Guerra, pace, mutualismo ai tempi della destra salviniana

Questo testo è scritto sotto forma di appunti, di bozze di riflessioni che sono ancora in divenire, nel tentativo di tematizzare appieno il concetto e la pratica di mutualismo.

 

Siamo in guerra.

Lo avevamo già detto – non solo in riferimento a quello che succede nelle coste del mediterraneo –  e lo ripetiamo mentre assistiamo alla manovra tattica e strategica con cui la Lega ha lanciato la manifestazione del 28 febbraio a Roma, così come lo sono state le mobilitazioni congiunte con gruppi di destra sul piano locale e regionale.

La parola “invasione” dei salvinisti e della destra europea non è utilizzata a sproposito, come non è – a differenza degli scorsi anni – la riproposizione della vetusta campagna contro la migrazione in generale: questa volta, invece, racchiude in sé degli elementi che cercano di inserirsi nel senso comune per fuorviarlo verso un immaginario sempre più propagandato dagli ambienti del populismo europeo. L’allungamento della guerra dal Medio-Oriente alle coste libiche, a soli 300 kilometri dai confini italiani – portata avanti dalle truppe fascio-fondamentaliste dell’ISIS- è il fenomeno cui si riferisce lo slogan leghista.

Certo, è stato lanciato molto tempo fa, quando della guerra se ne sentivano solamente gli echi ampliati dai bombardamenti delle forze occidentali (e mai dalla coraggiosa e rivoluzionaria resistenza costituente dei curdi in Rojava). Adesso, tuttavia, la retorica xenofoba distorce a fini escludenti e di chiusura quello che sta entrando nel senso comune, cioè che l’Occidente sta combattendo per la difesa dei suoi valori contro il Medioevo islamico. E lo riporta dai Continenti subalterni a casa nostra, facendo una chiara e semplice equazione: chi fugge dalla guerra è un jihadista, un terrorista che vuole colonizzare la nostra patria e spazzare via i nostri valori culturali (cristiani).

Insomma, Salvini definisce un nuovo stereotipo migratorio descrivibile come atto di occupazione ”manu militari” da parte di nuovi gruppi d’individui che si stanziano in territori già abitati e governati. L’effetto che la parola “invasione” produce lo vediamo dando uno sguardo attento a quello che ci accade attorno, dove preoccupanti alleanze tra movimenti di estrema destra, banalizzazione populista e partiti anti-europeisti prendono piede attorno alla demonizzazione delle persone fuggite da una guerra.

Il problema, comunque, non sta solo nella retorica di questo discorso, ma nel suo effetto performativo; e i risultati reali rispetto alla migrazione si stanno espandendo nei nostri territori. Non siamo allarmisti, ma dei materialisti convinti che sentono la necessità di ricalibrare l’intervento politico nelle città. Quando parliamo di guerra riportata in seno alla cosiddetta “civiltà europea”, in cui c’è anche l’Italia, intendiamo una disponibilità al conflitto “orizzontale”, all’inimicizia tra poveri e sfruttati che una recessione, e le varie riforme e leggi sul lavoro e previdenza sociale, hanno prodotto. Perché se da un lato lo standard della retorica politica in questione fa un attacco volutamente vile per garantirsi la sovranità della battaglia all’immigrazione, dall’altro lato dovremmo aprire un dibattito serio sul come non essere solamente i portatori di messaggi antirazzisti, ma altresì essere coraggiosi nell’affermare con forza il volere un’Europa basata sui principi dell’accoglienza e della solidarietà per tutti e tutte. Come fare? Pensiamo ai due livelli della discussione: uno che riguarda la guerra oltre il Mediterraneo, uno invece che riguarda la guerra che crea l’immaginario xenofobo.

– Guerre dentro e oltre il Mediterraneo

Troppo spesso nell’ambiente di sinistra, anche radicale e di movimento, l’analisi dei conflitti bellici viene polarizzata. Da una parte le rivolte interne ai Paesi non-occidentali, le insurrezioni armate sono subito inquadrate nel concetto storico quanto astratto del “diritto di Resistenza dei Popoli”: un’espressione che potenzialmente riterrebbe legittimo l’atto in sé evitando però allo stesso tempo di tenere assieme l’intero processo di ribellione; quel processo che al di là dell’indignazione di piazza vive nell’accumulo delle sue condizioni e nel lascito degli eventi di rivolta di massa. Non aggiungiamo niente di nuovo quando diciamo che non tutto diventa dispositivo bio-politico capace di far emergere una rivendicazione di eguaglianza e nuove pratiche di libertà. Dall’altra, gli occhi incastonati nel vecchio imperialismo vedono ogni movimentazione sociale e militare come conseguenza della geopolitica occidentale oscurando la costellazione storica, composta da diversi elementi, attorno alla quale queste sono possibili.

