8 / 10 / 2013 da globalproject.info
“Siamo due coste di rupe
Aspettiamo un terremoto
Per unirci di nuovo
In un solo canto”
Vinicio Capossela, Aedo
Sabato 5 ottobre, nella temperie concitata dei giorni che precedono il cinquantesimo anniversario del Vajont, si è svolta la prima parte di Confluenze. A scuola nel territorio. Camminata nel bosco vecchio, il bosco vecchio che resiste. L’evento fa parte di un ciclo di iniziative sul tema della difesa dei beni comuni promosso dal Comitato Acqua Bene Comune in collaborazione con vari soggetti, associazioni, gruppi, istituzioni e singoli cittadini e cittadine.
Con la guida d’eccezione di Italo Filippin, diciannove anni nel 1963, già amministratore del comune di Erto, e del geologo Emiliano Oddone, oltre una cinquantina di persone sono state accompagnate nel bosco vecchio, a calpestare la frana, e guidate nella lettura di quel linguaggio del paesaggio fatto “di parole cangianti e nessuna scrittura”.
I versi in cima, cantati da Vinicio Capossela e presi a prestito da un poeta greco, appartengono alla canzone Aedo, cioè colui che canta, racconta, spiega. E così, con la guida di questi due aedi di montagna, persone molto o per nulla informate sul Vajont si sono trovate a confronto con un’altra verità, la verità delle rocce.
È questa la premessa al percorso, che non vuole essere solo un pellegrinaggio, non un ascolto a bocca aperta dell’enormità del tutto: enormità della valle, enormità della diga, enormità della frana, enormità del disastro. Un sensazionalismo che lascia attoniti, sbigottiti, perchè completamente fuori misura. Si tratta di grandezze enormi da immaginare, che di conseguenza danno un senso di piccolezza e impotenza. Impotenza che però è un grosso rischio, perchè fa sentire estranei, innocenti. Pericolosamente innocenti.
Siamo abituati a osservare il paesaggio come categoria dello spazio, mentre, è questa una delle cose su cui insiste Emiliano Odone, esso è anche categoria del tempo. Vi possiamo leggere il tempo, e, in luoghi così traumatizzati come quello della valle del Vajont, la sporporzione tra i tempi. È un paesaggio incredibilmente parlante, e, osservando le pareti montuose, nella differenza nei corrugamenti, al primo sguardo cogliamo il racconto di un trauma: da una parte la montagna sedimentatasi in migliaia di anni, con gli ondeggiamenti regolari, ritmici, dall’altra le curve impazzite, che segnalano l’enorme massa di monte precipitata in pochi secondi. Ancora, vi si trovano accanto la valle del Vajont, tra le più profonde in Europa, frutto del lavorio silenzioso e costante dell’acqua, in una porzione di tempo enorme, se confrontata alla vita di un uomo, e la diga, pure quella enorme, pensata, progettata e realizzata nel giro di una decina d’anni. È una sproporzione visibile, e una questione di ritmo, ma ce ne accorgeremo alla fine.
La verità, anche quella leggibile nella natura, scientificamente dimostrata, è che il monte Toc è, nell’aspetto che aveva al tempo dell’invaso, il frutto dell’accumulo di una paleofrana, che formava un tutt’uno con il monte stesso, e che si è staccata interamente, dopo varie avvisaglie, in una maniera che era totalmente prevedibile. Ma, in questo i versi di Capossela sbagliano, la frana stessa non sarebbe precipitata, nè nel modo in cui accadde nè in maniera minore, se l’uomo non fosse intervenuto nel costruire l’invaso del lago. Non si tratta di una rivelazione sconvolgente (di cui sono pieni i media in questi giorni) ma camminarci sopra fa un altro effetto. Si precepisce la sproporzione, la disarmonia, un equilibrio preesistente che è stato interrotto.
Della frana, del colpevole silenzio su un disastro annunciato si sa tutto, sia dal punto di vista geofisico che nell’analisi delle responsabilità, rimane tutt’ora inspiegabile come la frana abbia potuto prendere una tale velocità, come una porzione di montagna che si estende per 2,5 kilometri abbia potuto precipitare così. Rimane un paradosso scientifico, ma, ci avverte Emiliano, questa è una montagna particolare, la scienza ha e ha sempre avuto dei limiti, di fronte al limite, ci si fa da parte.
Ce lo dice mentre tutti guardiamo attoniti la costa di montagna bianca, nuda, dopo essere usciti dal bosco vecchio.
