Periferizzare l’Europa
Dichiarazione conclusiva dell’incontro Peripheralizing Europe, che si è tenuto dal 30 luglio al 2 agosto a Žeimiai in Lituania. La dichiarazione è stata redatta al termine dell’incontro dal gruppo organizzatore e da alcuni partecipanti.
Tra il 30 luglio e il 2 agosto attiviste e attivisti, ricercatrici e ricercatori, accademiche e accademici provenienti dalle periferie dell’Europa dell’est e del sud si sono riuniti a Žeimiai in Lituania per discutere del contesto politico attuale e delle pratiche organizzative nelle periferie dell’Europa. All’incontro hanno partecipato circa 40 persone provenienti da 20 paesi, principalmente della periferia dell’UE. L’incontro, organizzato da Murmurae (piattaforma transdisciplinare di facilitazione, Barcellona), Egzilis (collettivo anarchico, Kaunas) e LeftEast (rete di ricerca orientata sui paesi post-socialisti), ha riunito persone di varie provenienze, orientamento politico ed età.
Insieme abbiamo realizzato una mappa dei nostri rispettivi contesti, delle poste in gioco e delle strategie di collettivi e organizzazioni da cui stanno sorgendo movimenti sociali resistenti. Abbiamo approfondito differenze e punti comuni alle periferie del sud e dell’est fino ad arrivare a un’analisi condivisa, a un quadro concettuale e a un orizzonte di lotta comuni. I nostri punti fermi sono stati il riconoscimento e il sostegno reciproco. La trasversalità dell’incontro ha permesso di produrre uno spazio di ascolto, attenzione, generosità e solidarietà critica. Con questo si sono poste le basi per ulteriori impegni, azioni e analisi micropolitica.
Le periferie continuano ad assorbire gli effetti più brutali della crisi dell’Europa. I margini dell’Europa sono in fiamme, non solo per il rapido degrado (Portogallo, Italia, Grecia, Spagna – PIGS) e la povertà normalizzata (a Est), ma anche per le persone che cercano di attraversare il mare e i campi minati e di superare muri e recinzioni, in fuga il più delle volte dagli effetti delle politiche dell’imperialismo e neocolonialismo occidentali.
Chiamiamo periferizzazione il processo di produzione di margini attraverso l’assoggettamento a un centro. In altri termini, la trasformazione di luoghi e regioni in spazi di riproduzione a profitto del centro. Nei nostri paesi ciò ha significato, negli ultimi 40 anni, la distruzione dello stato sociale, la creazione di forza lavoro migrante e altamente sfruttabile, la distruzione delle capacità dei territori delle periferie di sottrarsi all’integrazione al neoliberalismo, come pure il tentativo di renderli competitivi attraverso la concorrenza su salari, tasse e diritti sociali.
Il nostro appello a rendere periferica l’Europa mira alla possibilità di abbandonare quello spazio riproduttivo e le sue conoscenze per sovvertire i rapporti di potere esistenti. Rendere periferica l’Europa significa rifiutare la prospettiva sviluppista che presenta il centro come il futuro cui la periferia deve aspirare. Significa riconoscere la centralità della periferia e costruire lotte e resistenze a partire dalle conoscenze, pratiche e reti dai margini. Significa riconoscere che lo stesso centro contiene al suo interno anche delle periferie, con regioni e gruppi sociali coi quali ci riconosciamo soggetti alla stessa logica di emarginazione.
Per rendere tutto ciò realtà abbiamo identificato una serie di azioni e processi chiave. A partire dalle periferie orientali e meridionali dobbiamo continuare a:
→ tradurre conoscenze dai paesi post-socialisti e mediterranei
→ facilitare incontri che partono dalle crisi e dalle prospettive delle periferie
→ ripensare le nostre relazioni con l’Unione europea a partire da lì
→ rafforzare le reti regionali, specialmente all’est
Il passato dei Paesi baltici e dei Balcani sta diventando il presente di Portogallo, Italia, Grecia e Spagna. Il dolore dell’epoca dell’austerità fa eco alle esperienze della «transizione» nell’est europeo. La storia non si ripete completamente, ma certe strategie violente di trasformazione vengono applicate di nuovo. Le politiche del debito, i sacrifici e l’aggiustamento strutturale imposti nel contesto post-socialista a partire dagli anni ‘90 (e anche da prima) offrono esperienze da cui Portogallo, Italia, Grecia e Spagna possono trarre lezioni utili per il presente.
