La strage più grande – Ecco come è maturato il massacro di Lampedusa
a cura del Prof. Fulvio Vassallo Paleologo, Università di Palermo
Protezione della frontiera europea o protezione dei diritti fondamentali dei migranti? Perché occorre abrogare la Bossi-Fini ed i pacchetti sicurezza Maroni.
Nel mese di maggio del 2009 l’allora presidente del consiglio italiano definiva i respingimenti verso la Libia, che come documentato dai media avevano carattere di misura collettiva, e dunque vietati dalle convenzioni internazionali, un “atto di grande umanità”, aggiungendo che per chi fuggiva da guerre e persecuzioni sarebbe stato possibile, anche in Libia, “rivolgersi all’agenzia Onu per dimostrare la loro situazione e, in caso, ottenere il diritto di asilo”. Affermazioni infondate. Infatti nel giugno del 2010 l’ufficio dell’ACNUR di Tripoli,dopo mesi di vicissitudini che ne avevano ridotto al minimo l’operatività, veniva chiuso dal governo libico con accuse infamanti per i funzionari delle Nazioni Unite, ai quali in seguito veniva consentito soltanto di occuparsi delle persone già prese in carico, senza potere trattare alcun nuovo caso o visitare le centinaia di migranti, in prevalenza sub sahariani, rinchiusi nei centri di detenzione. Quei centri che in passato erano stati finanziati anche dall’Italia e che oggi la Libia vorrebbe riattivare chiedendo altro sostegno economico all’Italia ed all’Europa. Ed in Italia è proprio questa la strada seguita dal vicepremier Alfano, di rientro da Lampedusa, dopo l’ultima strage quando propone un maggior coinvolgimento dei mezzi dell’Unione Europea e una rinnovata collaborazione dei paesi di transito per “proteggere e difendere” le frontiere di Schengen.
I respingimenti
Secondo quanto dichiarato da Berlusconi nel maggio del 2009, dopo l’avvio dei respingimenti concordati da Maroni con i libici, “se qualcuno è entrato nel nostro territorio, nelle acque territoriali, noi verifichiamo se ha il diritto di restare perché in condizione di chiedere asilo nel nostro Paese. Verifichiamo il suo diritto d’asilo, se proviene da situazioni di pericolo, mancanza di libertà o altro. Se però questi barconi, che sono purtroppo gestiti da organizzazioni criminali che si fanno pagare, che trasportano anche schiave, portate da noi per essere avviate alla prostituzione, se questi barconi noi li fermiamo prima delle acque territoriali, dando tutto l’aiuto e soccorso necessario non solo per salvargli la vita ma perché stiano bene, abbiano acqua, viveri, cure mediche, noi li scortiamo fino al punto d’imbarco e là, lo abbiamo fatto adesso per la Libia, ci sono per esempio le Agenzie delle Nazioni Unite che possono verificare lì, in loco, se hanno diritto all’asilo”. Un intervento umanitario, insomma, che oggi costituisce ancora la base del ragionamento che Alfano ha sviluppato in Parlamento dopo l’inaudita strage di Lampedusa.
Dopo le proteste suscitate dalla “riconsegna” diretta dei migranti da parte delle unità militari italiane entrate in un porto libico, alla fine del 2009 si instaurava una pratica più “discreta” che contemplava il trasbordo in alto mare dalle unità italiane alle unità libiche, in modo da evitare fotografi ed altri scomodi testimoni. I pattugliatori della Guardia di Finanza partivano al mattino dal porto di Lampedusa dopo la segnalazione delle carrette del mare, bloccavano le imbarcazioni cariche di migranti ed attendevano in alto mare l’arrivo delle motovedette italo-libiche, per rientrare in porto qualche ora dopo. Soltanto alcuni migranti, sepolti in un carcere a Tripoli, avrebbero potuto testimoniare sulle violenze subite nelle operazioni di“ordinary rendition” ai libici. Ma ormai, a distanza di anni, di molti di loro non si sa più nulla. Intanto i responsabili politici di queste operazioni negavano la fondatezza delle critiche rivolte ai respingimenti collettivi da parte dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, dalla Chiesa cattolica, da autorevoli rappresentanti della Commissione Europea, da ultimo dall’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani. Per tutti i critici, piuttosto che repliche basate sulle norme e sui fatti, da parte delle autorità di governo e dei loro sostenitori soltanto minacce e insulti, anche tramite la comunicazione sul web, oppure mistificazione del contenuto delle convenzioni internazionali e travisamento dei fatti, come se condurre in porto sicuro (place of safety) alcune migliaia di migranti equivalesse ad una apertura indiscriminata delle frontiere. E anche tanta disinformazione, come quando nel 2010 si è sostenuto che l’Italia ha effettuato il maggior numero di salvataggi in mare, tra i paesi europei, prendendo in esame il periodo 2007-2009. Un ulteriore elemento di confusione perché nelle statistiche diffuse da Frattini, allora ministro degli esteri, si consideravano anche i migranti salvati dalla marina italiana e condotti a Lampedusa negli anni (2007 e 2008) in cui non si erano più effettuati respingimenti in Libia ( salvo rare eccezioni) e le regole di ingaggio delle nostre unità militari, decise dal governo Prodi, erano considerate come un esempio positivo a livello europeo.
La Bossi-Fini ed il pacchetto sicurezza
Il Testo Unico sull’immigrazione n.286 del 1998, come modificato dalla legge 189 del 2002, intesa come Bossi-Fini, e come poi ulteriormente inasprito dai pacchetti sicurezza imposti da Maroni nel 2009 e nel 2011, contiene norme che hanno avuto un ruolo rilevante per la discrezionalità consentita alle autorità di polizia nella violazione di consolidati principi di diritto internazionale e di diritto dell’Unione Europea, oltre che di dubbia costituzionalità. E non conforta certo il fatto che soltanto oggi Giuliano Amato, già ministro dell’interno ed oggi giudice costituzionale, sollevi dubbi sulla legittimità costituzionale della detenzione amministrativa dei migranti irregolari. Dubbi ancora più gravi, se possibile, si possono nutrire sull’istituto del respingimento, un baluardo delle misure di contrasto dell’immigrazione “clandestina”, affidato nella sua concreta attuazione alla discrezionalità delle autorità di polizia in assenza di un effettivo controllo giurisdizionale. L’istituto del respingimento è stato applicato con modalità elusive delle principali garanzie dei diritti umani stabilite dalle carte internazionali e dal diritto interno, sia in acque internazionali che alle frontiere marittime ed ha colpito sia potenziali richiedenti asilo che migranti cd. economici, una distinzione che sembra sempre più difficile fare scomparire. Il legame tra i respingimenti, spesso collettivi, e gli accordi bilaterali di collaborazione nel contrasto della cd. immigrazione “clandestina”, e quindi di riammissione, ha attribuito agli accordi bilaterali un rango superiore alle norme costituzionali o ai principi affermati dalla Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Questo legame tra respingimenti e accordi bilaterali si ritrova espressamente nella legge Bossi-Fini ed è stato il perno delle politiche di contrasto dell’immigrazione “clandestina”, seppure con diverse sfumature operative, di tutti i governi italiani che si sono succeduti nel tempo.
