PKK chiamava a raccolta il popolo curdo “per impedire il passaggio dalla Turchia dei gruppi militari”, in un’intervista al canale curdo Ronahi TV, il comandante dello YPG, Sipan Hamo, si era rivolto all’Esercito libero siriano affinché facesse “chiarezza in merito alla sua posizione nei confronti dei gruppi salafiti in quanto la Turchia si serve di questi gruppi. Noi consideriamo questo attacco come un tentativo di occupazione del Kurdistan occidentale [siriano] da parte della Turchia”.
Nel maggio 2013 il conflitto tra islamisti e curdi era stato innescato dalla katiba jihadista Liwa Al-Tawhidi (legata ai Fratelli musulmani) che aveva occupato il villaggio curdo di Aqaiba allo scopo di impedire agli abitanti di Nubel (un villaggio sciita circondato dai ribelli anti-Assad) di sfuggire all’assedio. Invece i combattenti dell’YPG consentivano agli sfollati di transitare liberamente verso zone più sicure.
Organizzati in milizie di autodifesa, in luglio i curdi erano riusciti a estromettere dal nord-est della Siria i gruppi legati ad Al-Qaida. Ma il mese successivo, dopo essersi riorganizzati e riforniti di armi, i fondamentalisti tornavano all’attacco. Il 5 agosto 2013 le milizie di Jabhat Al-Nusrah avevano colpito nel distretto di Tal Abya (governatorato di Raqqa, area curda e ricca di petrolio). Secondo l’agenzia Itar-Tass (che ha diffuso immagini agghiaccianti e intervistato alcuni curdi sfuggiti al massacro) nel corso dell’attacco venivano uccisi circa 400 civili, tra cui donne, anziani e bambini. Gli islamisti avrebbero operato come veri e propri squadroni della morte anti-curdi. È possibile che l’attacco sia un effetto collaterale della decisione dell’Unione europea (aprile 2013) di “revocare il divieto di importare il petrolio siriano dai territori controllati dai ribelli”. Un modo per finanziare indirettamente l’opposizione, ma senza aver fatto i conti con le conseguenze sulla popolazione curda.
Per Charles Lister e Jeremy Binnie (analisti della rivista “IHS Jane’s Defence Weekly”, ritenuta fonte autorevole sia da “Le Monde” sia dalla CNN) “ogni grande offensiva nel nord della Siria del 2013 è stata annunciata, guidata e coordinata dagli islamisti”.
Ricordo che la società IHS, fondata nel 1959 da R. O’Brien, si autodefiniva “azienda fornitrice di database di cataloghi di prodotti su microfilm per ingegneri aerospaziali”. Negli anni successivi la sua attività era destinata ad allargarsi ad altri settori: attrezzature, organizzazione e geopolitica militare, attività commerciali, eccetera, qualificandosi (pur in una logica capitalista) come fonte autorevole di informazioni su difesa, forze aeree, terrestri e navali, analisi di mercato, notizie finanziarie e commerciali, analisi degli sviluppi militari.
Non di rado conflittuali anche i rapporti tra gli islamisti e l’Esercito libero siriano. In luglio un esponente dell’Emirato islamico in Iraq e Levante, cioè l’ISIS, aveva assassinato Abu Bassir, noto dirigente della ribellione contro Assad, sollevando le proteste dell’ESL. Il 10 agosto si sono registrati scontri tra islamisti e ESL per il controllo dei depositi di alcuni zuccherifici nella provincia di Al-Raqqa e nella zona dei giacimenti petroliferi di Deir Al-Zor.
È assai probabile che anche la quasi contemporanea uccisione di Issa Huso sia opera dell’ISIS. Nei mesi scorsi il leader curdo, uno dei fondatori del PYD e incaricato dei rapporti con gli Esteri per conto del Consiglio supremo curdo che riunisce tutte le formazione politiche curde in Siria, aveva criticato duramente le azioni dei fondamentalisti. Secondo altre fonti l’attentato di fine luglio a Kamechliyé, in cui Issa Huso ha perso la vita, potrebbe essere stato realizzato dai servizi segreti siriani per contrastare un possibile riavvicinamento tra i curdi di Siria e Ankara. Un riavvicinamento dovuto alle pressioni del PKK ormai pienamente coinvolto nel “processo di pace” con la Turchia.
