Dalla compassione al disprezzo passando per il cibo: ecco come il simile diventa alieno, ovvero la Guerra si costruisce (anche) a Tavola.
di: I puntini sulle I – collettivo di controinformazione tackente (veckia tackenza 1)
25/10/2015
Ancora una volta ci indigna l’uso strumentale che certo giornalismo fa della notizia, evidenziando alcuni aspetti e oscurandone altri, a seconda del tipo di sensazioni che si vogliono provocare nella massa dei lettori; in particolare, nel commentare l’articolo apparso in prima pagina sul GdV del 21.10.2015: Sit-in dei profughi «Basta pasta. Cibo africano», ci siamo soffermati ad osservare il procedimento alchemico con cui viene sapientemente realizzata la sofisticazione atta a trasformare la compassione, sentimento fondante della solidarietà, intesa come assunzione di responsabilità ed impegno etico-sociale a favore dell’altro, in disprezzo, terreno di coltura di ogni possibile declinazione dell’odio e dell’intolleranza.
Abbiamo appositamente usato il termine compassione, nel significato etimologico e laico di “patire insieme”, partecipare al dolore altrui, riconoscere nell’altro gli stessi propri bisogni, la stessa sofferenza quando questi rimangono insoddisfatti. Dalla stessa radice discende la parola “compatibile”: quello che si può riconoscere si può capire, si può giustificare, diventa “conciliabile”, con esso ci si può accordare.
La maggior parte delle situazioni lamentate dagli uomini di cui si parla (i profughi ospitati a Cesuna) e descritte nell’articolo sono idonee a generare compassione: il freddo, la mancanza di acqua e riscaldamento; l’isolamento, la lontananza dai centri urbani, l’impossibilità di muoversi o di comunicare; la malattia non adeguatamente curata; la stessa lentezza nell’avere i documenti, seppure concetto abbastanza vago e non direttamente legato al disagio fisico o psichico, rimanda al venir meno di un qualche diritto.
Cosa rompe il meccanismo di identificazione, dando il la all’arrabbiato medio che può così commentare sui social network intonando il consueto mantra: na pea in tel cueo e fora dae baee, immemore non solo di sè e dell’altro come appartenenti al consesso umano, ma anche dell’ abc del diritti umani riconosciuti dalla Costituzione, dai trattati internazionali, dalle Nazioni Unite in tema di diritto di asilo e protezione dei rifugiati, tanto per restare nell’ambito della legalità tanto caro a chi se ne serve per discriminare?
Il cronista lo sa: il cibo.
Il cibo che non è solo risposta a un bisogno primario; porta con sé valenze di tipo simbolico, costituisce cioè un insieme di significati e segni attraverso cui ‘uomo può esprimersi e costruire la propria identità . E il cronista lo sa. Sa che “L’uso di determinati prodotti, la partecipazione a certi rituali di consumo, la presenza in luoghi ben precisi, diventano elementi e processi essenziali per l’identificazione e l’integrazione dell’individuo nel contesto sociale (Douglas e Isherwood 1980). Sa che il cibo è cultura, che “il cibo tende ad evidenziare le differenze tra gruppi, culture, strati sociali, e serve a rafforzare l’identità di gruppo, separando e distinguendo il “noi” dagli “altri”(Bourdieu, 1983); che “(…)l’alimentazione è considerata uno degli elementi più importanti per delimitare barriere ideologiche, etniche, politiche, sociali, o al contrario, uno dei mezzi più utilizzati per conoscere altre culture, per mescolare le civiltà, per tentare la via dell’interculturalismo; il cibo, infatti, è anche un meccanismo rivelatore dell’identità etnica, culturale e sociale (Scholliers, 2001) Sa che “essendo il cervello (storicamente determinato) l’organo del sapore, e non la lingua, il gusto può essere considerato espressione del patrimonio culturale delle società umane (Montanari 2006) capace di influenzare le scelte dell’individuo e di esserne influenzato a sua volta”.
E sceglie, in maniera apparentemente inconsapevole e distratta, solo un pò compiacente e un pò ignorante, di aggiungere un mattone al muro.
Punta il suo faro sul rifiuto del cibo, prova inconfutabile della malafede dei migranti, che vengono qui senza reale necessità e pretendono di trovare le comodità di casa. Un pò come il turista italiano che va nei paesi esotici, ma nel villaggio vuole trovare la cucina italiana (che, ca va sans dire, è la migliore del mondo, come il campionato di calcio più bello, i politici più corrotti e avanti così).
Ed ecco che la rivendicazione del proprio cibo diventa inaccettabile; e subito dopo per estensione diventa inaccettabile l’esistenza di una identità etnica e culturale diversa.
Il disagio e la sofferenza – derivanti anche dallo shock della migrazione (clima, lingua, regole, relazioni nuove, diverse, spesso ostili) – sono usciti dalla prospettiva della compassione e quindi della compatibilità, e sono entrati nella dimensione percepita dell’incompatibile, inconciliabile, inadatto disdicevole criticabile disgustoso. Et voilà, il disprezzo è servito.
Per la cronaca, incuriositi dal cibo africano (“etnico” secondo i cronisti locali, con un termine che allude a ricercatezze esotiche) abbiamo approfondito. In Africa occidentale gli ingredienti base della cucina sono riso, mais, fagioli, pollo, pomodori, cipolle e peperoni. E spezie. Ce la possiamo fare, dai.
per approfondire:
http://www.academia.edu/1157887/Il_senso_degli_altri._Cibo_identit%C3%A0_e_metissage
http://www.slowfoodcorridonia.it/pdf/tesi_pravettoni.pdf