TUTTI UOMINI DEL PRESIDENTE? Tra tragedia, farsa e strategia.

A cura dei Centri Sociali Nordest, Centri sociali delle Marche, Coalizione dei centri sociali Emilia Romagna

29 / 4 / 2013

 

Dietro alle movenze un po’ farsesche di quella che viene rappresentata come la “tragedia italiana” e che avrebbe come protagonisti i partiti ormai incapaci nel dare dignità e responsabilità alla democrazia, in realtà si consumano operazioni politiche che accelerano una traiettoria precisa, tutt’altro che casuale.

Il Napolitano bis è l’essenza, innanzitutto, di una risposta autoritaria e di chiusura di fronte ad una richiesta di cambiamento di rotta che viene dal basso, da un corpo sociale ampio e variegato e che le recenti elezioni politiche hanno registrato. Lo stesso Governo Letta, così come è stato voluto e presentato dal Presidente, nonostante alcune operazioni d’immagine sulla sua composizione che dovrebbero accreditarne un carattere di pseudo-cambiamento presso l’opinione pubblica, si rivela invece un’operazione politica strategica calibrata sul tentativo che la prospettiva conservatrice guadagni un respiro politico-istituzionale di medio-lungo periodo.

Questa è la premessa per ogni altro ragionamento sulla situazione politica italiana, ed è a partire da questo dato di fatto che si guarda anche a ciò che accade nell’Europa della governance finanziaria. Eliminiamo quindi di torno due mistificazioni tra le tante che servono a costruire lo scenario, che come per ogni rappresentazione teatrale, farsa o tragedia che sia, è parte fondamentale dell’inganno dello spettacolo: la prima, che quello che è accaduto attorno all’elezione del Presidente della Repubblica, sia solo il risultato di una concatenazione di situazioni casuali e impreviste, gestite da un ceto politico (quello PD in particolare) pasticcione e autolesionista; la seconda, che ciò avvenga in Italia, e sia uno specifico tratto di una crisi nazionale che rende plastica l’inadeguatezza della politica nostrana al cospetto dell’Europa. Niente di tutto questo. Anzi, il contrario.

La strategia di quelli che potremmo chiamare i poteri forti o della conservazione, che mai come ora rivelano il loro carattere liquido e trasversale rispetto agli schieramenti parlamentari, è maturata in una serie di passaggi precisi, e dunque non è ascrivibile, come ci vogliono far credere i templari dello Stato, da Scalfari a Franco, ad un adattamento postumo alle inadeguatezze del sistema dei partiti o di quello elettorale. Ed è direttamente legata ad un’idea di Europa che ha il suo fulcro nel board della Bce.

E’ una strategia che trova il suo momento fondamentale nel rifiuto di indire le elezioni dopo la caduta del governo Berlusconi e nell’imposizione per via presidenzialista del governo Monti. Alla fine persino il fatto che oggi, nella seconda fase avviata con l’elezione del capo dello Stato, dopo un paradossale “giro” di nomi e di schermaglie parlamentari, si sia tornati alla casella iniziale rende bene l’idea di un unico copione, nel quale gli attori protagonisti ritornano come in un sequel.

Ogni strategia è messa in campo contro un nemico.

Chi è il nemico, il pericolo, per coloro che senza vergogna oggi si sono distinti nel portare a termine il secondo passaggio?