Nei primi tempi della ribellione siriana la posizione del PYD era stata di assoluta neutralità (qui vivono sia curdi sunniti che sciiti e alauiti, così come curdi non-islamici) e solo nel marzo 2013 si registrava la rottura con Damasco. Fermo restando che le formazioni curde mantengono la loro sostanziale diffidenza nei confronti degli arabi, indipendentemente dalla loro collocazione pro o contro Assad. Dopo l’uccisione del suo esponente, il PYD aveva chiamato a raccolta le altre formazioni curde per combattere unitariamente contro i fondamentalisti chiedendo “al popolo curdo un passo avanti. Chiunque sia armato deve entrare nelle fila dei Comitati per la tutela del popolo curdo (YPG) e affrontare gli assalti di questi gruppi armati”.
Si ritiene che scopo del viaggio nel nord della Siria di padre Paolo dall’Oglio, fino a pochi giorni prima nel Kurdistan iracheno, fosse quello di trattare per la liberazione degli ostaggi e impedire l’ulteriore inasprimento del conflitto tra milizie islamiche e combattenti curdi. Il gesuita si era recato a Rakka nel nord-est della Siria, una cittadina sotto il controllo dell’ISIS e della brigata Ahrar Al-Cham. Qui i gruppi islamisti avrebbero operato molte esecuzioni pubbliche di presunti “traditori” ed eliminato anche i membri del Consiglio locale eletto dopo la partenza dell’esercito siriano da Rakka.

79) Cosa resta dell’autodeterminazione dei popoli? (postfazione)

In questi articoli e interviste ho voluto mantenere inalterati testo e cronologia, senza rielaborare con “il senno di poi” quanto avevo scritto, mosso in genere dall’indignazione, sulle vicende del popolo curdo. Alcune ipotesi sono state confermate, altre si sono perse per strada (ma forse solo temporaneamente), altre ancora si sono manifestate in maniera inaspettata. Sia nel dramma dei profughi curdi abbandonati dall’Onu in Iraq (dove rischiavano di venire sterminati) sia nella paradossale vicenda del boicottaggio contro la Turban-Italia (ero io l’autore del volantino incriminato, ovviamente), la tensione è quella vissuta in quel preciso momento.
Come si può dedurre da questa “postfazione”, coltivo qualche perplessità sugli sbocchi assunti da alcune lotte di liberazione in tempi recenti (talvolta strumentalizzate dal sistema industriale-militare – l’imperialismo – o da qualche potenza regionale), ma non per questo rinuncio a schierarmi a fianco degli oppressi e contro l’oppressione. Altri verranno e sapranno comprendere, interpretare con maggiore chiarezza gli avvenimenti, non sempre di facile lettura, degli ultimi decenni. Da parte mia, metto a disposizione questo omaggio alla dignità e fierezza di un popolo coraggioso, mai domato, mai addomesticato, mai rassegnato.
