Jobs Act per delega
di Augusto Illuminati
Stretto fra Europa e crisi, Renzi va avanti con il solito stile di annunci e invenzione di nemici[…] : dopo gufi, impiegati grassi e giudici dalle lunghe ferie, tocca ai lavoratori “privilegiati”. Al prossimo giro malati esosi e pensionati.
Scriveva il 17 agosto fa l’ex-rettore della Bocconi G. Tabellini sulSole-24 Ore definendo gli obbiettivi del Jobs Act: «Lasciare più spazio alla contrattazione aziendale, evitando che la contrattazione collettiva stabilisca salari minimi inderogabili e aumentare la flessibilità in uscita per i neo-assunti». Traduzione: ridurre i salari degli occupati e licenziare senza tante storie che è superfluo o pretende di resistere. In perfetta concomitanza alla fine di quello stesso mese il Fmi elaborava un testo, reso noto ieri, in cui suggeriva energicamente all’Italia la stessa ricetta: riduzione salariale, flessibilità, smantellamento degli accordi nazionali e dello Statuto dei diritti e contrattazione aziendale per incrementare la produttività. Il lavoro a tempo determinato è più precarizzato che non si può, bisogna quindi intaccare il lavoro a tempo indeterminato. Con la raccomandazione aggiuntiva di intervenire anche sulle pensioni e la sanità per ridurre la spesa pubblica. In cambio, il Fmi promette che la disoccupazione toccherà il suo record postbellico: 12,6% –allegria!
Per ora il governo Renzi, seguendo una tattica collaudata di annunci e smentite, ha sondato la possibilità di intaccare pensioni e sanità e ha rinviato il problema alla legge di stabilità, riservandosi di riproporre l’attacco cpm il pretesto della pressione europea, mentre ha deciso di offrire un boccone ai cani ringhiosi della trojka con quel mix di misure simboliche ed effettive che va sotto il nome di Jobs Act. Una legge delega che, in perfetto stile renziano, dice poco e rinvia a ulteriori decreti applicativi per smorzare le resistenze. Tuttavia il punto di maggior valore simbolico, l’art. 18 (il diritto di cacciare a pedate i rompiscatole e gli eccedenti ovvero la «flessibilità in uscita per i neo-assunti»), malgrado l’ipocrita vaghezza del testo, è sufficientemente chiaro: contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti secondo l’anzianità (del limite di tre anni non si parla più) vuol dire che le garanzie sono legate all’anzianità e quindi chi viene cacciato ha diritto a un indennizzo (quanto? Mistero) misurato sugli anni di impiego e non a un reintegro, che invece è un diritto soggettivo indipendente dall’anzianità –tanto che non puoi cacciare, nemmeno al primo anno, uno perché è gay o ebreo o vegano (ma se sciopera o aderisce all’Usb, sì). Art. 18, bye-bye.
Stante la ridotta area attuale di applicabilità, potremmo dire che è un evento simbolico ma di quelli contundenti, perché sancisce un principio che ricade in tutti i settori in tempi di crisi e ricattabilità della classe operaia nell’industria e nel commercio, sopra e sotto il limite dei 15 addetti e delle tipologie contrattuali. Che produca ondate di nuove assunzioni motivate dal cessato pericolo di inamovibilità, non ci credono neppure i grossi padroni, che ci ridono sopra magari preoccupati che la misura possa far rimbalzare il gatto morto dei sindacati confederali. I padroncini sotto i 15 dipendenti non avevano l’art. 18 e se ne sbattono altamente. Si noti infine che non solo il contratto a tutele crescenti sembra non incidere nello sfoltimento della giungla contrattuale delle 46 tipologie a tempo determinato già in essere, ma non è affatto detto che resti l’unica forma giuridica per i nuovi assunti, anzi è probabile che continui a coesistere con i progetti acausali e gli apprendisti senza apprendistato dei malfamati decreti Poletti.
Sul piano pratico, infatti, sono molto più incisivi quei decreti, che avevano anticipato per stralcio il Jobs Act, e l’articolo 4 emendato della legge-delega che prevede la possibilità del demansionamento in caso di ristrutturazione aziendale (come ridurre il salario agitando la sola minaccia del licenziamento) e l’adozione dei controlli a distanza sulle prestazioni lavorative –evoluzione elettronica degli sbirri e spioni di fabbrica di buona memoria. Anche l’obbiettivo principale del riordino degli ammortizzatori e delle politiche attive per il lavoro sembra quello di spostare obbligatoriamente i disoccupati verso settori a sottosalario, peggio di mini-job tedeschi. Qui però è difficile dare un giudizio in mancanza dei decreti attuativi, inoltre servono soldi al momento non previsti (la legge delega è “senza oneri”) e che neppure il governo sa dove reperire con la legge finanziaria. I contratti di solidarietà potranno coesistere con l’espansione dell’organico, mantenendo il supersfruttamento nella remota ipotesi di un ritorno allo sviluppo. Per tutto il resto, ci sono le nuove ignominiose regole sulla contrattazione e lo sciopero firmate da Cgil, Cisl e Uil e le limitazioni alla rappresentanza, di cui un tempo era vittima il sindacalismo di base, oggi anche la Fiom.
La legge delega è per ora passata al Senato in commissione, con grande giubilo del suo presidente Sacconi che ne ha dato una lettura senza ipocrisie, ma ha scatenato le proteste sindacali e una rottura all’interno del Pd. Beninteso, a base di annunci minacciosi e promesse di azioni più incisive quando arriveranno i decreti attuativi, quando cioè il cucciolo di tigre sarà cresciuto e avrà messo su zanne e unghie. Nondimeno cresce a sinistra una sorda resistenza a Renzi (in controtendenza notiamo il tempismo con cui Sel è corso in aiuto di Violante!), così come dilaga in tutti i settori parlamentari la riluttanza al patto del Nazareno, che si esprime nello stallo delle elezioni per la Consulta e il Csm e nell’impaludamento delle “riforme” e della legge elettorale. Di per sé il risveglio di Bersani, Cuperlo e Fassina ha un tono alquanto spettrale, ma le difficoltà oggettive di Renzi, impantanato nella sua stessa fuffa e nei ricatti giudiziari, e il fallimento del progetto neo-liberale nel far uscire l’Europa dalla stagnazione e l’Italia dalla recessione potrebbero far crescere una resistenza interna all’area socialdemocratica –guardiamo anche alle spaccature del Ps francese e alla crescita della Linke in Germania. Purtroppo in Italia il discredito del vecchio apparato diessino e la cupidigia di servitù di Sel lasciano spazio all’opposizione sempre più equivoca e sfiatata del M5s e in pratica impediscono qualsiasi proiezione del disagio crescente del Paese sul piano rappresentativo. Il che vuol dire non irrappresentabilità costituente dei movimenti, ma loro pessima rappresentanza in una situazione di relativa debolezza, incanalamento populista della protesta e delle contraddizioni dentro il popolo. Tuttavia, con lo sgonfiamento della bolla Renzi, in un modo o nell’altro se ne verrà fuori: l’esperimento dell’organizzazione e della rivolta nell’èra delle precarietà post-fordista è del tutto nuovo e rischioso ma praticabile, come si è mostrato pochi giorni fa nella discussione dello Strike Meeting.
da dinamopress