21 / 6 / 2013

E’ cominciato tutto con un post su Facebook di una madre disperata. La sua figlia di tre mesi, Belmina, aveva bisogno di un urgente trapianto del midollo osseo che però poteva essere fatto solo all’estero, in Germania. La legge sui numeri di identificazione personale però non era stata ancora approvata per cui i neonati non potendo avere il codice non potevano nemmeno ottenere il passaporto e l’assicurazione sanitaria.

Infatti a febbraio, la Corte Costituzionale ha sospeso la legge sui nuovi numeri d’identificazione personale per i cittadini di Bosnia Erzegovina perchè all’interno della normativa, per alcuni comuni appartenenti all’entità serba, veniva mantenuta la doppia denominazione, quella serba e quella bosniaca in vigore prima della guerra e poi ufficialmente abbandonata.

Una situazione tipicamente bosniaca, si direbbe. Una bambina malata. Un sistema sanitario malfunzionante. Un parlamento diviso tra formazioni politiche croate, musulmane e serbe che non riesce mai a trovare un accordo per permettere ai malati di andare a curarsi all’estero.

La storia di Belmina è finita sui media nazionali cosa che ha spinto un piccolo gruppo di genitori di ritrovarsi, il 5 giugno davanti al Parlamento bosniaco a Sarajevo. La notizia ha fatto il giro del paese in poche ore, grazie sopratutto ai social network e internet e il giorno dopo circa 3000 manifestanti hanno creato una catena umana intorno al palazzo imprigionando di fatto centinaia di parlamentari e funzionari al suo interno. Spinti dalla propria convinzione, dall’inefficienza della classe politica e anche dalle immagini provenienti dalla Turchia hanno deciso di non far uscire nessuno finchè non venisse approvata la nuova legge sui codici di identificazione personale. Un vero e proprio assedio al Parlamento, durato tutta la notte al quale ha partecipato anche il sindaco di Sarajevo e che ha portato a un decreto tampone della durata di 180 giorni che consentirà a tutti i nuovi nati di avere un codice personale.

Il decreto non è bastato a calmare la piazza anzi la protesta si è diffusa a macchia d’olio in tutto il paese. Con il passare dei giorni aumentava il numero dei manifestanti a Sarajevo, ma anche a Mostar, Tuzla, Banja Luka la gente scendeva in strada contro una classe politica corrotta, la situazione economica sempre più pesante, per la costruzione di un fondo di finanziamento per la cura dei cittadini bosniaci all’estero attraverso una riduzione dei stipendi dei parlamentari del 30%. La storia di Belmina in realtà è stata la miccia che ha acceso la rabbia di una popolazione governata da più di vent’anni da una classe politica che utilizza la divisione su base nazionalistica ed etnica solamente per mantenere i propri interessi e la propria posizione di potere.

Per la prima volta dopo la fine della guerra a manifestare in piazza ci sono serbi, bosniaci e croati insieme, tutta la generazione post-guerra ha trovato il denominatore comune nel rifiuto di una classe politica corrotta, inefficiente e arrogante.

La bambina nel frattempo è morta e questo ha provocato una rabbia ancora più grande portando il 18 giugno in piazza a Sarajevo più di dieci mila persone, supportati anche da famosi cantanti, gruppi musicali e attori bosniaci.

Il simbolo delle proteste è un ciuccio con il pugno chiuso, nuova icona della stagione europea di occupy. In Bosnia si comincia finalmente a respirare una aria nuova, una voglia di cambiamento che si vede negli occhi e nella determinazione delle migliaia di giovani, genitori, pensionati che riempiono le piazze di un paese che forse vede l’inizio di una primavera bosniaca.