Till Sheir, Zahvan, Yumurtalik, Mursitpinar, Karaca. In tutti questi villaggi assistiamo alla stessa scena: uomini, donne e bambini che con un binocolo in mano scrutano l’orizzonte in cerca della propria casa, di capire cosa stia succedendo dall’altra parte del confine.

Abbiamo approfittato della stupenda giornata per cercare di capire come sia la vita nei villaggi di confine, di parlare con le persone che abitano a centro metri dalla guerra, che hanno visto sventolare la bandiera nera e che, ora, vedono invece i loro fratelli, amici, compagni occupare le postazioni che fino a una settimana fa erano in mano ai miliziani del califfato.

La scena è più o meno la stessa: filo spinato, blindati e torrette, persone che cercano di tornare ad una vita normale. I rumori della battaglia non sono del tutto scomparsi, in sottofondo si sentono chiaramente i colpi di mortaio e le raffiche di Duskha, mitragliatrici pesanti montati sui cassoni dei pick-up, ma le persone sono più rilassate, più attente alla vita di tutti i giorni piuttosto che hai movimenti dell’Isis nelle case e nei terreni in fronte a loro.

Percorriamo una strada a venti metri dal filo spinato scrutando l’orizzonte, in cerca dei segni del conflitto, ma quello che vediamo è solo un blindato dell’esercito turco che per un tratto ci segue. Ci fermiamo presso un gruppo di case a pochi passi dal confine e proviamo a parlare con due persone: ci chiedono di non avvicinarci alle loro case, la polizia potrebbe creargli problemi. Chiediamo di loro, di come sia la vita ora che Ypg e Ypj hanno liberato la zona di fronte alle loro case. “Per noi” dice un rifugiato che vive in una tenda appoggiata a un edificio pericolante “non è cambiato poi tanto: non potevamo andare nelle nostre case prima, non possiamo tornarci adesso. L’esercito turco non sta permettendo a nessuno di passare il confine.” Ci indica una casa, oltre confine, in cima a una collina: “Li abitavo io, coltivavo ulivi e avevo un grande terreno. Se fossi rimasto mi avrebbero sicuramente ucciso. La mia casa è distrutta ora, un miliziano dell’Isis si è fatto esplodere all’interno per cercare di uccidere i guerriglieri che vi si erano asserragliati. Non so altro”.

Ci spostiamo più a ovest, tra uliveti e campi appena seminati, e saliamo su una collina dove troviamo un gruppo di uomini che osserva delle auto abbandonate oltre il filo spinato, sempre sotto lo sguardo dell’esercito turco. Saliamo con loro su un rilievo più alto dal quale si ha una vista migliore, ci viene spiegata la situazione: “Il primo villaggio è in mano allo Ypg, mentre quello più avanti è ancora in mano all’Isis”, e ce lo confermano anche i colpi di mortaio che sentiamo esplodere in lontananza. “Mio figlio è autista per lo Ypg, porta i guerriglieri in prima linea. L’ho sentito stamattina e dice che stanno avanzando”. Decidiamo di muoverci, invitati anche dalle urla dei militari turchi, verso l’altra parte del confine, verso est.

La parte ad est di Kobane è quella che ha visto i combattimenti più violenti nel periodo della liberazione e nei giorni seguenti. I bombardamenti della coalizione sono stati frequenti e anche i colpi di mortaio non vengono risparmiati. Questa serie di villaggi, distanti tra loro poche centinaia di metri, sono stati riconquistati negli ultimi giorni, quando la ritirata dell’Isis si è trasformata in una vera e propria fuga. L’atmosfera qui è tranquilla, gli abitanti e i rifugiati ospitati nel villaggio si uniscono a noi nello scrutare i movimenti dall’altra parte. “Guardate, quell’auto è dello Ypg, torna a Kobane. Si incrocia con un’altra, quella invece porta i combattenti al fronte.” Questo villaggio, che era stato visitato dalle precedenti staffette, porta sui muri di fango i segni delle intimidazioni dell’Isis dall’altra parte del confine. Più volte, infatti, è stato aperto il fuoco sul villaggio. Ora invece qui la situazione è tranquilla, anche se ci avvertono di stare attenti a scattare fotografie, l’esercito turco infatti non gradisce la presenza di giornalisti a pochi metri dal confine e tende ad allontanarli malamente.

Le persone con cui parliamo ci raccontano la promessa del governo turco di far rientrare i rifugiati siriani entro dieci giorni. “Ci credete?” chiediamo noi, “Sì!”.

Chiara, Fano, Marco e Momo da Pirsus (Centri sociali del Nord est – Rojava Calling)