Se il primo sguardo non tiene conto delle giuste differenze e del progetto politico che emerge dalla ribellione, il secondo non tiene conto della concentrazione del capitale economico nelle mani delle classi ricche arabe, delle condizioni sociali e culturali che animano spesso le contrapposizioni etniche e confessionali, del superamento del rapporto tra religione e politica che organizzazioni militari come l’ISIS hanno. La concezione dello Stato Islamico rispetto al merito sociale, all’individuo e alla comunità è un orizzonte che costruisce società attorno a sé, non una semplice risposta all’impoverimento, agli attacchi bellici e all’eterodirezione di cui sono ovviamente colpevoli i Paesi occidentali.

E’ preliminare approfondire questo argomento leggendone correttamente la realtà, come lo è dare una risposta politica che non può cadere in un generalissimo pacifismo o nell’esaltazione dello scontro in atto prendendo le parti di qualcuno se non se ne approfondiscono le direzioni.

Ovviamente le soluzioni della NATO non sono capaci di fare un intervento mirato, troppo spesso si sono macchiate di miopia politica, disastri umanitari e – come sempre – della volontà di piegare a proprio favore un possibile sbocco della pace (nessuno si può scordare le retoriche dei primi anni Duemila sull’ “esportazione della democrazia”). Ma non possiamo non vedere la terrificante violenza dell’ISIS e il trucolento trattamento di tutte le vite che sottomettono e uccidono a prescindere dalla loro provenienza culturale ed etnica. Le immagini delle iniziative e delle azioni dello Stato Islamico non lasciano inganni: si sta conducendo una guerra aperta, dove il timore di “morte violenta” è sempre nell’attualità, è un esercizio costante di dominio e di oppressione. Questo può significare solo una cosa: che la guerra alla vita e alla libertà portata avanti dall’ISIS è giustamente combattuta da chi ne è o ne sarebbe la vittima.

Senza paura di dire chiaramente alcune cose: non è ciò che hanno fatto i e le combattenti curdi/e? Il confederalismo democratico e radicale del Rojava è la difesa di un potere costituente dove l’uguaglianza, la libertà e una nuova istituzionalità sono al centro del suo svilupparsi. La tutela di un tale progetto, che ha un segno determinato ed esplicito nella direzione che vuole prendere, non si è posta il problema del pacifismo, così come ha rifuggito qualsiasi ideologia identitaria e xenofoba; in un certo senso, i curdi del Rojava hanno risposto con tutta la forza dell’alternativa politica libertaria a chi li avrebbe voluti far cadere sotto al massacro delle armi jihadiste. Noi da sempre rifiutiamo qualsiasi fascismo e fondamentalismo, e crediamo sia necessario comprendere che soltanto una risposta armata, e provvista di un progetto politico preciso, può intervenire per combattere le avanzate dell’IS e del suo esercito che da mesi sta gettando nella disperazione intere comunità. Non è cosa da poco andare oltre le lenti del pacifismo tout-court che negli ultimi mesi sulle grandi battaglie del popolo curdo per la liberazione dai fascismi e fondamentalismi è stato muto e non è riuscito ad innestare un processo di solidarietà attiva che sapesse andare oltre il rapporto guerra/pace classico. Del resto, tutti coloro che sono intervenuti contro l’ISIS e a sostegno del popolo curdo non hanno preso una posizione che giace nell’ambiguità: è la realizzazione di un orizzonte di vita degna, solidale e in comune contro le spinte necropolitiche delle forze militari del capitale fascio-islamico.

Una valutazione di questo tipo ci permette di sostituirci ai vuoti di discorso attorno alla guerra che vengono sistematicamente significati dalle destre e dal loro interventismo patriottico, orientato più all’interno dei nostri Paesi che all’esterno.

