di Martina Fabbri, tratto da www.globalproject.info

La puntata di Presa Diretta di lunedì sera, oltre a smuovere nell’immediatezza della visione un grumo nero e grosso di rabbia nel basso ventre, da giorni mi ha messo in testa un refrain che non riesco a smorzare, frutto anche delle esperienze personali.

Il problema non sono gli episodi, i piccoli bug nel software, le interferenze momentanee della norma. Non si tratta di riconoscere e di accusare lo sparuto manipolo di poliziotti incapaci e inadatti che oscura la fulgida luce della divisa e dei distintivi di moltissimi anonimi lavoratori. Il problema è più profondo e più complesso e non può essere liquidato nella solita banale distinzione fra “buoni e cattivi” che consente sempre un colpo al cerchio e uno alla botte. Bisogna guardare da lontano per avere una visione nitida, allontanare l’obiettivo e togliere lo zoom. Il problema si annida nel sistema quando i colleghi, i funzionari più alti in grado, i dirigenti coprono e negano, tacciono e omettono, costruiscono false prove, non provvedono allontanando per sempre i colpevoli dal servizio.

Avere la possibilità di usare legalmente la forza è un potere immenso che, tuttavia, non può essere infinito ma deve trovare dei correttivi, dei limiti istituiti dalla legge stessa.

I numeri identificativi, per esempio, sono uno strumento per porre dei freni, per creare dei confini ai vortici incontrollati della violenza delle forze dell’ordine, alla tracotanza dell’impunità. I numeri identificativi sono un passaggio dovuto per chi è rimasto in vita e non può ancora dare un nome alla propria invalidità permanente (penso a Paolo Scaroni).

E non si provi a giustificare l’opposizione, tutta politica, a questa ipotesi con la salvaguardia degli agenti altrimenti vittime di persecuzioni: avere un codice alfanumerico che riconosce chi è in servizio non è immediatamente rivelatore dell’identità del singolo!

Lo stesso vale per il reato di tortura: una norma che non dovrebbe perdersi in distinzioni sottili sulla quantità o la qualità delle botte e delle violenze subite, ma dovrebbe semplicemente chiamare con un  nome preciso nell’ordinamento giuridico quelle situazioni in cui un pubblico ufficiale infligge una sofferenza – fisica o mentale – alla persona che si trova ad esso consegnata. Servirebbe ad affermare che ciò che avviene nelle questure, nelle celle di sorveglianza, negli ospedali giudiziari non si dà in altre dimensioni spaziotemporali o in luoghi esenti dal controllo.

Dopo la carrellata di morti e pestaggi raccontati a Presa Diretta, le parole del vice capo della Polizia Marangoni sono ulteriori sberle in faccia: è ridicolo evocare la trasparenza e le buone pratiche comportamentali negando l’omertà che sempre ostacola le indagini e non ammettendo la possibilità dei numeri identificativi.

Per i morti lo Stato non può fare più niente, per i vivi potrebbe almeno avere la decenza di compiere questi due piccoli passi di democrazia!