Land-grabbing: il lato più insostenibile della falsa green-economy
Cospe
A Riocentro, dove in questi giorni si tengono i negoziati della Conferenza delle Nazioni Unite sullo sviluppo sostenibile, la Banca Mondiale si sforza di mostrare che gli investimenti agricoli su larga scala, specialmente in Africa, rappresentano una straordinaria opportunità di crescita “verde” per i Paesi più poveri. E anche il Governo brasiliano difende il principio che i biocombustibili sono la soluzione verde al drammatico problema dell’approvvigionamento energetico. E così, il “verde” a tutti i costi finisce per far dimenticare il principio della sostenibilità e il rispetto dei diritti umani.
Le organizzazioni contadine, i movimenti sociali e le ONG di sviluppo, riuniti a 30 km di distanza da Riocentro nella Cupola dei Popoli, la pensano diversamente. «Ma quale sviluppo! Il land-grabbing è un crimine!» si indigna un delegato senegalese del sindacato agricolo CNCR. «Le assegnazioni di terre avvengono nella più totale opacità, senza contratti, senza controlli: chi vende la terra spesso non la possiede, funge solo da intermediario presso grandi compagnie straniere; da un giorno all’altro ci si ritrova con il campo recintato e le guardie armate a proteggerlo. E chi osa protestare finisce in prigione».
Dal Senegal alla Cambogia, dal Mali alla Colombia, si incontrano a Rio numerose testimonianze a confermare questo fenomeno, ormai drammaticamente globale. Dappertutto sorgono organizzazioni in difesa dei diritti umani dei contadini violati platealmente dall’accaparramento delle terre su larga scala. Il diritto alla casa: in Cambogia interi villaggi vengono distrutti per fare posto alle “zone economiche speciali”, auspicati volani della crescita economica (insostenibile) di tipo cinese, senza compensazioni per gli espropriati. Il diritto di manifestare: in Benin chi alza la testa finisce in prigione, e anche i politici locali hanno paura di opporsi ai latifondisti e ai Ministri che li proteggono; e in Colombia sono migliaia i morti di un conflitto che vede nel controllo della terra e delle sue risorse una delle ragioni profonde. Il diritto al cibo: in Mali l’iniqua distribuzione della terra spesso non basta a nutrire le famiglie assegnatarie, e l’espulsione indiscriminata di contadini, allevatori e pastori (l’83% dell’intera popolazione) aggrava la già drammatica situazione alimentare del Paese.
«Perché quando si dà la terra, con essa se ne vanno tutte le risorse di cui dispone una famiglia: alberi, sementi, acqua. Non è vero che il land-grabbing avviene su terre marginali, abbandonate e incolte», spiega Mamadou Goita, del sindacato contadino africano ROPPA. «Nella nostra cultura esistono tre tipi di proprietari terrieri: gli antenati che non ci sono più; i vivi che la lavorano e la custodiscono; e le generazioni a future che la erediteranno. Quando ci si dimentica di una di queste categorie, la produzione orientata al consumo e alla massimizzazione del profitto immediato logora la terra, e diventa insostenibile».
Ed è proprio questo il diritto più difficile da difendere: «la terra ha un valore culturale inestimabile. Ma come si può quantificare, come si può risarcire, anche volendo?» domanda Zackaria, attivista senegalese dei diritti umani. Mostrando tutta l’attualità di questo problema la devastazione delle foreste sacre della Cambogia e dei cimiteri in Mali. Al loro posto, distese oceaniche di palma da olio (Cambogia, ma anche Senegal), jatropha e zucchero per agrocarburanti (Mali), manioca per bioetanolo (Brasile). Ecco perché il land-grabbing è un problema grave e pertinente quando si discute di sviluppo sostenibile.
Tutta colpa delle multinazionali dei ricchi Paesi occidentali? Non solo. In Benin, la Cina ha comprato il 45% delle terre agricole della regione più fertile; e la Malesia ha comprato 200.000 ettari di terra (pagandoli 8 euro l’uno). In Mozambico il Brasile ha comprato 2 milioni di ettari (l’equivalente della superficie del Lazio) per la produzione di agrocarburanti. Alla faccia della cooperazione sud-sud.
Due visioni si contrappongono a Rio de Janeiro. Nel mondo che vogliamo, la terra è un bene comune o appartiene al primo che la recinta con le armi in pugno?