Per i colonizzatori il divide et impera non è una novità. Viene praticato con successo almeno dai tempi di Giulio Cesare. La strumentalizzazione, operata dal regime turco, di altre minoranze contro gli armeni (durante la deportazione e il genocidio del 1915) potrebbe aver fornito un protocollo per l’utilizzo da parte della Francia, e in seguito degli Usa, di alcune minoranze indocinesi contro la resistenza vietnamita. Senza ovviamente dimenticare che, a combattere in Indocina, Parigi aveva inviato soprattutto soldati originari dall’Africa. Così come l’Italia fascista aveva fatto ampio uso (oltre che dei gas) di ascari africani contro altri africani: eritrei contro la resistenza libica e truppe libiche nel Corno d’Africa. Negli anni ottanta, Londra inviò i gurka nepalesi alle Malvinas. A Belfast e Derry, nell’Irlanda del Nord, frange di proletariato dei quartieri protestanti, manipolate dai servizi segreti inglesi, si resero responsabili di omicidi settari (non di rado indiscriminati, indipendentemente dalla militanza delle vittime nel movimento repubblicano) contro gli abitanti, cattolici, di Falls Road e Rossville Flats. Da sottolineare che entrambi (nativi irlandesi e discendenti dai coloni immigrati dalla Scozia) erano di origine celtica. Un elemento in più per sottolineare l’artificiosità e la strumentalità della divisione su base religiosa delle due comunità, reciprocamente ostili. Sciiti e sunniti, a fasi alterne, vengono strumentalizzati in Medio oriente e lo stesso avviene con le nazioni senza stato e con le minoranze etniche: curdi, beluci, turcomanni, alimentando – e armando – le loro aspirazioni a una maggiore autonomia o all’indipendenza.
Per conto di chi agivano i miliziani sciiti di Amal (“Speranza”) che nel 1986 assediavano i campi palestinesi, ormai indifesi e ridotti alla fame dopo l’allontanamento dell’Olp dal Libano? E in base a quali calcoli gli Stati Uniti hanno integrato nell’esercito e nella polizia irachena formazioni come il gruppo Sciri e Al-Da’wa, notoriamente filoiraniani e responsabili di violazioni dei diritti umani? Contraddizione nella contraddizione: contemporaneamente Washington starebbe utilizzando in funzione anti-Teheran gruppi di indipendentisti beluci (sunniti) legati ad Al Qaeda. Chi, se non i servizi segreti turchi, può aver organizzato nel 2007 gli assalti – ufficialmente opera di rom – contro le baracche dei profughi curdi a Istanbul?
Un caso limite quello dei karen, in perenne fuga tra Birmania e Thailandia, che da qualche tempo verrebbero sostenuti da gruppi neofascisti europei.
Anche le “guerre tra poveri” che stanno insanguinando il subcontinente indiano danno l’impressione di essere in parte manovrate, ma individuarne la vera matrice non è semplice. Nel 2007 alcuni gravi attentati compiuti in occasione di feste nazionali e anniversari dell’India vennero inizialmente attribuiti ai gruppi islamici. Successivamente emerse la pista dei separatisti del nord-est (popolazioni bodo e naga). Lo scontro è stato particolarmente duro nell’Assam (dove gran parte della popolazione è induista). Dal 1989 al 1996 la guerriglia dei bodo (in maggioranza cristiani) aveva causato la morte di circa duemila persone. Nel dicembre 1996 un attentato al Brahamaputra Express, mentre attraversava l’Assam, provocò più di trecento morti. Ancora prima delle rivendicazioni, l’atto terroristico venne attribuito ai bodo che due giorni prima avevano fatto saltare un ponte ferroviario. Alcuni osservatori parlarono esplicitamente di “strategia della tensione” e di manipolazioni dei servizi.
Molto probabilmente in alto loco qualcuno pensa che è “sempre meglio che si ammazzino tra di loro”, purché il controllo del territorio e delle risorse rimanga saldamente nelle mani di chi detiene il potere. Si tratti di un esercito di occupazione, di una multinazionale o di criminalità organizzata come nei pogrom di Ponticelli. E naturalmente anche l’oppresso, il diseredato di turno ci metterà “del suo”.
Ormai la strumentalizzazione dei movimenti di liberazione nazionale, come di quelli autonomistici o identitari, non è più appannaggio esclusivo dei servizi segreti. Le varie potenze planetarie operano alla luce del sole decretando la legittimità o meno delle rivendicazioni. Manuel Castells ha parlato di “indipendenze a geometria variabile”, denunciando come la comunità internazionale si dichiari favorevole all’autodeterminazione di un popolo o difenda l’integrità di un paese “a seconda di chi, del come e del quando”. Ricordava che osseti e abkhazi si erano ribellati contro la Georgia nello stesso periodo in cui i ceceni si sollevavano contro la Russia. Inizialmente gli Usa appoggiarono l’insurrezione cecena, ma tollerarono facilmente la repressione da parte della Georgia. Analogamente nel caso del Kosovo (dove è stata poi costruita un’immensa base statunitense) si è invocato il diritto all’autodeterminazione, mentre per il Tibet non si va oltre qualche protesta simbolica. Quanto agli uiguri, sembra quasi che non esistano come popolo.