Le pratiche di respingimento sommario in acque internazionali, al di là della ambigua formulazione dell’art. 10 del T.U. sull’immigrazione del 1998 in materia di respingimento, norma che peraltro ammette l’ingresso di immigrati irregolari nel territorio nazionale per ragioni di soccorso, violano – come si vedrà meglio più avanti – diverse disposizioni della Convenzione di New York sui diritti dell’infanzia del 1989, delle Direttive comunitarie in materia di accoglienza (2003/9/CE), di qualifiche (2004/83/CE) e di procedure di asilo (2005/85/CE) relative ai richiedenti protezione internazionale, il Regolamento delle frontiere Schengen del 2006, oltre che le disposizioni interne di attuazione. In tutti questi atti assume rilievo centrale la tutela dei diritti fondamentali delle persone ed il riconoscimento del diritto di chiedere asilo o altra forma di protezione internazionale. Appare dunque fondata la valutazione del procuratore capo di Siracusa secondo il quale, in occasione delle attività di respingimento verso la Libia poste in essere da unità della Guardia di finanza il 31 agosto del 2008, «il comandante doveva riportare gli immigrati in un porto italiano dove c’è la apposita commissione che valuta chi ha diritto e chi ha diritto a chiedere asilo». A distanza di qualche anno sembra legittimo chiedersi che fine abbia fatto quell’indagine, trasferita per ragioni di competenza al tribunale di Roma, o se si è chiusa con l’ennesima archiviazione. Evidentemente nel governo di quel tempo non si riteneva necessario applicare la normativa comunitaria in materia di asilo e di controllo delle frontiere esterne, e anche le Convenzioni internazionali venivano valutate come un “grimaldello” per scardinare la normativa e gli accordi operativi in materia di contrasto dell’immigrazione irregolare. Si giungeva persino a capovolgere quanto affermava la magistratura impegnata nei controlli di legalità degli atti delle autorità amministrative, al punto che il sottosegretario all’interno Mantovano, nel 2009, affermava che: “c’è una parte della magistratura che interpreta il suo ruolo come alternativo rispetto alla politica del governo in materia d’immigrazione: siamo all’attivo boicottaggio di una legge votata dal Parlamento”. Davano sempre più fastidio, fino a subire una vera e propria insofferenza, quei giudici che non seguivano ad occhi chiusi le ricostruzioni contenute nelle informative di polizia, e osavano addirittura mettere sotto inchiesta i comportamenti seguiti dalle stesse forze dell’ordine, in assenza di provvedimenti amministrativi conformi alle leggi ed alle Convenzioni vigenti.
Pochi giorni dopo i respingimenti collettivi verso Tripoli del 6/7 maggio 2009, con una festosa cerimonia ad Anzio, l’ex ministro Maroni consegnava all’ambasciatore libico tre unità navali costruite in Italia, consentendo l’imbarco su questi mezzi di equipaggi misti, formati anche da agenti della Guardia di Finanza. In quella occasione, come riportato anche da il Giornale del 14 maggio, l’ambasciatore libico a Roma dichiarava che chiunque in Libia poteva lavorare e presentare una domanda di asilo, aggiungendo che il suo paese stava valutando la possibilità di sottoscrivere la Convenzione di Ginevra. Poi, come riporta l’articolo, alla domanda se continueranno i respingimenti che nei giorni scorsi hanno riportato a Tripoli oltre 500 migranti, Gaddur rispondeva: “noi abbiamo un accordo con l’Italia firmato il 29 dicembre 2007 con un governo di centrosinistra e lo stiamo applicando con il governo di centrodestra”. Grazie al maggiore impiego delle motovedette italo-libiche le operazioni di respingimento potevano così proseguire al sicuro da inchieste internazionali, anche se il coinvolgimento italiano restava evidente, per la catena di comando unica prevista dai protocolli operativi e per l’imbarco di agenti della guardia di finanza sulle unità libiche, con funzioni di istruzione e manutenzione, ma su mezzi impiegati in missioni di pattugliamento in acque internazionali.
Intanto era sempre più intenso lo sforzo di coinvolgere nel finanziamento delle missioni di respingimento l’Unione Europea, che però non andava oltre qualche generica dichiarazione di intenti . I finanziamenti decisi nel 2010 e nel 2011 dall’Unione per sostenere le operazioni di contrasto dell’immigrazione irregolare nel Mediterraneo centrale, affidate all’agenzia FRONTEX ed ai mezzi aero-navali che questa riusciva a racimolare, e soprattutto la generale ritrosia a finanziare le politiche di trattenimento e di deportazione di Gheddafi, corrispondevano allo stallo delle trattative per un intesa politica complessiva tra l’Unione Europea e la Libia, e di fatto gravava solo sull’Italia il peso economico e politico delle intese raggiunte con la Libia per la“lotta contro l’immigrazione clandestina“. Il governo Berlusconi poteva vantare i”successi” nella sostanziale riduzione degli sbarchi in Sicilia, passati da oltre 36.000 nel 2008 a circa 4.000 persone nel 2010, anche se nel frattempo la presenza di immigrati irregolari in Italia cresceva in misura esponenziale e tutte le agenzie umanitarie denunciavano il calo degli arrivi dei richiedenti asilo in Italia, paese che in quegli stessi anni registrava uno dei dati percentuali più bassi in tutta Europa per quanto concerneva le richieste di protezione internazionale.
I respingimenti informali
Le pratiche di respingimento collettivo informale si spostavano allora sulla terraferma, nell’isola di Lampedusa e in tutti gli altri luoghi nei quali i migranti partiti dalla Libia, ma anche dall’Egitto e dall’Algeria, venivano fatti sbarcare, o venivano rintracciati subito dopo lo sbarco. Dopo il loro ingresso nel territorio nazionale, spesso per esigenze di soccorso, migliaia di persone sono state trattenute in strutture di diversa tipologia e destinazione, senza alcun provvedimento che legittimasse lo stato di detenzione, e quindi accompagnati in frontiera dalle autorità di polizia senza le formalità prescritte dalle leggi nazionali e dalle direttive comunitarie, anche in violazione del Codice frontiere Schengen, dettato dal Regolamento Comunitario n.562 del 2006. Nel corso di questi ultimi anni queste pratiche informali di polizia di frontiera si sono rivolte soprattutto nei confronti di egiziani e tunisini, in virtù degli accordi di riammissione rinegoziati dal governo Monti e mantenuti ancora oggi operativi dal governo Letta-Alfano. Centinaia di migranti tunisini ed egiziani sono stati rimpatriati con respingimenti collettivi vietati da tutte le convenzioni internazionali, dagli aeroporti di Catania, Palermo, Bari, senza avere neppure la possibilità di incontrare i rappresentanti delle organizzazioni internazionali (OIM, ACNUR, Save The Children) convenzionate con il ministero dell’interno, come denunciato in un comunicato del 30 aprile 2013.
