Il testo e il processo
La Carta di Lampedusa tra utopia, etica e materialismo
Introduciamo qui alcuni stralci d’interventi, tratti dalla discussione dedicata alla Carta di Lampedusa, che si è svolta lo scorso mercoledì 26 febbraio alla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Padova. Obiettivo dell’incontro era far sì che i temi trattati all’interno della Carta, frutto di una lunga e appassionata collaborazione tra molteplici realtà, raggiungessero gli studenti e tutto il mondo universitario, per poter così restituire un quadro d’insieme su quanto accaduto a fine gennaio sull’isola siciliana, durante la stesura dei principi della Carta, e affrontare i suoi possibili sviluppi in termini di traduzione su un piano reale e concreto. Dal punto di vista di Metropolitan Multiversity, il confronto con prospettive differenti dalla nostra arricchisce qui la costellazione concettuale già messa in gioco dal testo della Carta, confermandone la valenza di potente strumento se inserito in una processualità aperta e mai autoreferenziale.
Riportiamo perciò qui sotto i contributi di docenti quali Umberto Curi, Giuseppe Mosconi e Adone Brandalise, che hanno partecipato al dibattito insieme ai lavoratori licenziati del settore della logistica e ai rifugiati di “Casa dei Diritti Don Gallo”, i quali hanno dato voce ai loro percorsi collettivi e personali, fatti di battaglie per la conquista dei diritti fondamentali che troppo spesso risultano negati e cancellati per fasce sempre più ampie della popolazione umana.
Di questo si è difatti discusso: di come sia possibile che alcune vite umane abbiano maggior valore di altre, di come non scandalizzi il paradosso di destini dell’esistenza opposti, come il poter trascorrere un’intera vita senza alcun diritto, in parallelo a chi invece si preclude ogni osservanza dei doveri, la convivenza e ilnon-sense di queste condizioni di assoluta disuguaglianza: esseri umani che fuggono dalla guerra o in cerca di una maggiore libertà e di lavoro verso luoghi che li tollerano o che li respingono (due facce della stessa medaglia), nonostante la storia testimoni che questi Paesi “di arrivo” non siano innocenti nell’aver determinato miseria e povertà in quei territori “di origine”, mirino di sfruttamento delle risorse, colonizzati, e resi più o meno invivibili agli abitanti a causa di vari agenti determinati spesso e volentieri, appunto, dall’esterno.
Utopia, etica e materialismo sono allora forse l’intreccio più utile per rispondere all’ineludibile esigenza di giustizia e dignità che esprime in maniera ormai impellente il genere umano, nell’attuale e globale contesto sociale-storico-economico, derivante dalle fallimentari politiche di globalizzazione economica, di affarismo, di governance finanziaria, di colonizzazione, di irrigidimento delle frontiere, le quali hanno certamente acuito le disparità e prodotto uno scenario cinico e contraddittorio. Se il valore dellavita umana è considerato di per sé tale, e non come valore tutto assorbito nel circuito del capitale-cannibale (né per altro come oggetto di strumentalizzazione da parte dalle istituzioni religiose), allora esso in maniera immediata riporta eticamente alla preservazione dei diritti inalienabili della persona e alla conquista di nuovi (magari preceduta da un’analisi su quali siano i nuovi soggetti del diritto), ad una visione del mondo dove il “confine” è il punto d’incontro, alla redistribuzione delle risorse economiche come risoluzione materiale ai danni insostenibili creati dai poteri forti e corrotti, e ossidatisi anche a causa della prolungata e diffusa acquiescenza complice delle maggioranze.
L’utopia della Carta di Lampedusa si rivela allora, come in un tutt’uno tra testo elaborato e processo materiale innescato, il sogno e il progetto di quanti sono andati a vedere l’ “isola che c’è” e che quindi, partendo dal dato drammaticamente reale, si sono rimboccati le maniche per cercare di ribaltare i rapporti di forza e l’ordine costituito, facendosi tessuto costituente che intreccia indissolubilmente e ricuce i desideri spezzati con gli obiettivi più pragmatici, credendo fortemente che esista già una potenza del comune in grado di costruire insieme, autorganizzandosi, una nuova mappa delle libertà, che non contempli insulse e mortifere frontiere, bensì l’incontro delle differenze come ricchezza.
