GUIDO VIALE
Dopo Marchionne, Monti. Tenete presente la parabola di Marchionne: due anni e mezzo fa, quando aveva sferrato il suo attacco contro gli operai di Pomigliano («o così, o chiudo»), togliendosi la maschera di imprenditore aperto e disponibile che si era e gli era stata appiccicata addosso, la totalità dell’establishment italiano si era schierata incondizionatamente dalla sua parte: Governo, partiti, sindacati, media, intellettuali di regime, sindaci, aspiranti sindaci, ministri e aspiranti ministri, più la falange di Comunione e Liberazione, da cui Marchionne si era recato a riscuotere gli applausi che i suoi dipendenti gli avevano negato. Uniche eccezioni, gli operai presi di mira, la Fiom, i sindacati di base e poche altre voci senza molta audience.
Perché a quell’attacco antioperaio Marchionne aveva abbinato un faraonico piano industriale da 20 miliardi di euro («Fabbrica Italia», l’ottavo piano, da quando Marchionne era in carica, nessuno dei quali mai realizzato), che avrebbe portato finalmente la Fiat, anche grazie alla stretta imposta agli operai, a competere nel pianeta globalizzato con mezzi adeguati alla nostra epoca, che Marchionne, con venti secoli di ritardo, aveva battezzato «Dopo Cristo». Al manifesto , che su quel piano aveva sollevato fondati dubbi, erano stati riservati i lazzi di ben sette collaboratori del Foglio – tra cui due stimati ex sindacalisti – e del direttore del Sole24ore . Qualcun altro aveva, sì, notato che quei 20 miliardi non comparivano, ne avrebbero potuto comparire, nel bilancio della Fiat; o che triplicare la produzione di auto ed esportarle in un mercato con il fiato corto era forse una mossa avventata; o che l’Europa si stava avviando verso un lungo periodo di vacche magre – in realtà magrissime – che rendeva problematici piani così faraonici; o, soprattutto, che voler trasformare le fabbriche (dopo Pomigliano, era stata la volta di Mirafiori, e poi di tutto il resto) in falangi – dove per sopravvivere gli operai devono combattere, sotto il comando di un manager che guadagna 400 volte più di loro, una lotta mortale contro i lavoratori della concorrenza, perché la vita degli uni è la morte degli altri – più che una forma di «modernizzazione» – allora era molto in voga questa espressione – era un ritorno al dispotismo asiatico. Ma i peana avevano avuto il sopravvento. Oggi, a due anni e mezzo da quel trionfo, il bluff di Marchionne si è completamente sgonfiato: è rimasto solo il peggioramento delle condizioni di lavoro per gli operai (ormai in cassa integrazione quasi permanente), l’abolizione della contrattazione e la violazione continua e ostentata della legge e delle sentenze dei tribunali. Il sindaco che voleva srotolare un tappeto rosso sotto i piedi di Marchionne lo ha riarrotolato in silenzio e deposto nel suo nuovo ufficio di banchiere in attesa di tempi migliori. Quello che approvava Marchionne «senza se e senza ma» sostiene invece di essere stato ingannato (ma forse voleva esserlo). E a quello che «se fosse stato un operaio» avrebbe votato sì al referendum truffa di Mirafiori non è mai venuto in mente di chiedere che cosa avrebbe fatto se fosse stato sindaco a un operaio: una evidente asimmetria informativa. Molti altri semplicemente tacciono senza spiegare perché non avevano capito niente o avevano fatto finta di non capire (allora gli conveniva lodare, come oggi gli conviene tacere). Fatto sta che dopo il tonfo oggi Marchionne è per tutti un po’ come la peste. Nessuno cerca più di incontrarlo; tutti ne parlano male e soprattutto cercano di evitare l’argomento. «Marchionne? Chi era costui?» Quanto a lui, continua per la sua strada: cioè non fa niente, che è quanto, secondo lui, gli richiede oggi il mercato. E allora? Allora, la parabola di Marchionne non fa che