Il viaggio non è lungo, a volte basta uscire da un edificio ed entrare in quello accanto, per spostarsi da Suruç a Pirsus. Stiamo parlando della stessa città, che si trasforma completamente a seconda di dove ci troviamo: a Suruç, il suo nome turco, o Pirsus, quello curdo? A Suruç i controlli sono costanti, la polizia lungo le strade impugna le armi e mentre cammini, svoltato l’angolo, ti attende un mezzo blindato che ti sovrasta minaccioso. A Pirsus, invece, i ragazzi che lavorano da mattina a sera al panificio ci chiamano – con parole a noi incomprensibili – e a gesti ci fanno avvicinare al forno, offrendoci una pagnotta appena sfornata e una tazza di çay.
La diversità di queste due parti della città e dei suoi abitanti si riflettono nella gestione dell’emergenza profughi: i campi autogestiti dai curdi (di cui abbiamo scritto in molti report dalla nostra staffetta tra novembre e dicembre) sono completamente diversi da quelli in mano al governo turco. Oggi abbiamo scoperto un volto ancora nuovo di Suruç e siamo entrati nel campo governativo gestito da Afad, una specie di Protezione civile turca, controllata dalla presidenza per la “gestione dei disastri e delle emergenze”. Mentre i campi a gestione curda sono aperti a chiunque, in quello di Afad non è facile entrare: dopo alcuni tentativi, oggi siamo riusciti a ottenere il permesso. Entrando, dobbiamo fornire le nostre referenze stampa, veniamo perquisiti e accompagnati in una zona separata dal resto del campo con rete e filo spinato.
Si tratta del più grande campo profughi del governo turco, e quello “più sofisticato al mondo”, nelle parole del suo direttore, Mehmethan Özdemir. È lui ad accoglierci in una grande tenda pavimentata con il cemento, seduti su poltrone di pelle nera, e a parlarci da dietro una scrivania di legno laccato. Il riscaldamento è impostato su 27° centigradi e mentre ci parla mostra da un pc portatile un video girato dal drone che ha sorvolato il campo. “La forma del campo è un cuore, perché così apriamo il nostro cuore a chi ne ha bisogno”, spiega. Per questo grande cuore turco rinchiuso dentro alte recinzioni che stridono davanti alla libertà rivendicata da Pirsus, e presidiato da torrette e carrarmati, sono stati spesi 35 milioni di dollari; il campo è stato costruito in 40 giorni. Una struttura che ricorda quella di un Cie, costruita su un terreno di proprietà del ministero del Tesoro, ma con ogni comfort: la lista dei lussi garantiti a chi vive qui, che ci viene elencata con orgoglio, è lunghissima. “Nel campo ci sono 6 supermarket, 6 asili, 5 scuole – dove si insegna il turco, l’arabo e si studia il Corano – da 24 classi, 7mila tende, ciascuna con 3 stanze e dotata di frigorifero, tv, cucina. Il campo è diviso in 15 quartieri: ciascuno ha 8 lavatrici, 8 stanze televisione, 8 lavanderie. Ci sono 15 strutture diverse per il tempo libero, spazi per lo sport, attrezzature e filtri per purificare l’acqua”. E lo stesso vale per il personale: “400 insegnanti, 260 persone che fanno le pulizie, 325 dipendenti della sicurezza, 60 traduttori, 63 persone che lavorano nell’amministrazione del campo, 48 pompieri”. Ogni abitante del campo ha a disposizione una tessera con 85 lire turche al mese. Oggi vivono qui 4.400 persone (nelle parole del direttore; altre fonti parlano di un migliaio), ma il campo potrebbe ospitarne 35mila. In collaborazione con la Croce rossa, sono garantiti 3 pasti al giorno.
A 15 chilometri da Pirsus, invece, da due mesi la municipalità curda con l’aiuto di volontari provenienti un po’ da tutto il mondo ha dato vita a quello che ad ora è il più grande campo profughi gestito dalla comunità curda. Sono in molti a fuggire dal campo di Afad – dove le persone sono costantemente controllati dalle forze dell’ordine, che registrano le uscite e le entrate giornaliere – per andare nel campo a gestione curda, dove l’accesso è libero per chiunque, senza alcun bisogno di “autenticarsi”. Qui, sono state costruite 700 tende grazie al sostegno del partito, e altre sono in costruzione. La condivisione dei pochi beni a disposizione è alla base della gestione del campo, dato che sono pochissimi i fondi a disposizione e tutto quello che arriva, dal cibo alle medicine, viene donato. Il vero cuore del Kurdistan sta qui, nei sorrisi con cui veniamo accolti dai bambini e dalle donne, libero da ogni recinzione.
2 febbraio 2015
Chiara, Fano, Marco e Momo (Centri sociali del Nord est – Rojava Calling)