“Le posizioni sul diritto all’autodeterminazione”, sostiene il sociologo catalano, “sono frutto di un cinismo tattico” e l’indipendentismo sarebbe divenuto uno “strumento geopolitico fondamentale in un mondo globalizzato e interdipendente”.
Gli esempi si sprecano. Pensiamo al trattamento riservato ai curdi in Iraq, praticamente autonomi e quasi alleati degli Usa, mentre quelli in territorio turco continuavano a essere bombardati, imprigionati e torturati da Ankara, storicamente alleato strategico degli Stati Uniti. Cui prodest? Non certo alla nazione curda nel suo insieme. E intanto i curdi dell’Iran (“Partito per una vita libera in Kurdistan”, PJAK, considerato il ramo iraniano del PKK attivo in Turchia), dopo una serie di impiccagioni che l’opinione pubblica mondiale ha ignorato, nel 2010 si sarebbero rassegnati a collaborare anche con il Mossad (lo aveva documentato “Le Monde”, ma poi le cose sarebbero cambiate).
Nel caso di Timor Est, la popolazione subì per anni un vero e proprio genocidio nell’indifferenza dell’opinione pubblica. Tra le poche eccezioni Noam Chomski e la “Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli” (Lidlip, fondata da Lelio Basso). Solo di fronte al rischio concreto di una dissoluzione dell’Indonesia intervennero le forze internazionali, ripescando l’ex guerrigliero Gusmao, leader del Frente revolucionària de Timor-Leste independente (Fretilin) per farne il presidente. Pare che inizialmente non ne fosse particolarmente entusiasta, dato che aspirava a ritirarsi e darsi all’agricoltura. Paradossale che tra i militari inviati a tutelare il diritto all’autodeterminazione di Timor Est vi fossero esponenti dei corpi scelti dell’antiterrorismo britannico provenienti direttamente da Belfast.
Due situazioni molto simili come l’Irlanda del Nord e il Paese basco, negli ultimi anni sembravano aver imboccato strade antitetiche. Soluzione politica, abbandono della lotta armata da parte di Ira, Inla e delle principali milizie lealiste, liberazione dei prigionieri politici e cogestione del governo locale a Belfast e Derry. Repressione, ancora casi di tortura, tregue effimere, illegalizzazione di partiti (Herri batasuna, Batasuna, Bildu, Sortu…), associazioni (Jarrai, Haika, Segi, Gestoras pro Amnistia, Askatasuna…) e giornali (Egin, Egunkaria) a Bilbo, Donosti e Gasteiz. Solo nel 2012, con la definitiva rinuncia alle armi di ETA e la possibilità per la “sinistra abertzale” di partecipare alle elezioni (con Sortu), si è riaperta la possibilità di una soluzione politica del conflitto. Ma al momento Arnaldo Otegi e altri esponenti indipendentisti rimangono ancora in galera (come se durante le trattative Blair avesse fatto arrestare Gerry Adams) e per i prigionieri politici baschi (in particolare per gli etarras) la situazione rimane molto difficile.
La mia ipotesi è che negli anni novanta il “grande laboratorio a cielo aperto per la contro-insurrezione” dell’Irlanda del Nord dovesse chiudere in vista della partecipazione britannica alle guerre in Afghanistan-Iraq e del ruolo fondamentale assunto da Londra. Meno convincente la tesi della conversione di Blair al cattolicesimo, anche se non si può mai dire. Quanto agli Usa, Clinton avrebbe agito per conservare il voto dei cittadini statunitensi di origine irlandese che solitamente votano per i Democratici.