anticipare quella di Monti: tra cinque mesi nessuno ne vorrà più sapere e per tutti quelli che lo hanno appoggiato sarà una corsa a dissociarsi e a sostenere di non aver mai avuto gran che a che fare con lui: «Monti chi?». Perché se il piano Fabbrica Italia è stato un flop, la cosiddetta agenda Monti è ancora peggio; e i nodi stanno venendo al pettine. «Si è arenata la spinta innovatrice» cominciano a dire, mettendo le mani avanti, quelli che per un anno lo hanno esaltato per aver portato il paese «fuori dal guado» (tra i quali il primo della lista è proprio lui, Monti, che non ha mai perso un’occasione per lodarsi). Era partito anche lui alla grande, come Marchionne: dopo i due primi decreti aveva sentenziato che il Pil sarebbe cresciuto dell’11 per cento; i salari del 12; i consumi dell’8; l’occupazione dell’8 e gli investimenti del 18. Il bello è che tutti l’avevano preso sul serio e nessuno era andato a suggerirgli di farsi ricoverare. Ma proprio come con Marchionne, il paese, beneficiato da due decreti Crescitalia, da uno Salvaitalia e da numerose altre misure, non è cresciuto di un centimetro; anzi, come era prevedibile, è andato indietro. In compenso, come con Marchionne, sono crollati occupazione e redditi; e poi spesa sanitaria, scolastica e per la ricerca, investimenti pubblici e privati; ed è ancora aumentato il debito pubblico, che presto sarà sottoposto alla stretta del fiscal compact ; mentre il compito di rilanciare lo sviluppo è stato affidato al petrolio del sottosuolo italiano, al trasporto di gas in conto terzi attraverso le aree più sismiche d’Europa e alle solite autostrade (e, ovviamente, Tav), per le quali e solo per loro, i miliardi – ben 100 si trovano sempre, mentre intere regioni del paese sono sott’acqua quasi perennemente per incuria e opere devastanti. Grazie al ministro Passera; il quale prima le finanzia – a babbo morto – come banchiere e poi interviene come ministro per tappare lo scoperto bancario con fondi pubblici, saccheggiando la Cassa Depositi e Prestiti. Insomma la storia di Marchionne si ripete; ma ancora più «alla grande». Era ovvio che un andazzo del genere non sarebbe durato a lungo. Tutti avevamo, e abbiamo, davanti agli occhi le vicende della Grecia e della Spagna, lo strangolamento delle cui economie precede di poco quello della nostra ed è frutto della stessa ricetta: quella che Monti, ancora prima di diventare Presidente del Consiglio, aveva esaltato sostenendo che quei paesi avevano finalmente imboccato la strada del «risanamento». Un buon viatico per affidargli l’incarico di guidare fuori dalle secche l’economia italiana e, di concerto con il sodale Draghi, quella europea. Poi si è impegnato in una stupida competizione con Grecia e Spagna, invece di creare un fronte unico per fare fronte a un pericolo comune che riguarda tutti. Ma soprattutto, era proprio necessario affidare a un tecnico, anzi a una confraternita di tecnici che non si sono mai occupati di problemi sociali e ambientali, il compito di affrontare la sollevazione di popolo – che, per ovvia conseguenza, è alle porte – e il disastro ambientale che sta devastando il paese (e il resto del mondo)? Così diventa chiaro che l’unica tecnica con cui i ministri del governo Monti, e dopo di lui la sua agenda, chiunque la gestisca, sono in grado di affrontare i problemi messi all’ordine del giorno delle loro politiche è il solito manganello: contro gli studenti, contro gli operai, contro i minatori, contro gli insegnanti, contro i comitati che si ribellano allo scempio dell’ambiente, della salute e della convivenza civile. L’agenda Monti, ci spiegano infatti i suoi residui sostenitori, è già tutta definita: non c’è alternativa; e non c’è niente da fare. Ma fino a quando una soluzione del genere potrà bastare? E poi?