Oggi osserviamo due processi di transizione particolarmente violenti in Grecia e in Ucraina. Dobbiamo affrontare di petto queste situazioni, senza permettere che il ricatto finanziario o la militarizzazione creino un clima di paura nell’Europa dell’est o in Portogallo, Italia, Grecia e Spagna. La violenza necessaria all’integrazione di un territorio al capitalismo neoliberale spesso funziona come mezzo per distruggere la capacità di questo territorio di sottrarsi a tale integrazione, rendendola irreversibile. Che cosa è possibile imparare dalle esperienze dell’Europa orientale e meridionale?
Sono emerse diverse questioni. È possibile confrontare le guerre jugoslave degli anni ‘90 con lo scoppio della guerra in Ucraina, entrambe iniziate esattamente nell’imminenza dell’integrazione al mercato europeo? Che paralleli sussistono tra il modo in cui il governo di sinistra di SYRIZA in Grecia è stato forzato alla sottomissione e alla dipendenza, e la maniera in cui i futuri possibili nell’Europa dell’est sono stati distrutti con lo smantellamento delle forme di mutualismo, proprietà pubblica e organizzazione sociale che godevano di grande legittimità popolare?
Alla luce di sviluppi recenti è ormai evidente per tutti che l’UE non è il garante di democrazia, pace, diritti umani che era stato venduto ai paesi post-autoritari dell’est e del sud come modello di progresso. La crisi ha anche svelato in maniera brutale i pericoli di fare dell’UE l’orizzonte privilegiato dei nostri desideri politici. Ciò costituisce uno stimolo a orientarci in direzione di nuove alleanze e solidarietà all’interno, contro e oltre l’UE, come pure di nuove istituzioni e di nuove nozioni di diritti.
Le politiche della paura e la tecnocrazia finanziaria paternalistica combinate con l’aggiustamento strutturale e la militarizzazione si manifestano diversamente nelle due periferie dell’Europa intesa come Eurozona. Ciononostante, invece di riconoscere i punti comuni, spesso ci troviamo – in ciò aiutati dai media – ad attribuire gli uni agli altri posizioni diverse nelle graduatorie di civiltà, attraverso accuse di pigrizia, incompetenza amministrativa e corruzione. Questo ha un ruolo nelle nostre risposte alle politiche di austerità: la produzione di orgoglio nei paesi dell’est che hanno «tirato la cinghia» senza lamentarsi, o la riluttanza a mostrarsi solidali con Portogallo, Italia, Grecia e Spagna perché non c’è stata nessuna solidarietà nei confronti dell’est durante i cicli di crisi precedenti.
Di fronte alla necessità di formulare un quadro concettuale e un linguaggio condivisi per pensare condizioni ed effetti comuni, abbiamo analizzato stereotipi e differenze in termini di conoscenza all’est e al sud; abbiamo esplorato storie e vocabolari diversi per meglio comprendere le prove che abbiamo davanti. Abbiamo mappato le lotte locali e translocali, e abbiamo analizzato le sfide geopolitiche, macro e micropolitiche. Abbiamo discusso di movimenti e organizzazioni che sono emersi con la crisi nei nostri paesi, ne abbiamo analizzato le tattiche e strategie per arrivare a determinare le sfide future. Abbiamo infine prodotto un calendario delle mobilitazioni a venire e abbiamo discusso di come sostenerci reciprocamente nell’autunno caldo che ci aspetta.
Ci troviamo attualmente in un momento in cui possiamo parlarci superando le divisioni del passato. A fronte della prolungata crisi finanziaria e della militarizzazione, questo dialogo orientato all’azione comune è più che mai urgente.
da connessioniprecarie