Si è dunque verificata una espansione, al di fuori di qualsiasi controllo giurisdizionale, della discrezionalità amministrativa, nel decidere il destino delle persone, anche a costo di violare consolidati principi di diritto internazionale, comunitario ed interno, in terra come in mare. Le prassi applicate dalle autorità di polizia, variabili a seconda dei tempi e dei luoghi,in base agli accordi di polizia o ai memoriali di intese negoziati di continuo dai ministri dell’interno, si sono tradotte nella mancata ammissione al territorio o nel diniego, o ancora, nei casi di trattenimenti informali, nel ritardo di atti formali, come i provvedimenti di respingimento differito o di trattenimento disposti dal questore. Provvedimenti questi che dovrebbero essere adottati tempestivamente nei confronti di tutti coloro che varcano la frontiera senza validi documenti, o che sono tratti in salvo in acque internazionali e condotti senza documenti nel territorio dello stato per finalità di soccorso e assistenza. Si è riscontrato in questi casi, a partire dalla stessa decisione di procedere agli interventi di soccorso in acque internazionali, un forte ruolo gerarchico della Direzione generale immigrazione del ministero dell’interno, al riparo da un qualsiasi controllo giurisdizionale, con un impegno costante che nel tempo si è rivolto contro migranti di varia provenienza e nelle condizioni più disparate, vittime di forme diverse ed informali di negazione dell’accesso al territorio e di gravi privazioni arbitrarie della libertà personale. Basti pensare al caso giudiziario della nave tedesca Cap Anamur nel 2004), un tentativo di respingimento collettivo durato tre settimane fino al respingimento in acque internazionali della nave turca Pinar, nel 2009, dopo che questa aveva effettuato una azione di salvataggio, ed alla quale solo dopo una grande mobilitazione ed un forte intervento della stampa, ormai a bordo della nave, si consentì l’attracco in porto. Dopo il salvataggio di 37 migranti africani, in procinto di annegare a sud di Lampedusa, effettuato dalla nave tedesca Cap Anamur nel 2004, un caso che si era concluso con l’espulsione sommaria di tutti i naufraghi e con l’arresto di tre dei loro salvatori, si è svolto un processo penale che si è concluso ad Agrigento con la piena assoluzione degli imputati soltanto nel 2010. Malgrado ci fossero tutti gli estremi per la individuazione di un respingimento collettivo, la Procura di Agrigento ha tentato per anni di giungere alla condanna del comandante della nave umanitaria Cap Anamur, del suo secondo, e del responsabile dell’omonima associazione tedesca, specializzata da anni proprio nel salvataggio e nel soccorso dei migranti in mare, al punto che la nave risultava iscritta in uno specifico registro presso le autorità portuali di Amburgo, riservato alle navi che avevano compiti di soccorso di persone in mare. E non si può certo dimenticare il processo intentato ad Agrigento nel 2007 ai danni di alcuni pescatori tunisini che avevano salvato un gruppo di migranti in procinto di affondare in alto mare. Quando i due pescherecci erano già in vista di Lampedusa sotto scorta della guardia costiera giungeva l’ordine di invertire la rotta e ricondurre i migranti in Tunisia, i comandanti proseguivano la rotta e dopo lo sbarco dei migranti nel porto di Lampedusa gli equipaggi venivano arrestati e le imbarcazioni sequestrate. Un processo che dopo una prima condanna dei due comandanti delle imbarcazioni (mentre il resto dell’equipaggio veniva assolto) da parte del Tribunale di Agrigento, si è concluso il 21 settembre 2011 con l’assoluzione piena di tutti gli imputati presso la Corte di Appello di Palermo.
Il ricatto ai pescatori che si prodigavano nei soccorsi
Lo spauracchio di una incriminazione per il reato di agevolazione dell’immigrazione clandestina, previsto dall’art. 12 del Testo Unico sull’immigrazione n. 286 del 1998, come modificato dalla legge Bossi-Fini nel 2002, ha indotto molti pescatori e i comandanti delle imbarcazioni commerciali, nella maggior parte dei casi, a non intervenire prendendo direttamente a bordo le persone che rischiavano a fare naufragio. Anche le segnalazioni di imbarcazioni in difficoltà si sono rarefatte, per il timore di potere essere ritenuti come “nave madre” , una ricostruzione giudiziaria che ha costituito il filone principale delle indagini penali condotte nel 2013 a fronte della ripresa degli sbarchi nella Sicilia orientale, in particolare da Porto Palo di Capo Passero alle spiagge di Siracusa e Catania. Nei diversi casi di procedimenti penali a carico di protagonisti di azioni di salvataggio, verificati in passato, a fronte di comportamenti altamente discrezionali delle autorità di polizia, su impulso diretto dei vertici del ministero dell’interno, piuttosto che inseguire l’accertamento, per non dire l’invenzione, di una fattispecie penale a carico di chi aveva compiuto una azione di salvataggio, si sarebbero dovuto verificare se le autorità militare intervenute avessero rispettato la legge nazionale e le Convenzioni internazionali. In realtà, come è emerso dai processi che si sono conclusi con assoluzioni degli autori del soccorso umanitario, le vere vittime senza voce delle operazioni di contrasto dell’immigrazione clandestina sono stati proprio i migranti ai quali si impediva per giorni l’accesso al territorio, e che poi, una volta raggiunta la terraferma venivano rinchiusi in un centro di detenzione in vista del loro allontanamento forzato. Queste incriminazioni hanno prodotto anche gravi effetti indiretti. Nel corso degli ultimi anni molti migranti dopo avere concluso la traversata, magari dopo giorni di abbandono in mare, giorni nei quali altri loro compagni avevano perso la vita, hanno riferito di essere stati avvistati da navi commerciali o da pescherecci, che però malgrado l’avvistamento e le loro richieste di aiuto non sarebbero mai intervenuti.
La retorica del controllo dei confini ed il caso Hirsi
Coloro che, come Alfano e Brunetta, oggi cercano di anteporre il problema della sorveglianza delle frontiere esterne dell’Unione Europea, ed auspicano per questo un maggiore coinvolgimento delle polizie dei paesi di transito come l’Egitto e la Libia, manca forse proprio la memoria storica. Forse dimenticano o non gli conviene ricordare, che proprio queste pratiche di collaborazione con i paesi di transito al fine di difendere la “frontiera comune” dell’Unione Europea ha portato l’Italia ad eseguire quei respingimenti collettivi che nel 2012 anche la Corte Europea dei diritti dell’Uomo ha condannato, ma che l’ex ministro Maroni difende ancora oggi sostenendo che per effetto di quella “cooperazione pratica di polizia”, invocata ancora oggi in Parlamento dopo la strage di Lampedusa, si sarebbero salvate migliaia di vite umane. In realtà migliaia di persone sono state sottoposte in Libia, proprio per effetto di quegli accordi e di quelle prassi di polizia, a trattamenti inumani o degradanti, come lo stupro sistematico, la detenzione arbitraria, la tortura fisica e psicologica.
Il caso più eclatante, si potrebbe dire emblematico, di respingimento collettivo rimane comunque quello oggetto del procedimento Hirsi e altri contro Italia, sul quale il 23 febbraio del 2012 si è pronunciata all’unanimità, con una decisione inappellabile di condanna, la Grand Chambre della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo. La vicenda risale al maggio 2009 ed era stata documentata da un fotografo italiano che si trovava a bordo dell’unità della guardia di finanza Bovienzo, foto poi pubblicate sul giornale Paris Match, ancora oggi facilmente reperibili in rete, malgrado i tentativi del governo italiano di ritirarle dalla circolazione. Si trattava di un gruppo di circa 200 persone, in prevalenza somali ed eritrei, tra cui bambini e alcune donne in stato di gravidanza, che a bordo di tre imbarcazioni avevano lasciato le coste libiche nel tentativo di raggiungere quelle italiane. Il 6 maggio 2009 le imbarcazioni cariche di migranti si trovavano ormai a 35 miglia a sud di Lampedusa, in zona sotto controllo maltese, e venivano raggiunte dalle navi della Guardia di Finanza e della Guardia Costiera italiana. I militari italiani dopo averli trasferiti sulle loro navi, in particolare sul pattugliatore Bovienzo della Guardia di Finanza, li riconducevano in Libia, dove venivano consegnati alle autorità locali malgrado le loro suppliche e in qualche caso, nei confronti dei più disperati, utilizzando mezzi violenti.