Il cambiamento, cioè la risposta agli effetti sociali della crisi, che come ogni crisi modifica in peggio le condizioni di vita materiali delle persone, e determina anche uno sgretolamento dei legami di subordinazione stratificati dai sistemi di cattura del consenso. La gente comincia ad andare dove non è consentito, cerca risposte, giuste o sbagliate che possano rivelarsi, ma lo fa a prescindere e spesso contro ciò che è costituito. Basta pensare ai referendum sui beni comuni e contro il nucleare nel giugno 2011: un segnale che gli strateghi della conservazione non hanno sottovalutato, evidentemente. E poi all’esito elettorale. Dietro a tutta la retorica profusa dai rituali istituzionali sul rispetto della volontà degli elettori, e in mezzo agli avvertimenti allarmati dei soliti templari sulle derive pericolose per la democrazia, ha agito, seppur in diverse forme e con modalità differenti, la medesima volontà di fermare, destrutturare, manipolare la grande richiesta di cambiamento che poneva al centro dell’agenda politica la fine delle politiche di austerity, l’applicazione del rigore non ai cittadini tartassati e indebitati, ma alla casta dei partiti, delle istituzioni, dei privilegiati della politica professionistica e del mondo degli affari, la ridistribuzione della ricchezza sempre più polarizzata nella crisi.

La strategia è questa, ed è molto pericolosa per tutti: quando parliamo di “svolta autoritaria” non guardiamo a scenari e formule del passato, non vediamo alcun processo di “fascistizzazione dello Stato” dietro l’angolo. Intendiamo invece dire che la democrazia rappresentativa non è solo in crisi, ma che le sue forme e procedure sono state sostanzialmente stravolte. Si passa ad una forma di gestione del potere che è post-democratica, proprio in linea con la strategia europea.

Come non ricordare la Grecia, la Troika, la negazione del referendum proposto da Papandreu mentre le strade bruciavano?

Come non pensare alla Spagna, ad un governo commissariato e senza alcuna legittimazione popolare che risponde blindandosi dall’assedio della gente?

Nell’Europa del sud, ma abbiamo anche cominciato a parlare di una comune condizione euro-mediterranea comprendendo anche i paesi del Maghreb e Mashrek, quello che accade è pericolosamente omogeneo dal punto di vista del potere.

Napolitano nel suo discorso “della Corona” ha recitato una parte inquietante : ha fatto le lacrime tipiche di un fanatico dello Stato, uno per il quale in nome e per conto della salvezza del sistema, si possono spianare le vite di milioni di persone. Sempre conservatore, sempre “dalla parte sbagliata”: un po’ come quando appoggiava i carri armati sovietici che spianavano l’insurrezione ungherese, o come quando, solo ventidue anni dopo, era l’unico dirigente Pci ammesso a colloquio con i think tank USA, spiegando come in Italia si stavano liquidando le lotte operaie e i movimenti sovversivi. Poi ha affermato che quello che stiamo tutti guardando corrisponde già ad una modificazione costituzionale, votata da nessuno, ma operativa per imposizione diretta. Presidenzialismo, cioè diretto legame tra elezione del presidente della repubblica e composizione politica del governo.

Il terzo punto è stato dedicato al “pericolo eversivo”. Tradotto significa che gli spazi per una contestazione, un dissenso, un conflitto sociale che siano davvero efficaci, non ci sono. Non sono ricompresi da alcuna dinamica democratica, perché la post-democrazia si caratterizza anche per questo. Per l’ impossibilità di ricomprendere al suo interno quei sommovimenti sociali che mettano in discussione l’assetto del sistema. Quella che appare sulla carta come una contraddizione, come un ossimoro “la governance autoritaria”, trova fondamento invece come la più avanzata espressione della forma post-democratica.

Governance infatti come spostamento del baricentro dell’emanazione dei dispositivi di governo: si allarga lo spettro degli attori del governo della cosa pubblica ad una serie di entità, in primis quelle agenzie del debito chiamate istituti finanziari e banche, che di fatto imprimono le traiettorie delle decisioni politiche, allo stesso tempo si concentrano verso l’alto i poteri, escludendo forme di partecipazione orizzontali e più in basso, a partire dal parlamento. Ecco la risposta che si vorrebbe dare alla crisi dei partiti come corpi intermedi: non una messa in discussione del sistema della rappresentanza per rispondere della sua inadeguatezza democratica, ma una torsione oligarchica come soluzione necessaria. Tuttavia le caratteristiche di governance non possono fare a meno della ricerca spasmodica e continua di legittimazione, per quanto autoritaria sia la loro natura e sostanza. L’empatia creata attorno all’elezione del Presidente è e sarà un buon carburante per le accelerazioni post- democratiche. Il suo presentarsi come risolutore, obtorto collo, dell’impasse creato da partiti “irresponsabili” divorati dai loro giochi di potere più che protesi a “risolvere i problemi della gente”, gli attribuisce un’investitura “popolare” che ne amplia i margini di operatività e consolida il passaggio presidenzialista attribuendogli il fondamento di un dato già maturato nella “costituzione materiale” del Paese.