“Lei è all’orizzonte. […] Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Cammino per dieci passi e l’orizzonte si sposta di dieci passi più in là. Per quanto io cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve l’utopia? Serve proprio a questo: a camminare”. E. Galeano (Finestra sull’utopia)
“ Una carta del mondo che non contiene il Paese dell’Utopia non è degna nemmeno di uno sguardo, perché non contempla il solo Paese al quale l’Umanità approda di continuo. E quando vi getta l’ancora, la vedetta scorge un Paese migliore e l’Umanità di nuovo fa vela”. O.Wilde (L’anima dell’uomo sotto il socialismo)
“Chi ci ha già rinunciato e chi ride alle spalle, forse è ancora più pazzo di te”. E. Bennato (L’isola che non c’è)
Intervento di Umberto Curi
Ho colto alcuni aspetti di particolare innovazione, che io credo che meritino di essere sottolineati e rilanciati, anche attraverso un ulteriore approfondimento di quei temi. Vi dico solo, in forma di telegrammi, alcuni spunti che a me sembrano essere di particolare rilevanza. Il primo: la Carta di Lampedusa, esplicitamente, direi, spudoratamente, si propone di essere, in tutta la prima parte, nella parte del preambolo, in maniera specifica, un documento utopistico. Dopo, nella parte conclusiva, si affonda in una serie di questioni molto concrete, ma le premesse sono poste in riferimento a quello che, ripeto, con una buona dose di spudoratezza, viene definita una descrizione e una rappresentazione che ha il carattere anche dell’utopia. E io mi domando se questo orizzonte, cioè l’orizzonte di andare al di là della pura e semplice accettazione del dato esistente, da combinare poi in maniera più o meno conveniente, se un’immaginazione capace di prefigurare nuovi assetti, non sia esattamente ciò di cui si avverte il bisogno e ciò di cui si segna e si registra la radicale mancanza in tutti i discorsi che si ascoltano nel nostro Paese e, più in generale, in Europa.
Da questo punto di vista, devo dire che se confrontiamo l’impianto della Carta con gli sterili vaneggiamenti che hanno accompagnato la discussione sulle radici culturali dell’Europa, alcuni anni fa, troviamo un respiro complessivo, una capacità di immaginazione, di costruzione di nuovi ordini che fa sfigurare in maniera del tutto palese le altre elaborazioni. Un secondo punto che a me sembra essere molto importante di quella Carta è che non è un appello: cioè la Carta non è il documento di una serie di soggetti più o meno incapaci di assumere iniziativa, che chiedono che altri intervengano al posto loro; si rovescia questa logica. La logica che informa la Carta di Lampedusa è dire: noi abbiamo questa visione, questo progetto, queste proposte, e non è che le trasferiamo ad altri, non è che chiediamo che l’Unione Europea se ne faccia carico, ma ci consideriamo soggetti responsabili di queste proposte, con tutte le implicazioni io direi di carattere politico e di movimento, che questa sottolineatura comporta. Ultimo punto, il massimo della elaborazione progressista in tema di immigrazione è quella si compendia nella totalmente disarmata, inerme, inefficace parola d’ordine dell’accoglienza: un letto, un pasto caldo, ecc. Badate, al di là del fatto un po’ banale, da logica molto rozza, che è meglio questa piuttosto che la parola d’ordinerespingimento, senza dimenticare che sono partorite entrambe queste parole d’ordine dallo stesso sistema politico, e io credo che bisognerebbe chiamare a rispondere coloro che hanno diffuso quel termine, quel concetto, quella politica del respingimento delle conseguenze che ne sono venute -qui faccio solo un inciso,- io ricordo nitidamente perchè mi trovavo in un contesto particolare, il 4 ottobre il giorno dopo la tragedia di Lampedusa, la Padania, il giornale ufficiale della Lega, titolava ‘Morti a causa del buonismo’.
Credo che rispetto a questo totale scarico di responsabilità da parte di una forza che è stata a lungo al Governo e alla quale nessuno è riuscito a chiedere di rendere conto degli effetti, dei risultati delle politiche che ha promosso e della vergognosa legislazione che si chiama Bossi-Fini, al di là di questo, resta un dato decisivo, cioè l’idea dell’accoglienza è un’idea che sottolinea una sorta di graziosa concessione che viene fatta sulla base appunto di una retorica buonista, cancellando un dato che dovrebbe essere fondamentale, cioè “confine” è il luogo del cum, è il luogo dell’incontro, è il luogo del confronto, il confine non è semplicemente un posto nel quale vedo un altro e lo respingo, il confine è il luogo nel quale mi metto in gioco nel rapporto con l’altro.
Da questo punto di vista, la tematica dell’accoglienza vede questi problemi solo nella dimensione ‘altruistica’ del rapporto con gli altri, ma non rimette in gioco cultura, principi di organizzazione, tradizioni, politiche di coloro che accolgono. Mentre il confine ci chiama a questo, a rimetterci tutti in discussione, a rimettere in discussione i feticci che sono stati costruiti e a procedere, ripeto, per una volta salvaguardiamo, valorizziamo il significato dell’utopia, nel nuovo orizzonte che questa Carta descrive.”