I migranti denunciavano che durante il viaggio le autorità italiane non li avrebbero informati sulla loro destinazione, anzi avrebbero inizialmente mentito affermando che si sarebbero diretti vero Lampedusa, né avrebbero effettuato alcuna procedura di identificazione individuale. Ventiquattro cittadini somali ed eritrei, raggiunti da rappresentanti dell’ACNUR e da associazioni umanitarie presenti in Libia, hanno quindi denunciato alla Corte di Strasburgo di essere stati oggetto di un’espulsione collettiva e di non essere stati in grado di impugnare davanti alle autorità italiane il loro respingimento collettivo. Secondo quanto riferito nel ricorso inoltrato alla Corte gli stessi dichiaravano inoltre che, riconducendoli in Libia, le autorità italiane li avrebbero esposti al rischio di essere torturati o maltrattati. Torture e maltrattamenti che venivano poi confermate da testimonianze e da riprese video, come quelle mandate in onda dalla trasmissione Presa Diretta di Riccardo Iacona, in un servizio che si intitolava “Respinti”, trasmesso il 6 settembre del 2009. Tutto ciò in violazione della degli articoli 3 e 13 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo e dell’art. 4 del Procollo n. 4 allegato alla CEDU che vieta le espulsioni collettive.
Nel comunicare il ricorso sul caso Hirsi ed altri al governo italiano, la Corte di Strasburgo, oltre a domandare chiarimenti sull’episodio specifico, chiedeva di produrre i testi degli accordi firmati con il governo libico il 27 dicembre 2007 e il 4 febbraio 2009, e di spiegare il rapporto tra le operazioni condotte in base a questi accordi con la Libia e le attività svolte nell’ambito della missione dell’Agenzia europea Frontex. Anche in questo caso, il governo italiano, a corto di argomentazioni giuridiche per difendersi, aveva cercato di evitare che la corte decidesse sul merito del ricorso agitando le consuete eccezioni procedurali, a partire dalla contestazione dell’autenticità delle procure conferite dai ricorrenti agli avvocati. Secondo la sentenza, dopo avere accertato che ai ricorrenti erano state rilevate persino le impronte digitali ed erano state fatte numerose fotografie,”la Cour n’a aucune raison de douter de la validité des procurations. Dès lors, elle rejette l’exception du Gouvernement“.
La Corte di Strasburgo ha dunque respinto con nettezza la solita argomentazione addotta dagli agenti del governo italiano per i quali a tutte le procure dei ricorrenti sarebbero state apposte firme false, una tecnica diversiva già utilizzata con successo nei giudizi davanti alla Corte Europea, a partire dal caso Hussun/Italia del 2005, un caso che la Corte ha cancellato dal ruolo nel 2010. In quella occasione, i respingimenti collettivi erano stati realizzati con voli prima militari, poi civili, diretti da Lampedusa verso la Libia, e non era stato possibile raccogliere una documentazione fotografica individuale, proprio a causa delle modalità della riconsegna da parte dei militari italiani ai libici e per la rapidità dell’allontanamento forzato da Lampedusa, avvenuto con la completa militarizzazione dell’intera zona aeroportuale. In quegli anni, occorre ricordare alla luce della relazione della Corte dei Conti per il 2006, il governo italiano finanziava anche i voli di rimpatrio verso i paesi di origine, di migliaia di immigrati irregolarmente presenti in Libia. Mentre la polizia libica collaborava stabilmente con gli intermediari. Persone che a seguito del loro rimpatrio nel paese di origine, potevano finire in un carcere o sotto tortura in un commissariato di polizia.
Ritornando alla sentenza della Corte Europea di Strasburgo sul caso Hirsi, il governo italiano si è difeso davanti alla Corte di Strasburgo con tutti i mezzi a disposizione e, come sosteneva Maroni, ha continuato ad approfittare delle modalità delle operazioni di respingimento collettivo in acque internazionali, come se gli agenti imbarcati a bordo dei pattugliatori operassero al di fuori di qualsiasi giurisdizione. Nelle eccezioni preliminari del governo davanti alla Corte europea si è giunti addirittura ad argomentare anche che i ricorrenti non avrebbero esaurito le vie di ricorso interno, e che dunque non avrebbero avuto il diritto di ricorrere alla Corte di Strasburgo, altro consueto espediente per sottrarsi al giudizio della Corte europea. Ma questa obiezione è stata respinta. Ed anche se i migranti respinti in Libia avessero potuto far pervenire una denuncia al giudice penale italiano, al quale peraltro il 17 giugno 2009 veniva trasmesso da alcune associazioni un esposto sugli stessi fatti, poi archiviato dalla Procura di Roma e dal Tribunale dei Ministri, non si poteva certo pensare che la eventuale condanna da parte del giudice italiano avrebbe modificato la loro drammatica situazione nei luoghi nei quali si trovavano.
I giudici della Corte di Strasburgo hanno bocciato quindi la tesi del governo secondo la quale i respingimenti collettivi avrebbero trovato una base giuridica negli accordi bilaterali di cooperazione nel contrasto dell’immigrazione irregolare, conclusi nel tempo con la Libia. Una argomentazione che nel 2011 sarà ripresa proprio dall’ex ministro Maroni per giustificare i respingimenti collettivi verso la Tunisia, come se la legittimità dei respingimenti si potesse valutare solo alla stregua degli accordi bilaterali. Nella sentenza Hirsi/Italia i giudici aggiungono poi che “par ailleurs, la Cour observe que l’Italie ne saurait se dégager de sa propre responsabilité en invoquant ses obligations découlant des accords bilatéraux avec la Libye. En effet, à supposer même que lesdits accords prévoyaient expressément le refoulement en Libye des migrants interceptés en haute mer, les Etats membres demeurent responsables même lorsque, postérieurement à l’entrée en vigueur de la Convention et de ses Protocoles à leur égard, ils ont assumé des engagements découlant de traités (Prince Hans-Adam II de Liechtenstein c. Allemagne [GC], no 42527/98, § 47, CEDH 2001-VIII ; et Al-Saadoon et Mufdhi c. Royaume-Uni, no 61498/08, § 128, 2 mars 2010).
La Corte stabilisce quindi che l’Italia, con i respingimenti effettuati verso la Libia il 6-7 maggio del 2009 ha violato gli articoli 3 ( Divieto di tortura e di altri trattamenti inumani o degradanti), l’art. 13 ( Diritto di difesa) della CEDU, e l’art. 4 del Protocollo n.4 allegato alla stessa Convenzione. Infatti“la Cour estime qu’en transférant les requérants vers la Libye, les autorités italiennes les ont exposés en pleine connaissance de cause à des traitements contraires à la Convention….la Cour estime que l’opération ayant conduit au transfert des requérants vers la Libye a été menée par les autorités italiennes dans le but d’empêcher les débarquements de migrants irréguliers sur les côtes nationales. Per giungere a questa condanna la Corte di Strasburgo attribuisce particolare rilievo proprio alle dichiarazioni rese da Roberto Maroni alla stampa ed in Senato pochi giorni dopo i respingimenti, dicharazioni nelle quali il ministro rivendicava l’importanza dei respingimenti in acque internazionali come strumento di contrasto dell’immigrazione clandestina ed adduceva in tal senso una“importante diminuizione“ degli sbarchi a partire dal mese di maggio del 2009.