– Guerra al salvinismo e agli immaginari xenofobi europei

Guardare all’Europa con Kobane nel cuore non può che aiutarci a comprendere come il mutualismo e la solidarietà siano armi forti per l’abbattimento della disgregazione sociale e delle ideologie xenofobe. La campagna che la Lega sta proponendo ha caratteristiche che mai come oggi ci dovrebbe far riflettere; una campagna che usa il fondamentalismo religioso ponendosi, tuttavia, sullo stesso piano discorsivo. Perché lo “STOP INVASIONE” sta generando prese di posizione che sono assai allarmanti: basti vedere come cittadini e cittadine si stiano mobilitando contro l’arrivo dei profughi, l’innalzamento degli attacchi ai campi ROM, i comitati di quartiere che richiedono sicurezza contro gli immigrati, ma soprattutto la diffusione della guerra contro i poveri invece che alla povertà. Con due parole, nette ed efficaci, la Lega sta creando alleanze preoccupanti oltre i perimetri del suo partito: il 28 febbraio a Roma si tireranno alcune somme dopo aver assistito ad un corteo che vedrà la partecipazione del Carroccio, del suo nuovo “servizio d’ordine” CasaPound assieme al Sindacato Autonomo di Polizia. Un tentativo di presa di consenso pubblico non da poco, perché se il corteo del 14 febbraio a Roma in solidarietà al popolo greco per l’Europa anti-troika ha parlato di diritti di cittadinanza, quello del 28 febbraio senz’altro segnerà una spinta reazionaria e di chiusura oltre che preannunciare una strategia  in vista delle varie elezioni regionali e comunali. E avrà una ricaduta e una partecipazione indubbiamente più vasta.

Insomma, la sfida che Salvini fa a Roma – città che storicamente ha rifiutato la Lega anche grazie allo sprezzante “padanismo” – è un modo per spingere ancor di più verso l’intensificazione del conflitto orizzontale nei nostri territori, un modo per dare un’unica voce che prende parola sulla migrazione nella nostrana griglia di lettura razzista. L’incapacità delle sinistre da questo punto di vista è patologica, strette tra il pietismo ex post le tragedie che accadono nel Mediterraneo e la subalternità ai meccanismi della governance europea che riproduce le gerarchie tra Stati ed evidenzia la mancanza di un piano comunitario per instaurare un canale umanitario verso il Vecchio Continente. A questo si aggiunge la necessità di riformulare un nuovo assetto dei diritti di cittadinanza in modo omogeneo nell’ordinamento giuridico europeo.

Non possiamo più permettere che la Lega occupi questo vuoto rispetto alla migrazione e che, soprattutto, possa avanzare un’idea di società e di lavoro che si riflette nell’anacronismo fordista, tra famiglia tradizionale e individuo proprietario che è tutelato dalle istituzioni (perché lavora) di fronte alla minaccia del nemico esterno.

Oggi, forse, abbiamo bisogno di dare respiro a quelle pratiche di mutualismo che passando dai quartieri delle nostre città, dalle zone limitrofe alle metropoli, arrivando fino al cuore dell’Europa sappiano resistere alla chiusura e all’istanza xenofoba e neofascista che si sta generando. E’ così che vogliamo riportare Kobane – ma anche le spinte costituenti greche degli ultimi tre anni di movimento – nel cuore della civiltà occidentale, perché è un esempio di radicalità e di radicamento territoriale. Perché partendo dalla quotidianità, è possibile instaurare pratiche del comune e di resistenza al salvinismo, senza lasciare sguarniti i luoghi della vita sociale facilmente infettabili dai germi dell’intolleranza. Come abbiamo sempre detto, lo stare nelle contraddizioni non ci macchia di peccato ideologico, ma ci rende più consapevoli della generazione del nuovo che potrebbe avanzare. La concezione e l’applicazione di un mutualismo vero e dal basso, oltre a presagire un altro welfare possibile nella disgregazione del pubblico, ci invita a creare reti sociali e coalizioni ampie organizzate oltrepassando i recinti identitari.

Noi siamo e saremo sempre partigiani. La nostra presa di posizione è ancor più netta di quella salviniana: l’unica invasione che vogliamo impedire è quella razzista, fascista e fondamentalista che vuole conquistare i nostri spazi urbani e sociali.