Intervento di Giuseppe Mosconi
La Carta di Lampedusa afferma, come fossero le cose più naturali, una serie di diritti, che appartengono in modo ovvio, per altro, all’essere umano, e cioè il diritto di spostarsi, il diritto di progettare la sua vita, il diritto di cercare un suo benessere dovunque riesca a costruirsi un progetto sulla faccia del pianeta. E’un diritto vecchio come il mondo, in qualche modo, e il fatto di proclamarlo in questo modo esplicito e cercando di coinvolgere una vasta area di opinione che prende posizione a sostegno di questa visione delle cose, la ritengo una operazione culturalmente molto produttiva, molto avanzata. Ma la chiarezza, la diffusività e la articolazione con cui questi argomenti e queste proposte sono state delineate e promosse ha il negativo alle spalle, proietta il negativo alle spalle invece tutta la serie di chiusure, di ostacoli e di restringimenti che caratterizzano la situazione attuale, in particolare quella che da anni ormai viene nominata Fortess Europe, la Fortezza Europa che si difende contro il resto del mondo, salvo poi aprirsi globalmente a logiche invasive e distruttive.
Intervento di Adone Brandalise
Una delle caratteristiche che noterete della Carta di Lampedusa che potrebbe farla apparire anche a molti come un documento irrealistico è che ritiene che sia possibile produrre nello spazio europeo una serie di mutamenti e viene conseguentemente in rotta di collisione con una serie di logiche che sono quelle che guidano complessivamente le nostre agende politiche, che ci rappresentano come una realtà a bassissimo tasso di modifica possibile. Come se si decidesse che in una casa si parte dal presupposto che non è possibile spostare neanche una sedia, o si parte invece dal presupposto che si può cambiare totalmente l’arredo. La Carta di Lampedusa tende, in definitiva, a ritenere che questa seconda possibilità sia concreta. L’altra cosa che, con certi limiti, che approfondendo il dibattito potrei anche sottolineare, tende a fare molto opportunamente è a superare un’antica legittima logica polemico-rivendicativa che resta in qualche modo subalterna all’immagine di un soggetto supposto potere, quell’atteggiamento con cui si dice ‘si sveglino gli Stati, si svegli la comunità europea, si reagisca finalmente alle necessità che abbiamo di fronte; ovverosia il riferimento a qualcuno che si supponga potrebbe fare se volesse’. Forse noi dobbiamo in qualche modo riconoscere, e questo ci porta vicino a quei motivi per cui ciò di cui stiamo parlando ci interessa, al di là dello specifico apparente dell’immigrazione, che forse ci troviamo in una situazione nella quale la realtà complessiva della mediazione politica e istituzionale di una realtà come l’Europa è qualcosa che può relativamente molto poco. Ci sono crisi di governo che effettivamente reagiscono sulla realtà macro e microfisica della nostra vita: ovverosia dovremmo stufarci di continuare a dare ai governi delle colpe, che senz’altro hanno, nella speranza che si vergognino e decidano di non averne più. Non vogliono farlo, ma soprattutto non possono farlo, non hanno le risorse culturali, tecniche, non hanno la cultura applicata capace di compiere un’operazione del genere. Noi siamo nella condizione di doverci confrontare quotidianamente con la loro attuale decomposizione e con una serie di processi nei quali le dimensioni istituzionali contano sì, ma mescolate a dimensioni che esse non riescono a controllare più.
Per il momento, rispetto alle dinamiche dei flussi migratori i nostri confini funzionano come dei filtri,o, per meglio dire, come una somma di calibri, fanno cioè passare un flusso umano attraverso una serie differenziata di modalità che li predispongono a forme diverse di utilizzazione e sfruttamento nello spazio in cui entrano. Quindi, contrariamente alle retoriche correnti, noi non siamo di fronte all’alternativa fare entrare o non fare entrare: il flusso c’è, è come pensare di fermare un fiume. Ci troviamo, caso mai, di fronte a una serie di alternative su come rapportarci rispetto a questo flusso. Le scelte che sono state prevalentemente fatte in Italia potremmo riassumerle in questo modo, e siamo ad un punto di rottura di questa tradizione, ciò che fa sì che anche una serie di discorsi buoni sull’immigrazione siano diventati obsoleti, cioè mordano poco, non servano. Allora le scelte che sono state fatte sono state essenzialmente queste: dell’immigrazione si finge di parlare, nel senso che la maggior parte del volume dei discorsi che riguardano l’immigrazione in Italia, un po’ come diceva tanti anni fa Claude Levi-Strauss dei bambini, sono discorsi tra adulti o per meglio dire discorsi tra italiani. Si parlava prima della Bossi-Fini: al di là di una valutazione per schieramenti politici, quella legge ha una caratteristica singolare, sembra quasi non riguardare la realtà dell’immigrazione.