La costruzione della paura, come fu al tempo dello spread per Monti, è sempre alla base di ogni operazione politica. Uno stato dell’emergenza che ben conosciamo: di emergenza in emergenza l’eccezione è diventata regola. L’utilizzo e la manipolazione degli effetti della crisi sulla società, degli istinti, del panico, finanche della speranza, che contraddistingue la formazione della sovranità contemporanea, somiglia molto a ciò che accade nei mercati finanziari: i rumors, gli shock, le voci e gli scenari prefigurati e fatti circolare ad arte, sono parte integrante e fondamentale del meccanismo di valorizzazione capitalistica.

L’obiettivo è quello dunque di consolidare il più possibile sistemi post democratici di governance autoritaria, possibilmente in grado di essere acclamati dal popolo piuttosto che imposti ad esso.

 

 

Autonomia di movimento

Rispetto a tutto ciò i movimenti che agiscono in autonomia dalle istituzioni, devono rafforzare la capacità di mantenere aperti spazi per il conflitto sociale, la resistenza ai processi di inasprimento delle condizioni di vita, la riappropriazione di quote di ricchezza socialmente prodotta in forma di reddito e la conquista di nuovi diritti, legittimando nuove pratiche di rottura della cornice di legalità della governance autoritaria e post-democratica. Non vi è altro modo, in questo Paese ed ovunque, di intendere il cambiamento sociale, se non quello di legarlo a processi di lotta che siano immediatamente pratiche costituenti.

Il cambiamento non si potrà mai ottenere solo pensando di sostituire tramite elezioni, le persone, passando da una banda di corrotti a un drappello di onesti. Senza nulla togliere al ragionamento, sacrosanto, sulla casta (e senza dimenticare mai come, oltre a quella partitica, vi sia una vera e propria oligarchia della rendita parassitaria), e senza attenuare di un soffio la critica e la delegittimazione dell’odierna composizione del sistema della rappresentanza, sarebbe illusorio nascondere il fatto che sein questo paese non si innescano meccanismi di contrapposizione dura, radicale, di piazza, tra corpo sociale e potere, nulla in fondo potrà cambiare seriamente. Anche gli effetti di una crisi strutturale, sistemica, possono essere riassorbiti velocemente se non si creano rotture non compatibili. Ma ovviamente, sempre per non essere carburante per il consenso all’autoritarismo, non si può non pensare alla natura costituente dello scontro, pena la sua irrilevanza ai fini del cambiamento. Tuttavia è il momento di forzare, con intelligenza, ma anche con determinazione.

E’ il momento di porsi il problema di praticare gli obiettivi interrogandosi collettivamente e liberamente su quali siano i modi e le forme più efficaci perchè è proprio sull’efficacia che si misura l’adeguatezza nel tempo di uno strumento, ovvero il suo essere “nuovo”, cioè utile, o “vecchio”, cioè inefficace o addirittura controproducente.

In questo quadro il fatto che sia giusto ribellarsi non può metterlo in discussione nessuno. Che sia giusto farlo riprendendo un’agibilità di una piazza ultimamente fin troppo pacificata, anche a causa di grandi errori e piccole miserie delle organizzazioni di movimento, nemmeno.

Come far diventare pratica costituente la forzatura questo è il problema.

Come far assumere ad un comportamento le qualità di un discorso, di una pratica del comune che si propone ad un intero corpo sociale, è l’obiettivo di una ricerca collettiva.