I Giudici europei respingono poi l’argomentazione del governo italiano secondo il quale i respingimenti verso la Libia sarebbero stati consentiti dagli accordi internazionali in materia di contrasto delle orgabizzazioni criminali che trafficano migranti, dunque la Convenzione di Palermo ed i protocolli aggiuntivi del 2000. Argomentazione questa che il governo aveva già utilizzato nei comunicati diffusi dal ministero dell’interno ai mezzi di informazione.
Dal Messaggero del 9 agosto 2009 si apprendeva che che “nella relazione consegnata al Comitato del Consiglio d’Europa per la prevenzione della tortura (Cpt) il governo nega di aver messo in atto respingimenti, ma di aver rispettato le norme contenute nel «protocollo opzionale dell’Onu sul traffico di persone via terra, mare, aria». Secondo la stessa fonte “tra maggio e luglio scorsi, sono state oltre 600 le persone fermate in mare prima del loro arrivo in Italia e rinviate, per la maggior parte in Libia e Algeria. Tra loro, secondo quanto riferito nella relazione consegnata al Cpt, anche donne e minori. Il Cpt è stato in missione in Italia per controllare che nessuno venga rinviato in un Paese dove correrebbe il rischio di essere torturato o maltrattato”. In realtà i migranti respinti in acque internazionali, e consegnati alle autorità
libiche, a partire dal 7 maggio 2009 sono stati oltre 1100, considerando non solo quelli respinti in Libia, ma anche quelli che nello stesso periodo venivano respinti verso l’Algeria, come si può verificare dai diversi casi di respingimento riferiti nel 2009 dal sito Fortress Europe.
In occasione della visita in Italia del Comitato per la prevenzione della tortura (CPT) del Consiglio d’Europa dal 27 al 31 luglio del 2009, nel pieno della campagna di respingimenti collettivi verso la Libia, si tentava così di confondere la pubblica opinione travisando la portata applicativa del Secondo Protocollo allegato alla Convenzione di Palermo del 2000 contro la Tratta di esseri umani”, che richiama forme diverse di collaborazione tra stati al fine di contrastare il fenomeno della tratta. Appare evidente che i principi, anche garantisti, affermati dal secondo Protocollo allegato alla Convenzione di Palermo, con riferimento alle espulsioni di chi fosse già entrato nel territorio nazionale non potevano valere per coloro che erano respinti in acque internazionali, o che venivano imbarcati su mezzi italiani a seguito di azioni di salvataggio. La collaborazione tra stati di cui si parla nel Protocollo ha una portata limitata a livello di scambio di informazione ed alla relativa cooperazione di polizia, ma non legittima alcuna forma di respingimento collettivo in mare. Nessun protocollo aggiuntivo ad una convenzione internazionale può violare la Convenzione di Ginevra sui rifugiati (in particolare il divieto di refoulement affermato dall’art. 33), la Convenzione ONU del 1989 sui diritti dei minori, le garanzie previste dalla Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’uomo per impedire trattamenti inumani o degradanti (art.3). Come afferma la Corte Europea dei diritti dell’Uomo nel caso Hirsi la tutela della persona oggetto di una procedura di allontanamento forzato, a fronte del rischio di subire trattamenti inumani o degradanti, hanno carattere assoluto ed inderogabile. Il Protocollo aggiuntivo alla Convenzione di Palermo contro la tratta del 2000, imponeva peraltro una tutela particolarmente rafforzata delle donne e dei minori non accompagnati, che le autorità politiche e militari italiane hanno condannato al respingimento verso la Libia, ed in nessuno dei suoi paragrafi si trova il benché minimo appiglio per giustificare la prassi illegale dei respingimenti collettivi, vietati dall’art. 4 del Protocollo n.4 della Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo.
La Corte Europea dei diritti dell’Uomo ha dunque riscontrato una violazione da parte dell’Italia del divieto di espulsioni collettive ( alle quali si assimilano, da questo punto di vista, anche i respingimenti collettivi) sancito dall’art. 4 del protocollo n.4 allegato alla Convenzione Europea a salvaguardia die diritti dell’Uomo. Secondo la Corte, la riaffermazione del divieto assoluto di tortura ed altri trattamenti inumani o degradanti, come del divieto di espulsioni collettive, affermato adesso con una prescrizione immediatamente vincolante anche dall’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, non pregiudica il diritto degli stati di stabilire le loro politiche in campo di immigrazione, ma le difficoltà nel controllo dei flussi migratori non può giustificare il ricorso a misure in contrasto con quanto previsto dalle disposizioni della Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo, che vanno applicate alla luce del principio di buona fede nella direzione di garantire il cd. effetto utile. La Corte ha riconosciuto poi che l’attuazione di misure di allontanamento forzato in acque internazionali per impedire l’ingresso nel territorio, costituisce un atto di esercizio della giurisdizione statale che va sottomesso al divieto di espulsioni collettive affermato dall’art. 4 del Protocollo n. 4 allegato alla CEDU. In conclusione, “la Cour rejette l’exception du Gouvernement et considère que l’article 4 du Protocole no 4 trouve à s’appliquer en l’espèce.
I giudici di Strasburgo rilevano infine un‘ ulteriore violazione della CEDU con riferimento all’art. 13 che garantisce i diritti di difesa, in collegamento con le violazioni riscontrate dell’art. 3 e dell’art. 4 del protocollo n.4 allegato alla CEDU:“quant à l’argument du Gouvernement selon lequel les requérants auraient dû se prévaloir de la possibilité de saisir le juge pénal italien une fois arrivés en Libye, la Cour ne peut que constater que, même si une telle voie de recours est accessible en pratique, un recours pénal diligenté à l’encontre des militaires qui se trouvaient à bord des navires de l’armée ne remplit manifestement pas les exigences de l’article 13 de la Convention, dans la mesure où il ne satisfait pas au critère de l’effet suspensif consacré par l’arrêt Čonka, précité. La Cour rappelle que l’exigence, découlant de l’article 13, de faire surseoir à l’exécution de la mesure litigieuse ne peut être envisagée de manière accessoire (M.S.S., précité, § 388). La Cour conclut qu’il y a eu violation de l’article 13 combiné avec les articles 3 de la Convention et 4 du Protocole no 4.
La decisione sul caso Hirsi ed altri ha una valenza molto ampia che non si limita al respingimento collettivo effettuato dalle autorità italiane il 6/7 maggio del 2009, né può ritenersi una sentenza storicamente datata, come se la situazione esistente al tempo della dittatura di Gheddafi, nei confronti dei migranti in transito in Libia, fosse oggi migliorata. E il divieto di espulsioni collettive vale in ogni caso, quale che sia il paese nel quale si viene respinti, a garanzia di tutti i migranti e non solo dei potenziali richiedenti asilo. Tutto questo va ricordato nel momento in cui, pure davanti ad una strage di proporzioni inaudite si continua a sbandierare la questione della responsabilità dell’Europa nella protezione delle frontiere comuni, al fine evidente di ottenere mezzi, finanziari e tecnici, e legittimazione politica per nuove pratiche di respingimento. I principi di diritto affermati dalla Corte di Strasburgo nel caso Hirsi dovranno essere rispettati anche in futuro nella stipula e nella attuazione degli accordi bilaterali sul contrasto della cd. immigrazione clandestina, e riguardano non solo i respingimenti collettivi che si possono verificare in acque internazionali, ma i più diffusi respingimenti collettivi in frontiera ed i respingimenti differiti adottati in forma collettivi, senza procedimenti individuali, che si continuano a verificare sia alle frontiere meridionali, che alle frontiere rivolte verso l’Europa orientale, come nei porti di Venezia, Ancona, Brindisi. Potrà infatti verificarsi, anche in futuro, che i migranti respinti collettivamente alle frontiere italiane siano ricacciati in paesi nei quali rischiano di subire trattamenti inumani o degradanti, o ancora in paesi come la Grecia che non applicano effettivamente la normativa comunitaria sul diritto di asilo e respingono a loro volta verso paesi nei quali i migranti corrono i medesimi rischi di subire violazioni rilevanti ai sensi dell’art. 3 della CEDU.