In Italia, in larga parte il fenomeno migrante non è stato gestito, perché ciò che andava gestito era una forma di comunicazione che rappresentava l’ennesima forma di sfruttamento del migrante, in questo caso non delle sue braccia, non della sua vita, ma della sua immagine, sulla quale si sviluppava una costruzione sociale i cui significati erano tutti interni al ciclo politico italiano. Questo è il primo aspetto.
L’altro aspetto è stato quello di far circolare la presenza migrante come una presenza che in qualche modo, non a caso, doveva pervadere il corpo della realtà italiana un po’ come i liquidi di contrasto fanno in certi esami clinici: se noi seguiamo il percorso dell’immigrazione in Italia, vediamo che questo ci porta in tutta una serie di punti nevralgici della tenuta della nostra negazione sociale complessiva, e per diversi periodi di tempo l’immigrazione ci sta dentro come uno zed, come un’utilità congiunturale, come una sorta di utilizzazione transitoria di qualcosa che in termini però complessivi si desidererà sempre tenere sotto traccia, perché ciò che non si vuol fare è assumerla come una caratteristica di un complessivo mutamento che è avvenuto e di cui noi non ci vogliamo in larga parte rendere conto, non tanto per ciò che riguarda i migranti ma per ciò che riguarda noi stessi.
Per cui, noi stiamo arrivando ad un punto in cui occuparsi dell’immigrazione diventa una cosa seria soltanto se capiamo che stiamo occupandoci di una serie di segmenti di questioni che riguardano esattamente la forma complessiva del rapporto politica-economia-cultura in Italia e in Europa. E tanto più ci occupiamo veramente dei migranti, quanto più non scotomizziamo, non separiamo la questione che li riguarda da tutto ciò che essi sono già da adesso dentro il nostro funzionamento, perché in questa opposizione ‘accogliere/respingere’ non ci si accorge che la realtà dei migranti, la realtà dei luoghi da cui provengono è già dentro il funzionamento della nostra economia e della nostra politica.
Banalità: si parla normalmente della presenza dei migranti qui, e della nostra presenza là?
Delle nostre armi, della nostra economia, della nostra diplomazia, delle nostre missioni sanitarie, delle nostre partite di giro nella cosiddetta cooperazione internazionale?
Prima, Beppe faceva riferimento alla realtà siriana… non so se avete notato, ormai, negli ultimi decenni, anzi nell’ultimo decennio per la verità, si sono moltiplicate una serie di situazioni di cosiddetta crisi, apparentemente irrisolte, in cui, in realtà, si è sperimentata una nuova forma di normalità, quella in cui i colpi di stato, le guerre, i conflitti cosiddetti impropriamente etici, non sono legati a fasi acute che determinano un mutamento di controllo su un determinato paese, su un determinato complesso di risorse, come anche avveniva durante tutte le epoche della post-colonizzazione, sostanzialmente come guerra interposta tra potenze europee.
Sostanzialmente, in questi ultimi cinquant’anni, le potenze europee e le potenze mondiali hanno combattuto tantissime guerre tra loro, anche se erano alleate, solo che le combattevano in Africa o in Asia, dove c’era qualcun altro che ci metteva i morti, ma erano vere e proprie guerre, guerre per procura. Ora, la guerra per procura cessa di essere il colpo di mano in cui in due mesi qualcuno fa fuori un po’ di gente, tanto sono africani e instaura un nuovo controllo politico su di uno Stato.
La realtà attuale è quella, e questo è ancora più interessante, di un sistematico sfarinamento della complessità socio-culturale, e spesso anche fisica, di interi paesi. Ciò che sta accedendo in Siria è, essenzialmente, lo sbriciolamento di una cultura e di una popolazione. E lo sbriciolamento di una cultura e di una popolazione non è il prezzo per arrivare a una certa finalità, è la finalità. Guardatevi nel corso degli ultimi dieci anni, la fascia che va dall’Iraq alla Palestina, allo stesso Israele, che sta diventando un paese di pazzi e si sta autodistruggendo nell’ostinazione nelle sue politiche, e voi vedete uno scenario di realtà umane, culturali, secolari, e di realtà fisiche che sono state cornice per l’uomo per millenni, che stanno andando in polvere, che vanno sbriciolandosi, dove la cosiddetta emergenza è diventata una voluta normalità!
A cura di Irene Pietrafitta