Muore il “guerriero” e “re” dello stato di Israele. La sua una parabola di guerre e potere, da giovane terrorista a generale a capo del governo con un unico rosso filo conduttore: il sangue dei suoi nemici

Ariel, letteralmente “il leone di Dio”, Sharon terrorista, generale e capo dello stato di Israele muore dopo otto anni di coma lasciando un segno, rosso sangue, indelebile nella storia del suo paese e del medioriente.

Un guerriero, più che un soldato; feroce e calcolatore, spitato con i suoi avversari, interni ed esterni, fedele solo a Israele, lo stato, fu un sionista, laico antidealista, la migliore incarnazione delle parole del profeta Isaia quando parlò del destino di Gerusalemme e del suo popolo: “Guai ad Arièl, Arièl, la città dove pose il campo Davide!”.

Ecco un nuovo Davide, moderno forgiatore e conduttore dei destini del popolo di Israele, lo stato, contro ogni sorta di Filistei; un assassino di genti in nome di un etica di stato.

Per questo oggi non piangiamo, se non nel ricordo delle sue vittime.

Riportiamo l’esaustivo contributo di  Christian Elia tratto da Qcodemag.it sulla figura di Sharon:

Missione compiuta

Il confine è un’invenzione dell’uomo. Un limite che può essere imposto, immaginato, scritto e raccontato. L’unico confine che non sia nelle mani e nei progetti degli uomini è quello tra la vita e la morte. Non sempre, però.

Ariel Sharon è arrivato al suo confine il 4 gennaio 2006. Da quel giorno è restato sospeso, tra la vita e la morte, secondo la sensibilità, la spiritualità e le personali convinzioni di ciascuno. Alcuni giorni prima un ictus aveva colpito colui che in quel momento era primo ministro d’Israele; dimesso dall’ospedale, le sue condizioni si erano aggravate fino al tracollo, seguito da un coma vegetativo finito oggi.

In questi otto anni sono cambiate molte cose nel mondo, molte meno in Israele e Palestina. Ne accadono ogni giorno, ma l’occupazione dei territori palestinesi è stata come assimilata dalla diplomazia e dall’opinione pubblica internazionale. Proprio quello che Sharon ha sempre voluto.

La retorica è arte sottile, melliflua. Di fronte alla morte, poi, regala il meglio del suo campionario. Ecco che da giorni, dopo l’annuncio della “morte imminente” diffuso dall’ospedale, si racconta la figura dello statista Sharon capace di ordinare lo sgombero delle colonie ebraiche di Gaza nel 2005. Ultima vera grande iniziativa per sbloccare i negoziati di pace in Terra Santa.

Un’enorme falsità. Perché Ariel Sharon non ha mai lavorato alla pace o alla guerra in una logica di umanità e diritto, ma sempre e solo in chiave strategica. Sharon non ha mai smesso di essere un soldato. Ha sempre agito e pensato da soldato, finalizzando qualsiasi scelta, militare e politica, a un obiettivo da ottenere. Costasse il massacro di migliaia di palestinesi inermi nei campi profughi di Sabra e Chatila in Libano o gli insulti di quei coloni ebrei usati quando servivano e scaricati quando non servivano più.

Sharon non è mai stato neanche un ragazzo. Da adolescente era un terrorista. Perché la lotta per creare uno stato ebraico in Palestina è iniziata quando Ariel Scheinermann (il vero nome della sua famiglia, immigrata in Palestina dalla Lituania al tempo del Mandato Britannico, poi mutato in Sharon), a 14 anni, è entrato nel 1942 nel Gadna,  battaglione paramilitare, e in seguito nell’Haganah, la forza paramilitare ebraica.

Attentati, bombe, civili. Tutto quello che per decenni è stato rinfacciato agli arabi come terrorismo era lo strumento di Sharon e di migliaia di altri ebrei che lottavano per il loro obiettivo. Dopo la Seconda Guerra mondiale, nel 1948, viene proclamato lo Stato d’Israele, gli arabi non accettano, inizia la prima guerra. E I terroristi diventano loro. Sharon, avesse mai potuto dire la verità in un’intervista, avrebbe potuto stupire tutti, ammettendo che conta solo l’obiettivo per chi è nato e morto soldato.

Ferito nel ’48, ufficiale a 21 anni, nei servizi segreti a meno di 25 anni. Una carrier fulminante, perché il soldato Sharon non conosceva l’esitazione della morale, il confine dell’etica di fronte al dolore degli esseri viventi. Contava l’obiettivo e la strategia per raggiungerla. Negli anni Cinquanta comanda, con il grado di maggiore, l’infame Unità 101, specializzata in rappresaglie contro attacchi in territorio israeliano. Rappresaglie che riguardavano le famiglie degli arabi. L’Onu, nel 1953, chiese lo sciogliment dell’unità per la barbarie delle sue azioni.

Nel conflitto del ’56 è già generale, ma la sua ascesa vertiginosa rallenta negli anni Sessanta, quando il leader Moshe Dayan gli preferisce altri generali, anche se combatte anche nel 1967 comandando una divisione corazzata. La sua rivincita arriva nel 1973, quando l’esercito israeliano si fa cogliere di sorpresa dagli arabi, e Sharon viene richiamato di fretta. Serve uno che non ha limiti, che non conosce confini.