Dovrebbe questo essere la base di una naturale e sana propensione alla ricomposizione della soggettività, facendo piazza pulita dei giochini idioti sul posizionamento tattico e puntando invece su una concretezza dell’azione condivisa e praticata.

L’autonomia di movimento oggi è un dato fondamentale. Ed è autonomia nella pratica e nella qualità della proposta. Le due cose vanno insieme.

 

La costituente dei beni comuni

E’ evidente che lo spazio pubblico di movimento è la condizione necessaria per poter trasformare la pratica soggettiva in discorso politico pubblico. Ed è altrettanto evidente che questo, attualmente, manca.

Abbiamo avuto cicli di lotta e fasi storiche e politiche caratterizzate dall’esistenza di questo spazio, ovvero della traduzione dei mille modi di essere movimento e in movimento in luogo e discorso politico pubblico e comune. Per una serie di ragioni da un bel pezzo questo non c’è.

Non significa che non ci siano forme e modi diversi di cercare di costruirlo, ma di certo è importante ribadirne la funzione. Non solo le sue capacità di essere momento, sempre in verifica come abbiamo imparato, di ricomposizione, ma anche, e questo è l’aspetto da sottolineare, motore di aggregazione e formazione di nuova soggettività.

E’ uno spazio pubblico quello di cui parliamo che dunque non si ferma semplicemente, anche se nelle condizioni attuali non è certo poco, al tentativo di determinare interesse pubblico, e quindi attenzione e consenso nell’opinione diffusa, ma agisce sul vuoto enorme lasciato dalle macerie della democrazia basata sulla rappresentanza partitocratica.

E’ una “istituzione del comune”, che per sua natura si colloca fuori dalla logica dell’intergruppi ed oltrepassa anche gli spazi temporanei ed intermedi che nascono dalle convergenze di scopo dettate dalle necessità contingenti di una lotta o di una specifica campagna.

Attorno al tema dei beni comuni, e in particolare al percorso della costituente dei beni comuni che ha avuto come sua prima tappa l’appuntamento romano del Teatro Valle, possono svilupparsi le caratteristiche oggi dello spazio pubblico di movimento.

E’ un investimento che va fatto in termini di energie, disponibilità, protagonismo. E attorno al tema dei beni comuni che può coagularsi quel programma di alternativa radicale che dal reddito al territorio, dall’ecologia ai diritti, rappresenta l’accumulo e la potenza progettuale delle lotte che stiamo vivendo in questo periodo. Ma non solo.

E’ attorno al tema dei beni comuni che si aggredisce la subordinazione alla quale i dispositivi di governance condannano il vivere collettivo.

E’ attorno a quel paradigma che si è sviluppato il discorso sulla fine dell’egoismo neoliberista a favore di una economia del valore d’uso, solidale e cooperante.

E’ da lì che è nato il ragionamento sull’oltrepassamento della dicotomia complice di “pubblico e privato” che è il fondamento del sistema capitalistico e delle sue strutture di governo. I beni comuni sono il paradigma del superamento, finalmente a sinistra, del Novecento. E non è un caso che il nome di un signore come Stefano Rodotà, che non ha una biografia da rivoluzionario, ha coagulato su di sé in questi giorni, aspettative che andavano ben oltre quelle di un’elezione. La costituente dei beni comuni può essere in questa fase lo spazio pubblico di movimento a cui tutti contribuiamo.

 

L’opposizione parlamentare.