La rilevanza della sentenza della Corte di Strasburgo va dunque oltre il caso Hirsi e riguarda tutti i casi di respingimenti collettivi, sia in mare che a terra, nei quali per effetto della sommarietà e della rapidità delle prassi di polizia nell’adozione delle misure di accompagnamento forzato non è garantito il rispetto degli articoli 4 del protocollo n. 4 allegato alla CEDU ( Divieto di espulsioni collettive) e soprattutto, in collegamento con questo stesso articolo, dell’art. 13 della stessa Convenzione che sancisce il diritto ad un esercizio effettivo dei diritti di difesa. Per queste ragioni, la sentenza del 23 febbraio scorso sul caso Hirsi costituisce un precedente importante che non potrà essere ignorato dal giudice nazionale quando si tratterà di valutare la legittimità di un provvedimento di respingimento o di espulsione, o di convalidare
la misura del trattenimento amministrativo in un centro di detenzione. Mai il divieto di
espulsioni collettive era stato sancito in modo tanto chiaro da un giudice internazionale.
I respingimenti collettivi eseguiti nelle acque del canale di Sicilia, di cui Maroni e la Lega continuano a vantarsi ancora oggi, costituiscono una grave violazione del diritto comunitario cogente che si potrebbe reiterare se si volessero affidare all’Agenzia Europea FRONTEX nuovi compiti operativi in raccordo con le polizie dei paesi di transito . Con il trasbordo di centinaia di migranti su navi militari italiane e la loro riconsegna (rendition) alle autorità libiche, nel corso del 2009, l’Italia, oltre a violare i capisaldi della Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo, ed il divieto di espulsioni collettive, affermato adesso anche dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (art. 19), ha commesso una grave infrazione comunitaria rispetto al Regolamento CE n. 562/2006 (che istituisce un Codice comune relativo al regime di attraversamento delle frontiere da parte delle persone) in quanto al punto n. 7 del Preambolo si stabilisce che ”le verifiche di frontiera dovrebbero essere effettuate nel pieno rispetto della dignità umana. Il controllo di frontiera dovrebbe essere eseguito in modo professionale rispettoso ed essere proporzionato agli obiettivi perseguiti”. Tanto nei respingimenti effettuati direttamente a Tripoli da parte di unità della marina militare nel maggio del 2009, quanto nel caso dei respingimenti effettuati con l’intervento di unità navali consegnate dall’Italia alla Libia, come si osserva in una denuncia presentata dall’ASGI nel 2009, «non è stata affatto rispettata la dignità dei migranti, consegnati alle autorità libiche nonostante non siano cittadini di quel Paese e nel quale sono certamente sottoposti a trattamenti inumani e degradanti per la sola condizione di migranti irregolari, come è oramai pacificamente accertato in numerosi rapporti internazionali. Il richiamo a precise violazioni della normativa comunitaria assume un rilievo notevole in base all’efficacia diretta dei regolamenti e delle direttive sufficientemente precise e dettagliate all’interno degli ordinamenti nazionali, costituendo dunque una fonte del diritto che non può essere ignorata dai giudici interni, in sede penale, civile ed amministrativa.
I respingimenti come prassi
Nell’esperienza delle pratiche di respingimento e di detenzione amministrative riscontrabili ancora oggi in Italia, è emersa la tendenza delle autorità di polizia a considerare gli immigrati irregolari che facevano ingresso nel territorio nazionale, anche se potenziali richiedenti asilo, come se non avessero ancora superato il varco di frontiera, trattenendoli per settimane, qualche volta per mesi i situazioni di totale negazione dei diritti fondamentali della persona, al fine di facilitare le procedure di allontanamento forzato, se ritenuti provenire da paesi „sicuri“ come l’Egitto o la Tunisia, oppure allo scopo di rilevare, anche con la forza, le impronte digitali. La situazione determinata dalle scelte di governo, a Lampedusa, e poi in altri luoghi di frontiera, dai porti adriatici ai centri di accoglienza trasformati in centri di detenzione, come negli ultimi centri informali in Sicilia, dal mercato ittico di Porto Palo di Capopassero, alle palestre di Catania ed al Capannone di transito a Porto Empedocle ( Agrigento), corrisponde a quella di uno spazio extraterritoriale dove le norme ed i ricorsi che si possono fare valere sul territorio nazionale non valgono nulla. Anche nei luoghi di frontiera, come sulle unità militari preposte al pattugliamento delle acque internazionali,invece, si applica la giurisdizione nazionale.Questo la Corte di Strasburgo lo afferma con grande nettezza. E questo principio può valere anche nelle operazioni congiunte dell’Agenzia dell’Unione Europea per le frontiere esterne FRONTEX, oggi tanto invocata per evitare che continuino le stragi di migranti, che non può operare in deroga alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute.
Le persone intercettate in mare, oppure, dopo lo svolgimento delle atività di soccorso, entrate o soggiornanti irregolarmente nel territorio italiano – tra queste anche i migranti giunti irregolarmente a Lampedusa, a partire dal momento del loro ingresso in Italia, in base alla normativa comunitaria devono avere possibilità adeguate di presentare un ricorso effettivo davanti ad un’autorità giudiziaria avverso il provvedimento di rimpatrio. Si ricorda infatti quanto disposto, oltre che dagli articoli 5 e 13 della CEDU, dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, che garantisce il diritto ad un rimedio efficace e ad un giusto processo, oltre naturalmente al principio del controllo giudiziario sulla detenzione, intesa come qualsiasi limitazione della libertà personale. Al di là della Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle posizioni della Corte Europea di Strasburgo, le violazioni da parte dell’Italia delle regole procedurali stabilite nelle procedure di allontanamento forzato a garanzia dei migranti, seppure in condizione di irregolarità, possono dunque assumere rilievo anche in ambito strettamente comunitario, davanti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, o con una denuncia per l’apertura di una procedura di infrazione davanti alla Commissione Europea in base a quanto previsto dall’art. 63 par.2 lettera b che richiama le condizioni di ingresso dei cittadini di paesi terzi nei paesi appartenenti all’area Schengen, materia che ormai fa parte del diritto dell’Unione Europea.
