18536122518-19 ottobre. I media alla guerra immaginaria In evidenza

Contropiano

 

Ma chi controlla i media? Diciamo meglio: che cavolo ha in testa chi li governa? Lo spettacolo mediatico intorno al 18 e 19 ottobre è stato così indegno che persino un signore perbene e molto governativo come Enzo Foschi, capo segreteria del sindaco di Roma Ignazio Marino ed esponente del Pd romano, è stato costretto a twittare: “I veri Black bloc sono tutti quei giornalisti infiltrati nel corteo… delusi dal fatto che non scorra sangue…”.

Migliaia di ore di registrazione video, decina di migliaia di foto, centinaia di ore di interviste volanti ai manifestanti… tutto materiale buttato nel cesso per privilegiare cinque minuti di schermaglia davanti al ministero dell’economia, una fioriera spostata, la nuvola di qualche fumogeno, il “botto” di un petardo da stadio. Fino all’inarrivabile “disinnescamento di un ordigno contenente una pallottola calibro 12 che poteva fare molto male”. Basta un vecchio cacciatore (o Wikipedia, non richiede uno sforzo intellettivo eccessivo) per spiegare che la “micidiale pallottola calibro 12” è la normale cartuccia da fucile da caccia, contenente pochi “grani” (nemmeno “grammi”) di polvere da sparo; e che la sua “pericolosità” esiste solo se usata con un fucile corrispondente (della lunghezza di circa un metro, difficile portarselo dietro in manifestazione) e con una tipologia di pallini che non sia quella utilizzata per la caccia ai tordi…

I due maggiori quotidiani sono uno spettacolo a parte.

Repubblica lascia sfogare i suoi cronisti con improvvisazioni sullo spartito preparato da giorni. Hanno dovuto solo cambiare i nomi ai fantasmi evocati dalla loro necessità di creare paura. E quindi via i “No Tav”, scesi a Roma con un pullman (60 persone in parte un po’ attempate non sono il massimo per simulare l’arrivo degli Unni), e avanti con i “black bloc”, che non si sentivano più nominare da anni.. E’ la stampa, bellezza; se non parlano tutti con le stesse parole, scrivendo tutti lo stesso articolo, non si sentono a posto. E la concorrenza, che fine fa?

Il più maturo, esperto e “ammanicato” Carlo Bonini segue invece la giornata dall’interno della sala operativa della questura e la vede come un wargame dove tutto è complessivamente sotto controllo. I poliziotti e i dirigenti vengono dipinti come “vecchi saggi” che “lasciano giocare” un po’ i manifestanti, vedendo dalle telecamente che “il settore a rischio” è numericamente poca cosa. E soprattutto che i servizi d’ordine dei vari spezzoni funzionano davvero bene, per la prima volta dopo anni. Un segno di grandissima maturità politica dei movimenti, capaci di riappropriarsi davvero dell’intera mobilitazione (fin da venerdì mattina) e non farsi più giocare da altri la partita.

Idem per il Corriere della sera, dove ai cronisti di “nera” viene dato l’onore di aprire le pagine (agghiacciante quel catenaccio “Trovati tre ordigni, uno poteva uccidere”, ovvero la povera cartuccia calibro 12 trovata in una busta!), mentre un altro esperto come Giovanni Bianconi – che nel corteo ci è stato davvero, altra classe… – arriva a conclusioni molto simili, ma dal lato dei manifestanti. Che hanno saputo decidere del proprio risultato politico senza esitazioni.