La Terza Armata egiziana era sbarcata in Israele, gettando nel panico l’esercito dello Stato ebraico, ma Sharon organizzò un controsbarco sulla costa Africana, marciando fino a mettere i minareti del Cairo nel mirino dei suoi carri.  Venne fermato dalla tregua. Reagì rabbioso, lasciando l’esercito. Non era stato raggiunto l’obiettivo, si poteva porre le basi di un’occupazione che oltre Gaza e la Cisgiordania, occupate nel 1967, potesse comprendere anche il Sinai. Quanto sarebbe costato, in termini di vite umane, al soldato Sharon non importava nulla.

Si butta in politica, un altro campo dove esercitare strategia e tattica, una prosecuzione della guerra con altri mezzi. Ministro dell’Agricoltura foraggia in tutti i modi le colonie illegali, ritenute eccellenti avamposti di controllo e animati da un fanatismo raro. All’inizio degli anni Ottanta è ministro della Difesa. La guerra civile in Libano offre un obiettivo strategico: sgomberare il Libano meridionale dai vertici della resistenza palestinese. E’ un obiettivo, bisogna raggiungerlo, a qualsiasi costo.

Ordina l’invasione del Libano. Di Sabra e Chatila si è già detto, la stessa commissione d’inchiesta ne riconobbe la responsabilità. Sharon diventa un criminale di guerra, ma non c’è alcuna differenza per lui. La considerazione dell’opinone pubblica, ai suoi occhi, era poco più di soffio di vento. Obiettivi, mezzi. Il resto non conta.

Ricopre altri incarichi ministeriali, lavorando al nuovo obiettivo. Come da militare si è fatto politico per non dover più rispondere ai politici, da politico vuole farsi primo ministro, per decidere da solo. Non gli manca il fiuto. Come leader dell’opposizione in Israele, mentre il processo di pace ha prodotto gli inefficaci accordi di Oslo e l’omicidio di Rabin ha chiuso una stagione politica, Sharon vuole tornare alla sua strategia: annientare l’avversario.

Nel 2000 passeggia beffardo sulla Spianata delle Moschee. A Washington stanno per tornare i conservatori, il vento cambierà. Provoca l’insurrezione degli arabi. Vince le elezioni e ne ordina l’annintamento, passando da un crocevia decisive: la riduzione di Arafat, unico vero leader dei palestinesi, a terrorista. Del Premio Nobel del 1995 vuole distruggere tutto, la vita e la forza politica. Lo assedia. Arafat è la sua nemesi, le loro sono vite parallele. Sharon vuole chiudere i conti e gli attachi alle Torri Gemelle del 2001 sono il viatico propagandistico ideale: tutti gli arabi son terroristi. Solo qualche mediazione internazionale lo ferma nell’uccidere il nemico di sempre, assediato nella sua residenza di Ramallah.

Cinge d’assedio tutti i palestinesi, costruendo quel muro di separazione che rende visibile l’apartheid della Palestina. Sfrutta il momento propizio per sancire una situazione di vantaggio strategico che nessun accordo futuro potrà mai più rendere equo. Le donne arabe partoriscono ai check-point, più di 5mila palestinesi perdono la vita, almeno mille israeliani. Non conta, per Sharon. Le pedine sono nel posto giusto. Resta un’ultima cosa da fare.

Gaza. I coloni, sfruttati per anni, vengono abbandonati nel 2005 dal loro mentore. Sharon decide il ritiro unilaterale. La stampa internazionale si affretta a raccontare il grande gesto dello statista, che invece ha un piano perfetto. Gaza e la Cisgiordania si separano per sempre, la Striscia diventa una prigione a cielo aperto. Mai è stata immaginata una vera libertà per i palestinesi di Gaza: non c’era più da temere l’Egitto, si poteva abbandonare al suo destino quella terra povera, per concentrare forze e fondi altrove, dove si realizzerà l’obiettivo si Sharon: il grande Israele, dal fiume Giordano al mar Mediterraneo.

Il suo partito si irrigidisce, lui lo molla e ne fonda un altro. Non servono più, se si oppongono al disegno strategico del capo. Per lui la situazione è perfetta: gli arabi sono divisi, Arafat è ridotto a tragica comparsa, Gaza abbandonata al suo destino, la Cisgiordania è una serie di Bantustan palestinesi che tutto sono tranne che uno stato. Le risorse idriche saldamente sotto controllo.

Il confine della morale si sposta sempre un po’ più in là. Solo un ictus ha fermato il generale Sharon. Se potesse vedere oggi quell che accade a Gaza, dove si moriraà di sete in pochi anni, mentre in Cisgiordania si vive nelle enclavi, con una diplomazia internazionale incapace di fare pressione, con una leadership palestinese in rotta (l’arresto e la condanna a vita a Marwan Barghouti è l’altro tassello di questa frammentazione), il generale Sharon sarebbe contento. Perché l’obiettivo è raggiunto. Costi quel che costi. Da soldato, se ne può andare soddisfatto. Missione compiuta.