I respingimenti collettivi verso la Libia, anche nella versione camuffata da richieste di intervento delle unità militari libiche, poi replicata con le nuove autorità tunisine, alle quali, sul modello dei rapporti con la Libia, nel corso del 2011 sono state cedute sei motovedette, contraddicono in modo evidente altri punti vincolanti della normativa comunitaria. L’art. 12 del Codice comunitario delle frontiere Schengen del 2006 prevede che le autorità di polizia possano bloccare i migranti (direttamente, certo non con l’intervento di naviglio militare appartenente a stati esteri) che tentano di entrare nel territorio di uno stato Schengen, ma questo potere non può essere esercitato in contrasto con i diritti fondamentali della persona umana, tra i quali va annoverato il diritto di chiedere asilo ed il diritto a non subire respingimenti collettivi. Chiunque venga raccolto a bordo di una unità battente bandiera italiana in attività di controllo delle frontiere marittime, si trova in territorio italiano e se fa richiesta di asilo, o se si tratta di un minore, non può essere riconsegnato alle autorità di un paese terzo, soprattutto quando non può essere stabilita la esatta provenienza delle persone raccolte in mare. Chi contravviene queste regole viola il diritto comunitario e questa stessa violazione andrebbe sanzionata anche dal giudice penale italiano quanto meno come abuso di ufficio, se non come omissione di soccorso o vero e proprio sequestro di persona. Il commissario UE Barrot nella lettera al governo italiano del 15 luglio 2009, che la Corte Europea dei diritti dell’Uomo ha citato espressamente tra le motivazioni della sentenza sul caso Hirsi, sottolineava ancora che “la giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell’uomo indica che gli atti eseguiti in alto mare da una nave di Stato costituiscono un caso di competenza extraterritoriale e possono impegnare la responsabilità dello Stato interessato”.
Al di là della configurazione di un illecito internazionale, come si è accertato nel caso Hirsi contro Italia, o di uno specifico comportamento penalmente rilevante, che pure si potrebbe affermare nei casi di privazione arbitraria della libertà personale dei migranti bloccati in mare, come di quelli trattenuti in luoghi di detenzione informale, oppure oltre i termini di legge stabiliti per la detenzione amministrativa nei CIE, si è assistito alla cancellazione sostanziale di quei diritti fondamentali che spettano a qualunque persona, in base all’art. 2 del T.U. sull’immigrazione n.286 del 1998, ovunque si trovi nel territorio dello stato, dunque anche in acque internazionali a bordo di un mezzo navale sotto giurisdizione italiana, a prescindere dalla sua nazionalità e dalla sua eventuale condizione di irregolarità .
Occorre evitare che su questi fatti possa calare quel velo di silenzio che garantisce l’impunità di quanti hanno commesso abusi e violazioni di legge che quasi mai i Tribunali riescono a sanzionare. Spesso, dopo qualche giorno dal verificarsi di stragi sempre più tragiche, scattano meccanismi di rimozione che mantengono immutate normative e prassi applicate dalle autorità di polizia. Oggi, dopo la strage più grave di tutti questi anni, occorre una totale inversione di tendenza. Prima che l’opinione pubblica venga distratta da altri problemi pure gravi, come quelli derivanti dalla devastante crisi economica.
Uno sforzo doveroso di memoria e di proposta, anche per rispetto delle vittime, migliaia, dell’immigrazione cd. clandestina, per impedire che sulla tutela dei diritti umani della persona prevalga la logica del fatto compiuto in quella che viene definita come guerra all’immigrazione illegale. Una guerra non priva di effetti ( e vittime) collaterali nella quale sembrerebbe che il fine possa giustificare sempre i mezzi. Come se la protezione delle frontiere dovesse prevalere a qualsiasi costo sulla protezione delle vite che i migranti mettono in gioco quando intraprendono i loro viaggi.
I respingimenti silenziosi dell’Adriatico
La sentenza sul caso Hirsi ha rappresentato nel 2012 una svolta storica, ma altri casi altrettanto gravi sono ancora pendenti davanti alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, come il caso Sharifi, per i respingimenti collettivi effettuati sotto forma di pratiche di riammissione dai porti di Venezia, Ancona e Bari verso la Grecia, in particolare Patrasso, anche a danno di minori non accompagnati, in prevalenza afghani e curdi.
Alla luce dei principi enunciati dalla Corte Europea die diritti dell’Uomo e della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che hanno anche sospeso i trasferimenti per effetto del Regolamento Dublino 2 verso la Grecia, appare in tutta la sua gravità la pratica dei respingimenti in frontiera alle frontiere marittime di quanti, giungendo dalla Grecia, ma anche dall’Egitto, in particolare irakeni ed afghani, non sono neppure messi nelle condizioni di fare valere una istanza di asilo o di protezione internazionale. Al di là della loro dubbia formalizzazione, le misure di allontanamento forzato praticate negli ultimi anni nei porti di Brindisi, Bari, Ancona, Venezia,e più recentemente anche dalla Calabria, risultano peraltro illegittime in quanto l’art. 10 del TU 286/98 che prevede il respingimento, da parte della polizia di frontiera, degli stranieri “che si presentano ai valichi di frontiera senza avere i requisiti (…) per l’ingresso nel territorio dello Stato”, introduce una importante eccezione a tale disposizione. Si prevede infatti che il questore può disporre il respingimento con accompagnamento alla frontiera nei confronti degli stranieri che “sottraendosi ai controlli di frontiera, sono fermati all’ingresso o subito dopo”, ma si aggiunge poi che (articolo 10, comma 4 del Testo unico) tali disposizioni non si applicano nei casi previsti dalle disposizioni vigenti che disciplinano l’asilo politico, il riconoscimento dello status di rifugiato ovvero l’adozione di misure di protezione temporanea per motivi umanitari”. Risulta poi evidente come ai richiedenti asilo, che si respingono con varie modalità (anche impedendo fisicamente lo sbarco sulla banchina portuale) dai porti dell’Adriatico verso la Grecia, non si possa applicare un provvedimento di riammissione ai sensi della Convenzione di Dublino, di fatto un respingimento alla frontiera per il rischio documentato che poi queste stesse persone possano venire espulse ancora una volta dalla Grecia verso i paesi di transito e di provenienza, violando persino il principio di non “refoulement” (respingimento) stabilito dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra.
I respingimenti immediati, in molti casi nella forma del respingimento collettivo, alle frontiere marittime dei porti italiani come quelli di Venezia, Ancona e Bari, sono stati camuffati come semplici pratiche di riammissione, sulla base dell’accordo bilaterale Italia – Grecia del 1999, che viene applicato in contrasto persino con quanto previsto dalla Convenzione di Dublino, perché al di fuori di una procedura di asilo. Questi respingimenti vengono effettuati in realtà al solo fine di evitare la presentazione di una domanda di asilo o di protezione internazionale, rendendo persino superflua l’adozione di un provvedimento di espulsione dal territorio nazionale, che sarebbe comunque ricorribile dinnanzi alla magistratura ordinaria, il cui esito potrebbe invalidare i provvedimenti stessi e dare l’avvio ad un nuovo esame, dinnanzi all’autorità giudiziaria, delle posizioni individuali dei potenziali richiedenti asilo in merito alla loro istanza di riconoscimento dello status. Gli orientamenti assunti in passato dalla giurisprudenza, degradando il diritto di asilo costituzionale da un diritto soggettivo perfetto ad un mero interesse legittimo, giustificavano le prassi amministrative più arbitrarie nelle fasi immediatamente precedenti la proposizione e la formalizzazione delle istanze di asilo. E spesso senza un accertamento medico della vera età dei migranti che raggiungono i porti della costa adriatica, per la sommarietà ed i tempi delle procedure di riammissione in Grecia. Con il rischio, se non con la certezza, che tra i respinti vi siano anche minori, e altri soggetti particolarmente vulnerabili come donne e vittime di tortura.
