Lungo la linea del Furore
- di Francesco Raparelli
Il capolavoro di Steinbeck tradotto integralmente, lettura fondamentale per afferrare l’epoca nella quale siamo immersi
E diffida del tempo in cui gli scioperi cessano mentre i grandi proprietari sono ancora vivi – perché ogni piccolo sciopero soffocato dimostra che il passo è in atto.
La stampa progressista e gli economisti neo-keynesiani non si stancano di dividere, nel descrivere il nostro tempo, il capitalismo “buono” da quello “cattivo”: da una parte i produttori, dall’altra la rendita finanziaria, gli speculatori. I banchieri diventano «banksters», banditi o parassiti, un pericolo per la società, lo sviluppo, la legalità e la democrazia. Secondo queste retoriche, la società non porta più con sé fratture di classe, tutto è capitale (la forza-lavoro diviene «capitale umano»), tutti sono produttori. Tutti tranne i banksters. È la speculazione finanziaria senza regole, l’1%, ad avercela con la società e a far saltare il compromesso politico, le istituzioni democratiche, la gestione dello sviluppo.
Non ho dubbi, la discontinuità neoliberale all’interno della storia del capitalismo, che si è affermata negli ultimi trent’anni e che si è approfondita/rafforzata senza posa con la crisi esplosa nel 2008, non è semplicemente assimilabile agli eventi del passato. La combinazione tra finanza, economia del debito, produzione (e produzione di soggettività), è un fenomeno senza precedenti. Così come lo sono l’estensione globale dei processi di valorizzazione, sempre più di natura estrattiva, e la metamorfosi del lavoro vivo. Eppure, contro chi scopre solo oggi la cattiveria delle banche, varrebbe la pena ricordare il capitolo ventiquattresimo del I libro del Capitale di Marx. Pagine attualissime in cui il rivoluzionario di Treviri chiarisce il ruolo decisivo svolto dal debito pubblico e dalle banche nella nascita del capitalismo, la «cosiddetta accumulazione originaria», appunto.
Semmai varrebbe la pena indagare come quel peculiare e violentissimo fenomeno che Marx definisce anche «peccato originale economico», durante le grandi depressioni, riconquisti la scena. Leggere per la prima volta il capolavoro di Steinbeck, Furore (The Grapes of Wrath, 1939), o rileggerlo, essendo stato finalmente, a oltre settanta anni dalla prima edizione italiana (1940) fortemente censurata, integralmente tradotto, può essere fondamentale per avviare/approfondire questa indagine. Una lettura avvolgente, che non lascia scampo. Un romanzo di inchiesta militante, con uno stile potente, a volte lirico, sempre politico, di parte.
A Steinbeck non sfuggì che la catastrofe naturale, il Dust Bowl, le tempeste di sabbia che colpirono gli Stati Uniti centrali agli inizi degli anni ’30, non fu l’unica causa del grande esodo che coinvolse mezzo milioni di americani. La sabbia rende le terre improduttive, i mezzadri si indebitano con le banche, fin quando non si passa il segno, si diventa insolventi, e le banche rilanciano introducendo i trattori e cacciando con violenza gli insolventi. Steinbeck è lì, oltre mezzo secolo dopo Marx, nel pieno della Grande Depressione inaugurata dai collassi borsistici del ’29, a raccontarci la violenza del debito, lo spossessamento, le migrazioni forzate, la produzione di centinaia di migliaia di nuovi poveri.
Eh già, anche Steinbeck, come Marx, afferrò la verità del pauper: colui che non ha altro da vendere se non se stesso, meglio, la propria forza-lavoro. Poveri sono i Joad, protagonisti di Furore, che perdono casa e terra e che si mettono in viaggio per raggiungere la California, dove le paghe sono alte, o così dicono i volantini, dove ricominciare da zero. L’esercizio della frontiera, fenomeno dallo stesso Marx censito e ritenuto potente dispositivo di lotta dei proletari americani, si ripresenta in forme drammatiche. Facendo esodo, in questo caso, non si conquistano paghe complessivamente migliori (dovute alla rarefazione della forza-lavoro disponibile). Un nuovo statuto della proprietà e nuovi macchinari si impongono; semmai, per chi fugge dall’Oklahoma, dal Kansas, dal Texas, e raggiunge tra mille stenti la California, vale la durissima regola del sovrappopolamento: in troppi, disperati, per la raccolta di frutta o di cotone. Troppi e allora le paghe scendono, e scendono, e ci si scanna per lavorare accettando qualsiasi condizione.
I Joad sono migranti che fuggono dall’Oklahoma, Okies, come vengono definiti in modo dispregiativo in California, ma già prima, lungo la “mitica” Route 66, tra le prime highway americane. Quanto razzismo nei loro confronti, e come non cogliere la combinazione costitutiva tra sfruttamento e razzismo. Sei sporco e povero, meglio, sei stato ridotto così (ma le cause non contano), dunque costerai poco, la tua forza-lavoro non vale niente. La questione che conta nel razzismo, oggi come al tempo diFurore, è sempre la stessa: comprimere al minimo i salari, rendere docili i lavoratori, sfruttare oltre misura la loro forza-lavoro.
Viene da chiedersi: cosa racconterebbe, nel 2014, uno Steinbeck europeo? Non ho dubbi: sarebbe sui barconi che solcano il Mediterraneo, a Lampedusa, nei CIE, tra i lavoratori della logistica. Ma ancora: seguirebbe le rotte dei “poveri di secondo grado”, la lost generation di Italia, Grecia, Spagna e Portogallo, in fuga dalla disoccupazione di massa, dalla precarietà, dalle sotto-retribuzioni. Consapevole – perché Furore ribadisce fino in fondo questa consapevolezza – che nella crisi, sotto i colpi violenti della rinnovata accumulazione originaria, coesistono e confliggono egoismo aggressivo e generosità eroica, invidia generalizzata e solidarietà dirompente.
Ma Steinbeck, in verità, è ancora da conquistare. Non si è limitato allora, non potrebbe limitarsi oggi, quando il neoliberalismo fa del «peccato originale economico» una regola, a raccontare lo spossessamento e le migrazioni forzate, la povertà e l’esodo. Prima che il finale del libro ci faccia battere il cuore senza sosta, le parole di Tom Joad, nel suo travolgente commiato dalla madre, dipingono un divenire-rivoluzionario, un’etica del comune, che ancora fatichiamo a fare nostra, stretti come siamo nei ripari delle identità antagoniste:
“Be’, magari è come diceva Casy, che uno non ha un’anima tutta sua ma solo un pezzo di un’anima grande… e così…”
“E così che, Tom?”
“E così non importa. Perché io ci sarò sempre, nascosto e dappertutto. Sarò in tutt’i posti… dappertutto dove ti giri a guardare. Dove c’è qualcuno che lotta per dare da mangiare a chi ha fame, io sarò lì. Dove c’è uno sbirro che picchia qualcuno, io sarò lì. Se Casy aveva ragione, be’, allora sarò negli urli di quelli che si ribellano… e sarò nelle risate dei bambini quando hanno fame e sanno che la minestra è pronta […]”
Saremo mai all’altezza?
da: dinamopress.it