Per ultima affrontiamo la questione dell’ “opposizione parlamentare”. Da osservatori di ciò che accade in termini di contraddizioni del sistema dei partiti e della rappresentanza in crisi, non si possono non fare alcune considerazioni. Con l’elezione del capo dello Stato si è consumato un passaggio importante nella definizione di una governance autoritaria, un passaggio reso possibile dall’intreccio di poteri ed interessi che pur muovendo da diverse dislocazioni ed esprimendosi in diverse forme, hanno trovato efficace convergenza nella risultante politico-istituzionale che oggi detta condizioni e prospettive per il governo del Paese. Tale passaggio, nonostante la sua profonda trasversalità e l’ampiezza della sua latitudine politica, non è riuscito a saturare integralmente lo spazio istituzionale: i grandi cambiamenti, tantopiù se realizzati in un ristretto spazio temporale, lasciano fuori delle variabili, che possono essere d’intralcio all’operazione in atto. In questo caso la variabile sul campo istituzionale è rappresentata da un’area politico-parlamentare che va da Grillo a Vendola. A differenza, però, di quanto verificatosi in contesti precedenti, questa volta la variabile destinata ad essere marginalizzata fuori dal campo governativo ha dimensioni considerevoli e caratteristiche fluide all’interno delle quali possono anche determinarsi profonde e repentine trasformazioni. Tutto questo tenderà a produrre contraddizioni sia sul versante delle politiche governative sia sul versante interno alla variabile stessa. Dal punto di vista delle politiche governative e delle strategie di messa a punto dei dispositivi di esercizio della governance autoritaria tale variabile rappresenta un “fattore di rischio” non tanto perché sembri in grado di bloccare l’operazione complessiva, quanto, piuttosto, perché può sempre determinare specifiche precipitazioni, lavorando sulle contraddizioni latenti nel quadro politico o assumendo su specifiche tematiche il ruolo del by pass tra le dinamiche parlamentari e quelle sociali.

E’ importante anche cercare di capire le evoluzioni di una opposizione al governo del Presidente che non potrà giocare sé stessa semplicemente nella forma partito tradizionale che, come dimostra il movimento di Grillo ed il consenso che attrae, risulta sempre meno adeguata.

Se la direzione presa da questa opposizione sarà quella di appoggio alle lotte e ai conflitti sociali (come accaduto nel caso della Val di Susa), senza pretendere di violarne l’autonomia o di assumerne la rappresentanza, e se sarà in grado di essere un veicolo di critica reale ed attiva al governo delle larghe intese, questo aiuterà a divaricare le contraddizioni e ad allargare gli spazi di azione. Di certo però, come abbiamo potuto osservare il giorno della “marcia su Roma” lanciata da Grillo, non è sul terreno della piazza che troveremo aiuti, anzi.

Ma è altrettanto vero che difronte ad una accelerazione dei processi di trasformazione in senso autoritario della governance, premessa di un inasprimento repressivo e di una chiusura ulteriore degli spazi di democrazia, dobbiamo porci il problema del ruolo che possono giocare gli spazi di non omogeneità e di dichiarata aperta opposizione ai diktat post democratici, anche quando questi si determinano su piani diversi da quelli agiti direttamente dai movimenti.

Per il resto stiamo a vedere. Siamo sempre convinti che i cambiamenti reali e profondi della società non sono mai il frutto di un agire isolato su un unico piano o di un’unica sapiente regia che sin dall’inizio conosce tutte le tessere del puzzle e sa come metterle per ottenere il risultato finale. I cambiamenti sono il frutto di una molteplicità di fattori, alcuni casuali ed imprevisti ed altri persino nati da premesse lontane dal risultato finale, che combinandosi tra loro riescono ad esprimere una reale potenza trasformatrice. Ed è proprio in questo combinarsi di elementi e di molteplici fattori che è chiamata ad agire l’intelligenza collettiva, anzi “comune”, con la sua capacità, sempre rinnovata negli spazi pubblici che riusciamo a costruire, di proporre un “discorso” in continua evoluzione, mai chiuso nel dettato precostituito, mai concluso con qualche frase ad effetto, ma sempre pronto a trasformarsi per poter trasformare.

Perciò, siccome noi, dal basso da fare il nostro ne abbiamo a sufficienza, non ci perdiamo a dire ad altri, che agiscono su piani diversi dal nostro, che cosa debbano fare. Ma osserviamo attenti e senza alcuna arroganza.

Centri sociali Nord Est

Centri sociali delle Marche

Coalizione centri sociali Emilia Romagna