Di Vilma Mazza, tratto da www.globalproject.info
Ma di cosa state parlando?! Proviamo ad essere il più chiari possibili. L’esaltazione acritica delle piazze dei cosiddetti “Forconi” non solo nasce da un macroscopico abbaglio interpretativo, ma è anche un pericoloso errore politico. L’abbaglio forse origina dalla inusitata visibilità, tutt’altro che innocente, che i media mainstream hanno regalato prima e durante ad un fenomeno che resta, tutto sommato, quantitativamente e territorialmente limitato.
I “Forconi” assumono infatti dimensioni “di massa” soltanto a Torino. Cioè nella metropoli italiana dove sette anni di crisi si sono, più che altrove, innestati su un panorama di sofferenza sociale determinato dall’incompiuta transizione post-fordista. Lì il primo giorno delle proteste vede in piazza millecinquecento, duemila persone, in un’eterogenea combinazione di “mercatari” (cioè titolari delle bancarelle del commercio ambulante) e altri piccoli bottegai con le curve della Juve e del Toro, raggiunti nel secondo giorno da qualche centinaio di studenti medi.
Nel Veneto, ad esempio, gli unici episodi significativi sono il blocco di un paio di caselli autostradali, ad opera soprattutto di qualche decina di “padroncini” dell’autotrasporto, supportati da ciò che resta di organizzazioni quali il L.i.f.e. e i Cobas del Latte, cioè di quell’”area grigia” a cavallo tra leghismo e venetismo. Nelle città qualche presidio simbolico, animato dai tricolori sventolati da gruppetti di fascisti.
Eppure, tanto basta a taluni, per scambiare un modesto conato di poujadismo per una nuova insorgente “Piazza Statuto”. Ma l’equivoco non sta solo nella confusione tra desiderio e realtà. Il vizio sta proprio nel manico: nella fallace equazione per cui ogni, grande o piccola che sia, esplosione di “rabbia sociale” (sarebbero, in questo caso, i quattro sassi tirati sui reparti di polizia schierati a presidio del Consiglio regionale piemontese) è immediatamente letta come segnale di “disponibilità rivoluzionaria”.
Rivelando così almeno due deboli presupposti: il primo, secondo cui ogni (sottolineiamo ogni) manifestazione anche larvatamente conflittuale del “sociale” sarebbe di per sé positiva; il secondo, il principio – che nulla ha a che spartire con un’etica minima di liberazione – per cui “il nemico (posto che sia in effetti tale) del mio nemico è sempre un mio amico.”
Il tutto condito da un sociologismo d’accatto, che poco c’entra con l’evocazione di una nobile tradizione d’”inchiesta” e ancora meno con la costruzione di un solido punto di vista di parte, capace di agire la realtà.
Siamo stati in molti, invece, a stupirci fin qui del fatto che – diversamente da quanto accaduto in altri paesi d’Europa – sette anni ininterrotti di crisi non avessero ancora prodotto in Italia l’apparire sulla scena di una movimentazione sociale “di destra”, pronta ad organizzarsi in un blocco sociale apertamente reazionario.
Forse, anche su questo versante, le mistificazioni della trappola rappresentativa avevano fin qui funzionato, con almeno tre soggetti politici, per quanto differenti fra loro, disponibili a proiettare sul palcoscenico istituzionale le pulsioni che abbiamo visto materializzarsi tra i “Forconi”, con Berlusconi, la Lega e Grillo a contendersi questo ruolo di “tappo”.
Ma è appunto di questo che dobbiamo parlare, senza ridicole dietrologie per cui il tutto andrebbe ricondotto a “infiltrazioni fasciste”, che pure ci sono state e devono essere denunciate e contrastate. O verrebbe solo strumentalmente gestito dal discorso governamentale e mediatico dominante, che pure si è attivato per gonfiare prima le proteste, “comprendendo il disagio”, e riclassificarle poi in un’indistinta “minaccia eversiva populista”, al fine di cementare l’emergenziale necessità di larghe intese a garanzia di stabilità e pacificazione.
