Le realtà di movimento e l’inadeguatezza di una parte del corpo militante, tra l’affermazione dei grillini e la perpetua evocazione del conflitto sociale.
Lo tsunami nelle urne c’è stato. Un fatto storico senza dubbio. Non solo per la straordinaria affermazione elettorale del Movimento 5 Stelle, prevedibile come fenomeno ma non certo come perimetro delle percentuali di consenso, ma anche è soprattutto per l’affermazione incredibile di Silvio Berlusconi e del Pdl.
Non starò qui a commentare il fenomeno grillino. I commenti, in rete, sui giornali, nei forum, sui blog, nelle discussioni nei movimenti, si sprecano. Fiumi di inchiostro, tastiere consumate tanto da sbiadire il colore delle lettere. E’ stato così anche durante la campagna elettorale. Sono state fatte analisi molto più articolate e complesse della presente, alcune condivisibili ed altre meno.
Insomma l’intenzione di queste righe non è quella di analizzare l’affermazione del Movimento 5 Stelle.
Mi piacerebbe provare a fare una riflessione sull’esito elettorale da un punto di vista parziale. Oserei dire quasi soggettivo ed intimo. Una riflessione che parte da un dato di autocritica, senza avere la presunzione di dare “brillanti letture del presente” né tantomeno con l’ambizione, che da qualche parte si ritrova, di dire “l’avevo detto”.
Non è di questo che ha bisogno chi ha speso e spende il suo impegno nelle realtà di base, nei movimenti, nei collettivi, nei comitati territoriali. C’è bisogno piuttosto di un momento di onestà.
Il punto di vista è quello di chi crede che solo i movimenti sociali possono trasformare l’esistente.
Il risultato delle urne ci pone davanti ad un senso di assoluta inadeguatezza rispetto ai tempi che viviamo. Abbiamo passato almeno due anni ad annunciare l’imminente sepoltura politica di Silvio Berlusconi, tanto da segnalare la necessità di non rimanere arroccati ad un antiberlusconismo che oramai aveva fatto il suo tempo, salvo poi ritrovarcelo al 30%. Abbiamo speso tanto tempo a segnalare come l’ormai imminente (sic!) governo di centro sinistra con un Partito Democratico trionfante si inquadrava come risultato scontato di un commissariamento della democrazia nel nostro paese, salvo poi ritrovare il Pd semisconfitto ed un voto di protesta alla “que se vayan todos” che si afferma nelle urne. Abbiamo parlato di un terzo polo che si affermava come potente partito delle lobby, salvo poi ritrovarlo in parlamento in poche decine di unità. Abbiamo soprattutto definito in maniera dettagliata le differenze e le distanze tra la nostra opzione politica, radicale, che si orienta ad un profilo culturale della sinistra eretica ed extraparlamentare, ed il fenomeno grillino.
Abbiamo infine, spiegato, alcune volte in maniera sottile, altre in modo strillato, altre ancora in maniera un po’ criptica ed incomprensibile, come lo scenario elettorale era poco interessante e che non avrebbe determinato nessun tipo di rottura del quadro esistente, salvo poi parlare oggi di ingovernabilità.
L’affermazione del Movimento 5 Stelle avviene su temi chiari e semplici. Temi noti a chi ha vissuto i movimenti in questi anni, tanto da essere il cuore dell’agenda politica di chi si è battuto nelle piazze. Dal reddito di cittadinanza alle questioni ambientali, dal no alle grandi opere alla lotta alla casta. Temi su cui le realtà di base sono riuscite a costruire importanti fasi del conflitto sociale nel paese. Per il territorio in cui vivo basta pensare alle lotte ambientali, quelle sui rifiuti, quelle contro un rappresentanza che provava a sopravvivere a se stessa. Su questi conflitti non siamo riusciti a costruire un accumulo di potenza. Sul protagonismo sociale che si è prodotto su quelle battaglie non siamo riusciti a costruire un’opzione politica complessiva credibile fuori dagli schemi della rappresentanza e vincolata al protagonismo di quei conflitti stessi. Non siamo riusciti in sintesi a costruire le condizioni per cui i conflitti ed i loro protagonisti si potessero autorappresentare in maniera autorevole. Il Movimento 5 Stelle invece c’è riuscito e, incredibilmente, la rottura in questo paese è passata dalle urne e dal voto a Grillo. I movimenti invece sono rimasti con le piazze vuote e con un forte senso di disorientamento e di smarrimento. Ed è proprio quel senso di smarrimento che c’ha fatto rimarcare, in maniera quasi rabbiosa, le differenze con il fenomeno grillino che abbiamo visto crescere ed affermarsi sotto i nostri occhi.
Così come il trionfo di Silvio Berlusconi ha lasciato spiazzati tutti quelli che lo credevano morto e sepolto. Abbiamo passato un paio di anni ad evocare. Evocare i conflitti, evocare le piazze, evocare ponti con la dimensione sud Europea. Una evocazione talvolta condita da qualche politicismo di troppo in cui le strutture di movimento si sono spesso infilate. Nonostante in molti abbiamo da tempo abbandonato l’idea di una “ora X” rivoluzionaria, dello scoccare delle lancette che determina la presa del “Palazzo d’Inverno”, abbiamo vissuto le immagini dei conflitti in Spagna, Grecia, Portogallo, Sud America, fino al benedetto ritorno degli zapatisti, con un senso di frustrazione e di smania di “mettersi alla pari”. Siamo dunque rimasti sul piano dell’evocazione. Abbiamo perso di vista elementi semplici quanto centrali: il radicamento territoriale, la progettualità politica, l’articolazione di campagne di lotta, l’organizzazione di segmenti sociali in maniera stabile e duratura. Abbiamo perso progressivamente anche quella fondamentale spinta che le lotte territoriali avevano dato alle strutture di movimento. Il rapporto con il territorio e l’irrinunciabile vocazione maggioritaria. Si è provato a riarticolare anche il ruolo dei centri sociali nella nuova fase restando, forse, un po’ avvitati intorno alla perimetrazione del nostro ombelico mentre tutto intorno nuove storie trovavano genesi e nuovi processi si sviluppavano.
