Le contraddizioni reali della governance e gli spazi per il conflitto
Ci sono due modi di intendere quello che sta facendo Renzi e ciò che in fondo rappresenta: il primo è proprio della “Realpolitik” all’italiana – quella per capirci che va da Giavazzi a Scalfari – e che è tutto tranne che un realistico approccio alla realtà e alle sue contraddizioni, pregna com’è di pura ideologia. Una maniera di trattare il programma messo in campo dal giovane campione fiorentino che oscilla tra la derisione e l’allarme preoccupato per la “stabilità”.
Il secondo invece, ma è troppo laico e lontano dai palazzi romani per andare sul mainstream, è cogliere l’aspetto di contraddizione in un progetto di governance “post-austerity” che prova a misurarsi, sul terreno sociale, con i nodi veri della crisi.
Alla maniera di Scalfari e Giavazzi, guarda caso Repubblica e il Corriere, si trattano gli annunci di Renzi in maniera diversamente scettica: l’uno, che ha sempre sostenuto il presidenzialismo non costituzionale di Napolitano da combinarsi con i governi compatibili alla Letta, dice che in fondo il fiorentino imbroglia le carte. Solo partite di giro, solo cose alle quali aveva provveduto anche l’altro governo, solo chiacchiere e distintivo per coprire un modo di fare troppo disinvolto, in particolare con l’utilizzo delle geometrie variabili di larghe intese che si spingono troppo in là, fino all’innominabile pregiudicato leader della destra italiana. Il secondo invece ammonisce Renzi sulla piega che rischia di prendere il suo azzardo: non sarà mica un tifoso della Patrimoniale?
Ma possiamo noi non cogliere, distratti magari da questi santoni del liberismo nelle sue due versioni, quella “di sinistra” e quella di destra, gli aspetti utili ad una rottura, sociale e politica, che il tentativo di governance renziano rappresenta oggi? Meglio appunto non distrarsi. Togliersi dal coro della Realpolitik, e osservare da vicino, nel merito, le questioni che vengono a galla perché frutto non della grande capacità di un condottiero, ma conseguenza dei nodi irriducibili posti dal livello di ristrutturazione capitalistica operato nella crisi, che hanno una dimensione europea e non nazionale.
E allora veniamo al merito: tassare la rendita finanziaria a favore dei redditi da lavoro è una cosa giusta che va nella direzione giusta, perché interviene su quel meccanismo parassitario di concentrazione della ricchezza che appunto determina lo stato di diseguaglianza e misura lo sfruttamento di chi lavora a favore di chi specula. Certo è troppo poco, quindi Renzi va incalzato su questo. Bisogna aumentare la pressione sulle rendite, bisogna redistribuire di più e meglio, ma il nodo è questo. E non è un caso che, all’interno dei percorsi di movimento, questo fosse emerso con forza fin dall’esplosione dei “subprime”, disvelando come la crisi dovesse essere colta come opportunità per aprire nuovi terreni di conflitto contro i contemporanei processi di accumulazione capitalistica. Non ci si impoverisce perché non c’è lavoro, ma perché la ricchezza socialmente prodotta viene concentrata, attraverso la rendita, nelle mani di pochi. Quindi non basta un aumento del 6% della tassazione sulle rendite finanziarie per sostenere la riduzione dell’Irpef sui redditi più bassi, bisogna fare di più. E questo, come giustamente teme Giavazzi, deve aprire le porte a una seria Patrimoniale, una nuova politica fiscale radicalmente rovesciata che serva ad alleggerire il peso della tassazione sulla stragrande maggioranza dei cittadini.
Ma non solo.
Una volta che si intravede il varco, bisogna trasformarlo con determinazione in una grande breccia: non si può agire solo sull’Irpef, perché la realtà del lavoro non è fatta solo di buste paga. E’ necessario introdurre, proprio per non escludere una fetta importante di popolazione, una misura di reddito universale, a favore di tutti coloro che oggi non sono contrattualizzati e lavorano all’interno di quella giungla normativa definita “lavoro autonomo”.