Si tratta di una prima movimentazione sociale “di destra”, quindi, che allude alla costruzione di un blocco sociale, perché non ci si può fermare alla compiaciuta descrizione delle forme metropolitane della protesta (il blocco della mobilità così come la contestazione delle sedi istituzionali), senza leggerne i contenuti che, per quanto ancora confusi e generici, emergono nella simbologia impiegata, negli slogan e sugli striscioni, nella costellazione valoriale evocata, negli obiettivi dichiarati.
I nemici sono la “casta”, l’Europa e gli immigrati. Sventolano il tricolore, invocando un ritorno alla sovranità nazionale. Odiano la democrazia rappresentativa, non perché rivendicano la democrazia assoluta, ma l’”uomo forte al comando”. Rifiutano le tasse, in quanto portatori dell’ideologia – dura a morire nonostante la crisi – del “ciascuno imprenditore di se stesso”, miserabili alfieri del “privato” ad ogni costo contro il pubblico, ma ancora più contro il comune, paradossali difensori di un’individualismo proprietario che in questi anni li ha tutti impoveriti. Le imposte non le vogliono pagare perché ciò che detestano dello Stato è la sua declinazione “sociale”, perché rigettano la possibilità stessa di una ridistribuzione welfarista, vecchia o nuova che sia, della ricchezza socialmente prodotta.
Ma dello Stato amano invece il carattere nazionale e il monopolio autoritario della forza: distorti o meno che siano, gli episodi di fraternizzazione con i plotoni di carabinieri e polizia, le ammiccanti prese di posizione dei sindacati delle Forze dell’Ordine, i due pesi e le due misure che vengono impiegati in piazza, negli stessi territori, tra manifestanti NoTav e “mercatari”, tutto questo ci parla di una identificazione di valori, schiettamente re-a-zio-na-ria, che dovrebbe innanzittutto inquietare chi in quei territori ci vive.
Sveglia, compagni! Non è mai esistito, non esiste un sociale di per sé “buono”. I fascismi, in Europa e nel mondo, sono sempre stati l’orrendo fratello gemello della tensione alla liberazione delle classi subalterne. E lo diciamo senza scomodare pesanti riferimenti storici (che pure andrebbero sempre tenuti presente) agli errori, pagati caro, da tanta parte del movimento operaio e comunista nel Novecento. Non confondiamo, oggi, la moltitudine “in sé” come categoria di lettura fenomenologica della composizione del lavoro in termini di frammentazione e dispersione, con il concetto di moltitudine “per sé” come composizione politica che, nella relazione tra singolarità e collettivo, può affermare l’orizzonte della trasformazione sociale radicale come pratica democratica del comune.
Non c’è e non può esserci, per noi portatori di un punto di vista di parte, una radicalità delle forme di lotta che si disgiunge e separa dai contenuti positivi e progettuali di cui il conflitto sociale dev’essere portatore. Non c’è e non può esserci una lettura non materialista degli interessi di classe in gioco. Non c’è e non può esserci esercizio destituente dei poteri costituiti attraverso l’impiego della forza sociale, senza contemporanea ed intrecciata prassi costituente di un’altra e migliore società.
La nostra scelta non è, non sarà mai quella per il tifo del “tanto peggio, tanto meglio”, di un’indistinta “rabbia sociale” pronta ad essere gestita dal comando in termini reazionari. Siamo invece per lo sviluppo e la crescita di radicalissimi movimenti costituenti, che affermino qui ed ora, rompendo la legalità data del dominio, la possibilità di un’alternativa societaria, conquistando spazi politici di liberazione nuovi, come una dimensione europea e non nazionale in contrapposizione agli Stati nazione, ai loro governi e alle strutture istituzionali dell’Unione, affermando nella pratica materiale una nuova democrazia dei molti, la libertà di tutti e di ciascuno, una radicale ed egualitaria ridistribuzione della ricchezza. Qualcosa di molto più difficile a farsi, rispetto alla fotografia di ciò che accade.
E, se su questa strada troveremo qualche “Forcone”, utile idiota di chi sta al potere, sapremo sempre come regolarci.
Si è visto che c’è tanta “confusione sotto il cielo” per questo pensiamo che oltre a stare dentro le lotte radicali e reali si tratta anche di discutere per produrre approfondimento ed analisi.
Vilma Mazza
Direttrice GlobalProject.info