Ed è qui, in questo bosco cresciuto in parte sopra la frana, in parte lo stesso preesistente la caduta, che la natura offre un ulteriore regalo: degli alberi speciali. Sono alberi cui, letteralmente, il terreno è scivolato sotto le radici; per l’enorme urto subito, essi si sono piegati, alcuni sono morti, ma altri hanno trasformato il proprio tronco in radici, radici esterne al suolo e su cui sono germogliati altri alberi. La forma sembra quella di uno strano pettine, ma a descriverla rende perfettamente il senso di quanto queste siano creature metaforiche. Sono la testimonianza di quanto la natura sappia essere resiliente, sappia adattarsi ai traumi e perpetuare sè stessa, ma senza cancellarli; essi portano addosso, così come le persone che al Vajont sono sopravvissute, i segni del trauma: sono piegati, deformati per poter mantenere la nuova posizione, non hanno cancellato ma sono vivi.
È quello che, in genere, non avviene a chi subisce le “catastrofi” in Italia: lo stato provvede a ristabilire l’ordine, costruisce prefabbricati, generando luoghi fantasma e persone fanstama, di cui l’Aquila è, nell’ordine, solo l’ultimo esempio.
A raccontarci di questi alberi è Italo Filippin, già sindaco di Erto, comunità che si è battuta per poter rimanere nella propria terra, per poter agire il proprio territorio, per un diritto alla giustizia che prevedesse un ritorno nei luoghi di appartenenza, malgrado la cittadina di Vajont costruita ex novo, malgrado le differenti decisioni statali in merito. È nel dopo Vajont, infatti, che le storie di queste comunità si differenziano, e in cui, se ancora fosse stato possibile, le comunità subiscono un’ulteriore offesa, oltre a quella del disastro. Si tratta delle questioni legate ai risarcimenti, all’impedimento agli ertani di tornare nelle proprie case, e delle numerose altre opere di sfruttamento che sono state fatte e sono in progetto, nei medesimi luoghi. Ce lo dice, Italo, dopo averci mostrato le mura di quella che era una casa, e indicandoci gli oggetti quotidiani che la frana ha inglobati, e che ora sembrano un pezzo del paesaggio stesso. Erano state evacuate il pomeriggio del 9, le famiglie che ancora abitavano nelle casere su quella porzione di monte Toc.
Stiamo camminando su quella che è anche una tomba, ce ne si ricorda in quel momento, in un bosco che è quindi percepito dalla comunità con un misto di sacralità e dolore. Eppure, ed è l’ennesima beffa che ci racconta Italo, nessuno se ne occupa: non viene curato, non viene valorizzato malgrado sia, questo sì, un luogo vivente di memoria. Vi è, da ultimo, la questione della proprietà: gli appezzamenti scivolati, che si trovavano all’epoca in cima al Toc, erano quelli, i migliori, che gli abitanti di Erto e Casso utilizzavano come pascoli. La questione dei risarcimenti, della proprietà contesa con la Sade poi Enel, non è ancora giunta a una conclusione, nè a un risarcimento. Unico segno statale: recentemente un abitante di Casso si è preso una multa, per essere andato a raccoglier legna nel bosco.
Usciamo così dal bosco, e mentre scendiamo verso valle della frana, per avvicinarci a un terrazzamento che ci permetta di vedere la diga di fronte, ci accorgiamo di un cambiamento che è il più piccolo tra i camminatori a notare: è ritornato il rumore dell’acqua. È una mancanza che non tutti avevamo notato, ma, ci avverte Emiliano, è il segno naturale di un’anomalia. È l’enorme massa di roccia, quella caduta a saturare la valle, che toglie lo spazio al rumore che caratterizza la valle, l’equilibrio di una valle in cui scorre un fiume. È un’assenza che non notiamo, così poco abituati a leggere il paesaggio. Eppure, quando ci viene detto, ce ne accorgiamo. La distonia della valle senza il suono dell’acqua appare un silenzio pesante, un silenzio colpevole.
È in questo senso che si tratta di una questione di ritmo. La natura ha una misura, un ritmo, in cui l’uomo è iscritto e partecipe, dipendente da quei tempi perchè in prima persona è un essere finito, biologicamente e cronologicamente determinato. Lo legge nella propria pelle, e sembra non saperlo vedere quando guarda una valle. Non si parla qui, solo, di chi colpevolmente sceglie di costruire una diga in una valle dove non ci stava, un treno ad alta velocità dove non è necessario, o tutto il lungo elenco di opere smisurate.
Si tratta di noi, della nostra capacità di accorgerci se ci tolgono il rumore dell’acqua.
E agire per tempo.