La verità è che forse non c’abbiamo capito molto. Il crudo senso di inadeguatezza rispetto ai tempi che viviamo dovrebbe portarci ad una riflessione seria ed attenta.
Abbiamo avuto la fortuna di partecipare a quel protagonismo reale che hanno avuto i movimenti in questo paese da Genova 2001 in poi. Più recentemente, abbiamo avuto la capacità di dare un contributo decisivo all’affermazione delle lotte per i beni comuni, passando per le stagioni delle lotte sui territori da Chiaiano al Dal Molin, passando per la miriade di conflitti territoriali che hanno caratterizzato la fine degli anni zero. Abbiamo preso parte alla stagione referendaria, che è passata anche per quel vento di cambiamento delle elezioni amministrative del 2011, che ha segnato una pagina importante del protagonismo civico e sociale in questo paese. Poi, dopo, evidentemente non c’abbiamo capito molto. Il riferimento a quel 15 ottobre del 2011 resta senza dubbio come una dead line che ancora oggi non può che volteggiare come uno spettro su tutti i ragionamenti sugli ultimi anni dei movimenti. Anzi, delle realtà di movimento. Si perché non dobbiamo mai confondere “il movimento”, caratterizzato dal protagonismo di segmenti sociali, da una stagione di conflitto vero contraddistinto da piazze piene di migliaia di persone, a fasi diverse, come quella che viviamo, dove a “tirare la carretta” sono le realtà di base, i centri sociali, i collettivi, i comitati. Le differenze strutturali, culturali, politiche, sociali (anche!), e di prospettiva tra noi ed i grillini restano evidenti. Sebbene non bisogna avere nessun tipo di remissione a confrontarsi con il fenomeno resta tutta aperta la questione di come ridare slancio e vigore a quell’opzione politica che ha trovato nei centri sociali per alcuni decenni delle officine politiche, culturali e sociali.
La nostra inadeguatezza forse sta proprio nell’incapacità di leggere pienamente il nostro tempo. Un’inadeguatezza che attraversa il corpo militante delle realtà di base, soprattutto quella parte che ha vissuto le stagioni di lotta degli anni zero. Una, forse due generazioni, che hanno dato tantissimo al movimento, che hanno avuto grandi capacità e grandi intuizioni, da Genova in poi, ma che forse oggi fanno fatica a leggere questa fase. Una verità forse scomoda ma che qualcuno dovrà pur segnalare. Mi sento tra quelli, avendo avuto la fortuna di vivere diverse stagioni dei movimenti in questo paese ed avendo avuto la fortuna di viverle come protagonista.
Lo scenario intorno a noi cambia, in fretta e con codici, comportamenti sociali, pulsioni e tendenze che negli ultimi anni non siamo stati capaci di leggere o quanto meno di leggere fino in fondo.
Forse negli ultimi anni abbiamo collezionato qualche fallimento e senza dirci questa verità, senza quindi avviare quel sano esercizio di autocritica non usciremo certo dallo stato di inadeguatezza.
Mi sembrano corretti e saggi gli inviti a guardare “all’oggettività del presente”, a “non deridere le scelte umane ma a comprenderle”. Penso anche però che ognuno vive il proprio tempo. Penso che il corpo militante delle realtà di base abbia necessariamente bisogno di un cambiamento, di un assetto diverso che permetta alle generazioni più giovani di provare a fare i conti con “l’oggettività dell’esistente” da protagonisti. Un presente duro, difficile ed incerto, ma che non può vivere della lettura mediata di chi in questo tempo si sente inadeguato. Un processo necessario per impedire che le difficoltà delle singolarità rischino di appesantire possibili nuove energie.
E’ un atto di umiltà e di consapevolezza che potrebbe e dovrebbe essere di tipo generazionale.
Al tempo stesso una fase di riflessione e di più attenta analisi dello scenario che ci circonda non può che permetterci di essere più al passo con il presente che viviamo. Sono tempi in cui mettersi in discussione è un obbligo se davvero si vuole provare a dare un contributo per la trasformazione dell’esistente. Magari proprio quei luoghi politici dove il Movimento 5 Stelle ha trovato forza e vigore, come le battaglie territoriali, le forme di comunicazione e controinformazione, le sperimentazioni di nuove forme di democrazia diretta, una idea diversa della partecipazione e della condivisione possono essere degli ottimi luoghi dove svolgere questa riflessione. I pirati navigano in mare aperto e devono essere consapevoli dei rischi. E’ inutile provare a stare sotto costa con l’illusione che le truppe reali, di un qualsiasi reame, ti lascino scampo. Navigare in mare aperto dunque, per alcuni, riflettere per altri. Una riflessione che troverà sintesi, perché sebbene oggi ci si sente inadeguati, non si può temere il proprio tempo…”è un problema di spazio”.
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