Nessuno spiega però il perché di questa determinazione double face: durissima con il potere, ma poco tollerante con le “forzature” tentate dall’interno del corteo. In piazza non c’erano persone che dovevano testimoniare di una qualche ideologia (c’erano anche quelle, naturalmente, in spezzoncini risicati da cui uscivano slogan atemporali, quindi “impolitici”), ma movimenti “vertenziali”, che vogliono raggiungere risultati tangibili. La forza delle famiglie con bambini, sia italiane che di migranti e rifugiati, è tutta qui. Un “blocco sociale” disposto a lottare, non “a giocare”; tantomeno a “farsi giocare” da altri. Qualsiasi sia il gioco. Si fa sul serio, quindi si fa anche seriamente; pensando la lotta come un percorso, fatto di tappe, di momenti di scontro e altri di trattativa. Per rompere il fronte nemico, quelle “larghe intese” che sembrano l’unico marchio di fabbrica per i governi della Troika, e avanzare per cambiare il quadro sociale e anche la storia. L’antagonismo come pratica di vita, non “un giorno da leoni”.

Questo ha spiazzato tutti i media, un po’ meno le molte polizie di questo paese, abituate ormai tutti i giorni a fare i conti con un malessere sociale vero, fatto di persone in carne e ossa; con pratiche sociali dettate dal bisogno e quindi non affrontabili nei termini ridicoli della “fermezza” datalk show. Per dirla con una battuta paradossale: se a guidare la piazza (lato “forze dell’ordine”) ci fossero i Calderoli o le Santanché, in Italia ci sarebbero decine di bagni di sangue al giorno.

Un briciolo di professionalità giornalistica sembra albergare ancora nei cronisti de La Stampaonline, che ci consegnano almeno due notizie vere: “le devastazioni che tutti temevano – e qualcuno forse auspicava facendo scrivere di fantomatiche macchine idropulitrici utilizzate per sparare vernice addosso agli agenti – non ci sono state”. Quel “facendo scrivere” è una vera notizia, perché è una confessione del clima in cui lavorano in redazione, sotto la spinta di input interni o esterni che indirizzano ad arte la fattura dei giornali.

La seconda è il riconoscimento al servizio d’ordine (“i” servizi d’ordine, sarebbe più esatto); “soprattutto, gli organizzatori della manifestazione hanno tenuto la piazza, predisponendo un servizio d’ordine e rispondendo anche a brutto muso a chi, tra loro, voleva agire in maniera diversa da quanto concordato”. Anche la titolazione del giornale torinese, comunque, non enfatizza più di tanto “le violenze” immaginarie e prova a concentrare l’attenzione sul contenuto sociale – molto meno quello politico, oggettivamente e soggettivamente contro il governo e le politiche imposte dall’Unione Europea.

Il nuovo “manifesto” viaggia invece nella schizofrenia più completa. L’edizione online, ancora a mezzogiorno del giorno dopo, spara ancora in apertura un pezzaccio del giorno prima, a làMessaggero, con un titolo assolutamente indistinguibile da quelli mainstream (“Roma blindata nel giorno degli ‘antagonisti'”; tra virgolette, come se invece avessero un’identità diversa… ma chi gliel’ha fatto passare l’esame a certa gente?).
Di fianco resiste ancora l’editoriale del giorno prima, in cui la direttrice giudica una “bella piazza” quella sindacale di venerdì, perché… non ci sono stati scontri. Nessun accenno ai contenuti, ma una allucinante assimilazione alla manifestazione del 12 (Landini e Rodotà in difesa della Costituzione, ma senza citare chi la attacca e perché…); il tutto per ricondurre il “fermento sociale” al più ordinario tran tran politico (“il palazzo” come alfa e omega del ristretto orizzonte di Norma Rangeri).

Il quotidiano in edicola oggi, invece, ha un resoconto di Roberto Ciccarelli che riconosce almeno alcuni dei fattori fondamentali di questa riuscitissima due giorni di mobilitazione, che il suo giornale nei giorni scorsi ha evitato accuratamente di trattare e spiegare. “Questo può essere un primo passo verso una politica contro l’austerità, che ha chiare basi sociali e mette al centro la richiesta del blocco degli sfratti per morosità, la riforma del Welfare e la richiesta di un reddito minimo. Potrebbe essere questo un primo, serio, tentativo per superare lo choc provocato dalla sconfitta politica del 15 ottobre 2011 che hanno fatto implodere il movimento, mentre negli Stati Uniti nasceva Occupy Wall Street, in Spagna si affermavano gli indignados e in Italia ci si è rinfacciati il risentimento e le responsabilità. Settantamila persone, forse anche di più, hanno partecipato al corteo della «sollevazione generale», parola che ha acquisito un nuovo significato”.