È ipotizzabile che in Irlanda del Nord la stessa Cia abbia dato una mano per togliere di mezzo qualche capo delle milizia lealiste (filobritanniche) che non aveva compreso la nuova situazione. Ipotesi formulata anche dal compianto Stefano Chiarini. Al contrario, già negli anni novanta Washington inviava agenti della Cia nel Paese basco per coadiuvare l’apparato repressivo.
Il problema di “quale autodeterminazione” si pone soprattutto nel caso di stati nati dalla colonizzazione, dato che le loro frontiere sono state stabilite in base a trattati europei con cui si decideva arbitrariamente il destino delle popolazioni. I poteri globali reali (economici, militari, tecnologici) stabiliscono caso per caso, di volta in volta, se appoggiare una lotta di liberazione, legittimarne la repressione o anche inventarne una di sana pianta. Al limite della farsa l’episodio che ha visto un gruppo di aspiranti golpisti (quasi tutti membri di una loggia massonica) arruolare mercenari per sobillare la rivolta secessionista nel Cabinda, regione angolana ricca di petrolio. Da segnalare per l’uso spregiudicato di due ONLUS (Freedom for Cabinda e Freedom for Cabinda Confederation) create appositamente per ricevere donazioni.
Alcuni casi esemplari, storici, di separatismo a puro uso e consumo di qualche potenza coloniale (come il Katanga di Tshombe nell’ex Congo belga) potrebbero tornare di attualità. Per esempio in Bolivia con Santa Cruz, capoluogo di una regione ricca, abitata prevalentemente da discendenti dei colonizzatori, che ha spinto per l’indipendenza. Chissà? Forse Evo Morales (il presidente boliviano esponente del MAS, Movimento al socialismo) ha rischiato davvero di finire come Lumumba, il presidente progressista del Congo, assassinato nel 1961 dagli sgherri di Tshombe al servizio dell’imperialismo belga.
Forse non è un caso che nel 2008, dopo anni di impegno a fianco dei popoli oppressi, la Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli (Lidlip), riconosciuta dall’Onu e dall’Unesco, abbia definitivamente sospeso le sue attività. Fondata da Lelio Basso, la Lidlip è stata per trent’anni portavoce delle minoranze, delle popolazioni perseguitate, dei movimenti di liberazione dal colonialismo, grazie all’impegno di Verena Graf, segretaria generale e rappresentante permanente della Lidlip all’Onu. Ci mancherà.

Gianni Sartori è nato a Vicenza nel 1951.
Giornalista, ha realizzato articoli, interviste, reportage e servizi fotografici in difesa dei diritti dei popoli e su questioni ambientali. In particolare si è occupato di Irlanda del Nord, Paesi Baschi, Kurdistan, Armenia, Corsica, Quebec, Bretagna, Paisos Catalans, Sudafrica, Sudan… e in genere di minoranze oppresse (Ogoni, U’wa, Moseten, Tamil, Sinti…).
Ha collaborato con varie testate sia locali (Nuova Vicenza, Corriere vicentino, La Voce dei Berici, Vicenza abc…) che nazionali (Etnie, Umana Avventura, Frigidaire, Liberazione, Narcomafie, A-rivista anarchica, Germinal, Azimut…).
Negli anni ottanta, per la Lega italiana per i diritti e la liberazione dei popoli (Fondazione Lelio Basso) ha curato un ampio dossier sulla questione basca. In rappresentanza della stessa Ong nel 1997 ha seguito come osservatore internazionale il processo di Madrid contro gli esponenti della formazione politica basca Herri Batasuna.
Tra i libri pubblicati: Euskal Herria – Indiani d’Europa, 2004; Irlanda, tutti i colori del verde sotto un cielo di piombo, 2005; Catalogna, storia di una Nazione senza Stato, 2007. In precedenza (giugno 2000), un piccolo libro sui luoghi e sulle leggende della Montagna veneta: Ponti di roccia.
Come direttore responsabile ha reso possibile la pubblicazione di varie riviste legate ai movimenti ambientalisti e pacifisti (“La Fucina”, “Unainforma”, il mensile del presidio NoDalMolin…).