Oltre allo statuto ci vuole il conflitto
Al di là delle buone intenzioni degli estensori del “Manifesto per un nuovo soggetto politico”, nel loro invito a superare la contrapposizione “amico/nemico”, non vorremmo correre il rischio di essere costretti a cadere dalle braci sulfuree della coppia schmittiana nella padella di un resuscitato formalismo giuridico alla Kelsen. Una padella dove, storicamente, le domande di trasformazione sociale sono sempre state cucinate a fuoco lento. Perché se certo la dicotomia di Schmitt dev’essere rifiutata se proposta come paradigma strutturante il politico, è altrettanto necessario, nella crisi, recuperare un sano e solido “punto di vista di parte”, distinguere interessi che sono per loro natura contrapposti, saper riconoscere amici e nemici, costruire coi primi alleanze e provare a sconfiggere i secondi. Pensiamo, ad esempio, allo scontro intorno alla riscrittura dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori: al di là dei reali effetti di “riforma” del mercato del lavoro, non è forse questo il terreno su cui, simbolicamente e materialmente, si decide, come Billy Bragg cantava contro la Thatcher nel 1979 ed è tornato a cantare durante le proteste studentesche a Londra nel novembre 2011, “which side are you on” ovvero “da che parte stai” ?
E allora, forse, non è sufficiente definire giuridicamente, in termini formali ineccepibili, lo statuto dei “beni comuni”, quando il governo di questi è un campo aperto dove sono i rapporti di forza sociali, che di volta in volta si determinano, a spostare il confine del controllo su ciò che è naturalmente comune e/o comunemente prodotto. E tali rapporti di forza possono essere messi in discussione e modificati solo nel e dal conflitto sociale. Conflitto che, a sua volta, non è un’opzione, oggetto di preferenza per un’attività agonistica che ad alcuni piace e ad altri meno, ma dura realtà quotidiana, essenza di ogni dinamica societaria e quindi cuore di ogni processo di affermazione democratica. In questo senso, non vi è prospettiva irenica ed “armoniosa” che tenga, non c’è possibilità di una soluzione tutta metodologica e “procedurale” alla questione democratica che abbiamo di fronte.
E’ poi curioso che, ad un’analisi unidirezionale della crisi stessa della democrazia, che per gli amici del “nuovo soggetto” pare originare unicamente dai vizi (per carità, siamo i primi a denunciarli e combatterli, a partire proprio dalle nostre pratiche politiche) della forma-partito novecentesca, corrisponda in sostanza, come proposta ultima, la presentazione di una lista “civica nazionale” per le elezioni politiche del 2013. Là dove, sul piano analitico, crediamo piuttosto che il moderno nesso costitutivo sovranità-rappresentanza sia stato scavato da un simultaneo processo di espropriazione dall’alto (prima con le istituzioni sovranazionali che hanno cercato di governare i processi di globalizzazione economica, oggi con le oligarchie tecnocratiche che cercano di interpretare la dittatura commissaria dei mercati finanziari) e di erosione dal basso, con il protagonismo sociale di movimenti che hanno radicalmente messo in discussione la rappresentanza stessa. E che hanno invece provato ad affrontare, a partire dalla dimensione locale, il problema della governance in termini di incursioni e sperimentazioni.
Per questo pensiamo che sia oggi all’ordine del giorno, a partire dall’immersione nella ineludibile crucialità del conflitto sociale in atto, la costruzione di coalizioni sociali di ampio respiro, capaci di connettere quelle e quelli che hanno scelto “da che parte stare”. E che queste siano, in termini espliciti ed in piena autonomia, in grado di affrontare anche il nodo della politica istituzionale e pure la questione elettorale. Proprio perché non è oggi indifferente, per il tentativo di affermare una comune alternativa nel nostro Paese e quindi in Europa, la domanda intorno a “chi e come” si candida a governare i processi in atto.
Processi contraddittori e, ad oggi, tutt’altro che risolti: per questo, forse, varrebbe la pena riprendere con più convinzione e forza percorsi larghi, costitutivamente trasversali ad appartenenze e opzioni politiche diverse, come le proposte di “iniziativa dei cittadini europei” e di una rete di “Comuni per i beni comuni”, urgente di fronte al nodo scorsoio del Patto di stabilità e all’aggressività dei tentativi di privatizzazione di patrimoni e servizi, piuttosto che pensare di piegarli a scorciatoie elettoralistiche. Questo sì, lo diciamo con spirito di franca amicizia, sarebbe invece quanto di più “novecentesco” si potrebbe immaginare.
pubblicato su ilManifesto