L’ACNUR, in diversi documenti di “raccomandazioni” a partire dal 15 aprile 2008, ha espresso la propria preoccupazione per le difficoltà che i richiedenti asilo incontrano in Grecia nell’accesso e nel godimento di una protezione effettiva, in linea con gli standards internazionali ed europei e raccomanda espressamente ai Governi europei di non rinviare in Grecia i richiedenti asilo in applicazione del regolamento Dublino fino ad ulteriore avviso. L’ACNUR ha raccomandato, agli stessi Governi, “l’applicazione dell’art. 3 (2) del regolamento Dublino, che permette agli Stati di esaminare una richiesta di asilo anche quando questo esame non sarebbe di propria competenza secondo i criteri stabiliti dal regolamento stesso”.
Dopo numerose sentenze di Corti interne, in Germania ed in Italia, in particolare, anche la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con la sentenza del 21 dicembre 2011, si è pronunciata, per la prima volta, sull’applicazione della clausola di sovranità di cui all’art. 3, n. 2, del regolamento (CE) del Consiglio 18 febbraio 2003, n. 343, c.d Dublino II in relazione ai diritti fondamentali dell’Unione europea, compresi i diritti enunciati nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea ed ha bloccato i respingimenti eseguiti da altri stati dell’Unione, come procedura di riammissione in base alla Convenzione di Dublino (oggi regolamento Dublino 2 n.343 del 2003) verso la Grecia. Secondo la Corte gli stati dell’Unione Europea sono tenuti a non trasferire un richiedente asilo verso lo «Stato membro competente» ai sensi del regolamento n. 343/2003 quando non possono ignorare che le carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo in tale Stato membro costituiscono motivi seri e comprovati di credere che il richiedente corra un rischio reale di subire trattamenti inumani o degradanti ai sensi di tale disposizione. Nel dichiarare questo importante principio i giudici della Corte di Giustizia dell’Unione Europea richiamavano la sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo del 21 gennaio 2011 che aveva trattato pure dei trasferimenti di richiedenti asilo verso la Grecia. In quell’occasione i giudici di Strasburgo avevano dichiarato, in particolare, che il Belgio aveva violato l’art. 3 della CEDU esponendo il richiedente asilo, da un lato, ai rischi risultanti dalle carenze della procedura di asilo in Grecia, atteso che le autorità belghe sapevano o dovevano sapere che non vi era alcuna garanzia che la domanda di asilo sarebbe stata esaminata seriamente dalle autorità greche, e, dall’altro lato, e con piena cognizione di causa, a condizioni detentive ed esistenziali costitutive di trattamenti degradanti (Caso M. S. S. c. Belgio e Grecia del 21 gennaio 2011). Numerose sentenze di giudici tedeschi, da ultimo quella emessa dal Tribunale amministrativo di Francoforte qualche mese fa, hanno bloccato trasferimenti Dublino dalla Germania all’Italia, non tanto per la mancanza di una normativa di implementazione delle Direttive dell’Unione Europea, quanto per la mancanza di un sistema efficace di accoglienza, per la eccessiva durata delle procedure e per la incertezza della fase di ammissione alla procedura governata da una totale discrezionalità da parte delle autorità di polizia.
Intanto, i respingimenti collettivi alle frontiere portuali dell’Adriatico continuano. Probabilmente le autorità di polizia di frontiera continueranno a rispondere come avevano già risposto nell‘intervista trasmessa dalla trasmissione Presa diretta “Respinti“ di Riccardo Iacona, nel settembre del 2009, che nessuno degli immigrati irregolari rintracciati avrebbe fatto domanda per accedere alla procedura di protezione internazionale, la stessa tesi che è emersa anche nelle difese del governo italiano davanti alla corte di strasburgo nel caso Hirsi. Va ribadito ancora una volta però che la tutela offerta dal divieto di espulsioni e di respingimenti collettivi, come peraltro il divieto di trattamenti inumani o degradanti ed i diritti di difesa non valgono solo per i richiedenti asilo. Gli stati, peraltro, hanno obblighi precisi di informazione sul diritto di chiedere asilo e di offrire comunque protezione ai soggetti vulnerabili. In attesa che la Corte Europea dei diritti dell’Uomo si pronunci sul caso Sharifi, sarebbero gravi le responsabilità del governo attuale se, dopo la sentenza della Corte Europea sul caso Hirsi, non fossero immediatamente impartite, alle autorità di frontiera ed agli uffici immigrazione delle questure interessate, indicazioni precise sul rispetto dei principi fondamentali della Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo, in tutti i casi di rintraccio di immigrati irregolari, anche a bordo delle navi traghetto o subito dopo lo sbarco nei porti dell‘Adriatico. E magari sarebbe opportuno un breve richiamo alla necessità di rispettare, nell’applicazione delle leggi vigenti, il Regolamento Frontiere Schengen del 2006 e gli articoli 13 ( sulla cd. riserva di giurisdizione) e 24 ( sul diritto di difesa) della Costituzione italiana .
Le pratiche di respingimento collettivo, le condanne che ne sono seguite a livello europeo e nei rapporti dei Commissari ai diritti umani delle nazioni Unite e del consiglio d’europa, hanno mostrato anche agli stati il limite degli accordi bilaterali, come quelli conclusi con la libia, con l’Egitto e in ambito europeo con la Grecia, una politica che l’Unione Europea ha agevolato per non assumere direttamente responsabilità e maggiori oneri finanziari. Adesso, dopo l‘ultima strage di Lampedusa, sembra che i paesi che sono stati protagonisti in Europa della politica degli accordi bilaterali e delle pratiche di respingimento, come l’Italia , vogliano chiamare in soccorso le istituzioni dell’Unione per nuovi accordi con i paesi di transito, al fine di un controllo e dunque di una più vigorosa protezione delle frontiere. Il tentativo evidente è quello di attribuire all’Agenzia per il controllo delle forontiere esterne( FRONTEX) un ruolo di contrasto più intenso, che dovrebbe garantire, in accordo con le polizie die paesi di transito, un blocco delle imbarcazioni cariche di migranti, anche se richiedenti asilo, come si fece davanti alle coste albanesi nel 1997 con l’invio di imbarcazioni militari italiane davanti al porto di Valona. Una politica che i suoi fautori definiscono, a salvaguardia della vita umana“ ma che già allora costò decine di morti, con la strage rimasta senza colpevoli, della Kater I Rades, e che oggi, proprio sull’onda emotiva di una strage ancora più grave, potrebbe determinare un ulteriore blocco proprio nei confronti di potenziali richiedenti asilo come i profughi siriani e subsahariani.
L’unica strada concretamente praticabile per ridurre, se non per porre fine, a queste tragedie dell‘“immigrazione clandestina“, è costituita dall’apertura di corridoi umanitari dai paesi di transito nei quali si trovano i profughi di guerra o le vittime di regimi dittatoriali, come, da ultimo, si verifica in Egitto ed in Libia. Ed una abrogazione della legge Bossi-Fini potrà consentire la riapertura di canali legali di ingresso, l’abolizione del reato di clandestinità e la rimodulazione del reato di agevolazione dell’ingresso di immigrati irregolari in linea con le previsioni costituzionali e con i doveri di salvataggio ed accoglienza che derivano dal diritto internazionale e dal diritto dell’Unione Europea. L’Europa si costruisce sul riconoscimento dei diritti fondamentali non certo sulle politiche di sbarramento degli ingressi e di esternalizzazione delle procedure di asilo in paesi di transito che non garantiscono in alcun modo i diritti fondamentali della persona migrante.