Questo tipo di provvedimenti vengono rinviati al cosiddetto Jobs Act, che avrà un percorso più lungo, quello del Disegno di legge, tale da prevedere il passaggio parlamentare: il nodo della precarietà ne è al centro, anche qui in termini ambivalenti. Da una parte istituzionalizzando la realtà dello sfruttamento selvaggio all’ingresso nel mercato del lavoro, con le misure che riguardano l’apprendistato e il contratto di primo impiego; dall’altra, alludendo alla necessità di tutele e garanzie di carattere universalistico, con l’estensione e uniformizzazione del sussidio di disoccupazione, attraverso il progressivo superamento dell’utilizzo discriminatorio della Cassa integrazione in deroga. E’ anche questa una sfida, un terreno di conflitto che va immediatamente assunto nella sua portata e rovesciato di segno: mai, nella storia recente, si era dato uno spazio di contraddizione su cui far lavorare la rivendicazione del reddito di cittadinanza, di un “basic income” generalizzato contro ogni ipotesi di Workfare, di costrizione al lavoro sottopagato quale che sia, verso il quale lo stesso Renzi ha mostrato la sua preferenziale inclinazione.
Stiamo sempre al merito: il Decreto legge sul Piano casa invece è immediatamente operativo. Al suo interno – come “scambio” con la destra, con il ministro Lupi che dal suo dicastero gestisce il pacchetto di misure e come risposta della governance allo straordinario movimento per il diritto all’abitare che sta attraversando tutto il Paese – è previsto che in caso di “occupazione abusiva” di un immobile, non sia possibile né l’attribuzione della residenza, né gli allacciamenti con i servizi di acqua, luce e gas: una cosa inaccettabile. Questa misura odiosa è un punto di scontro diretto e immediato, un terreno concreto di lotta che bisogna affrontare subito con forza.
E ancora, invece: risulta evidente che nulla si può fare se non si mette mano alla gabbia d’acciaio dei vincoli europei, subito al Fiscal compact e, alla lunga, al debito. Gli Scalfari e i Giavazzi, su questo sono in totale sintonia: guai a rimettere in discussione le compatibilità europee. La governance della contraddizione di Renzi invece, annuncia una rimodulazione. Per ora si fa leva su un approccio soft al problema, cioè utilizzando le previsioni sul famoso deficit di bilancio. Ma anche qui la contraddizione va aperta con forza, visto che la strada è imboccata: basta con il fiscal compact e con l’assurdità del pareggio di bilancio introdotto nella Costituzione, cosa tralaltro che solo Italia e Polonia hanno provveduto ad inserire zelantemente su indicazione della Troika. Per avere le risorse necessarie a un rilancio delle politiche pubbliche in tema di investimenti su conversione ecologica della produzione, dissesto idrogeologico del territorio, formazione e ricerca, l’unica strada è quella di rompere gli stretti parametri imposti dal direttorio commissariale europeo.
L’Europa dunque come un campo di battaglia, non un club a cui bisogna sperare di essere invitati. Siccome la variazione dei parametri previsti dal Fiscal compact va approvata dai due terzi del parlamento, questo si potrebbe trasformare finalmente in una discussione politica generale, e potrebbe addirittura diventare materia referendaria: il fatto che oggi questo tema assuma una certa concretezza e oltrepassi l’alveo delle ristrette discussioni degli specialisti per irrompere materialmente nella società reale, è un bene.
I nodi del programma di Renzi, del suo tentativo di governance, stanno mettendo in luce le contraddizioni giuste. E’ su quello spazio, su queste che sono striature, pieghe, rotture dello spazio liscio e artefatto della linearità liberista della gestione della crisi, che abbiamo fino ad ora conosciuto, che si gioca la partita.
Per noi proiettandola in Europa, anzi facendola diventare materia viva del conflitto sociale nello spazio europeo. E attraverso un punto di vista materialista e sul serio realista, che entra nel merito delle cose, il conflitto con la governance di Renzi può assumere qualità ed efficacia. Ai tempi del Welfare state è stata la lotta per la sua dilatazione massima a favore dei soggetti sociali sfruttati, a determinare la conquista di nuovi diritti e di nuove migliori condizioni di vita. Si coniugava con la grande contraddizione capitalistica derivante dalla necessità di tenere a bada l’irriducibile tensione tra sfruttamento e desiderio di liberazione dal lavoro salariato. Dove siamo giunti lo sappiamo.
Ma allo stesso modo oggi, è forzando a dismisura la contraddizione tra tentativi di gestione capitalistica della crisi e necessità di tenere a bada le tensioni sociali che scaturiscono dalle politiche di impoverimento, che potremmo conquistare, per tutti in Europa, nuovi diritti e una qualità migliore di vita.
E nello scontro di potere tra le diverse fazioni dell’élite capitalistiche intorno alle differenti ricette da applicare alla gestione della crisi, ben rappresentate dal beccarsi tra i “capponi di Renzi”, potremmo provare, per una volta, a mangiarceli!
Su tutti questi temi ospitiamo contributi portatori anche di differenti punti di vista ma utile a comprendere il merito e la portata di questi provvedimenti.