Ma il resto del giornale pensa ancora e pervicacemente al “palazzo” e alle sue guerriglie interne, fin dall’editoriale stanco del “collaboratore esterno” Piero Beviilacqua, “L’avversario non c’è più”, tutto incapsulato dentro i malesseri… del Pd.

I quotidiani di destra erano troppo scioccati dalla contemporanea sentenza della Corte d’Appello di Milano, che ha fissato i due gli anni di interdizione dai pubblici uffici per Berlusconi. E quindi si sono limitati al solito elenco di insulti contro i manifestanti in genere, tutti comunisti e black bloc.

Il Fatto si pente almeno in parte dell’oscena rappresentazione fatta nei giorni scorsi, in cui sembrava preoccupato di scavalcare a destra la stampa berlusconiana, e presenta un coro di voci dalla tendopoli di Porta Pia. Tardivo, ma almeno utile a riportare al centro dell’attenzione i temi veri, buttando nel cesso quelle ossessioni “legalitarie” che inevitabilmente “buttano” sempre a destra. Alla fine, a denti stretti, anche il quotidiano del duo Padellaro-Travaglio deve ammettere che “Per il resto hanno avuto ragione Cobas, Usb, movimenti No Tav e No Muos, gruppi di “inquilinato resistente”, anarchici, singoli esasperati dalla crisi, immigrati (tantissimi). La manifestazione è riuscita, finita a tarda sera con l’accampamento sociale a Porta Pia. C’è una frase che può offrire una sintesi della due giorni di cortei a Roma, è quella urlata da uno speaker dal camion musicale che apriva il corteo: “Siamo tanti, la crisi ci uccide ma non siamo più soli”.

Discorso in parte diverso per le reti televisive all news, che per forza di cose hanno dovuto girare e mandare in onda ore e ore dalla piazza. Qui, pur con ‘un’enfasi decisamente eccessiva per “gli scontri”, c’è stata “necessità” di riempire i “vuoti” gladiatorii con interviste dal campo.

Questa ultima osservazione ci spinge a dire che – con le ristrutturazioni interne alle grandi testate (si pre-pensionano i redattori esperti, ormai “troppo costosi”, e si riempiono i vuoti con giovani precari pagati pochissimo, anche 5 euro a “pezzo”) – la qualità complesiva dell’informazione italiana stia precipitando nel vuoto.

Non si tratta, ovviamente, di una critica alle capacità professionali dei giovani cronisti, ma delle loro condizioni di lavoro. Se guadagni troppo poco, devi fare più articoli al giorno, magari per testate diverse. Questo comporta due fenomeni automatici: a) la cura della notizia è per forza di cose molto minore (viene incentivato di fatto il semplice copia-e-incolla dalle agenzie); b) il linguaggio diventa “standard”, buono un po’ per qualsiasi testata o orientamento politico-culturale, senza più distinzioni.

Poi, certo, ci sono gli ordini indiscutibili dei capi-redattori edei direttori. Tanto più indiscutibili quanto più debole è la posizione contrattuale del cronista (un precario ha potere zero…).

E torniamo dunque alla domanda di partenza: ma che cavolo ha in testa chi governa i media? Un sistema ridotto in questo modo è utile soltanto come megafono delle paure del potere. Ma alla fine non gli può credere più nessuno. Perché nulla di quello che narra ha un rapporto con la realtà vissuta dai “telespettatori”. I quali, una volta usciti di casa, diventano immediatamente “antagonisti”, teppisti, disturbatori, ecc. Forse persino i giornalisti stessi, una volta fuori dalla redazione.