I dati della relazione Censis sostanziano quelli della Caritas sull’allargamento delle fasce di povertà, sull’accentramento della ricchezza nelle mani di un esiguo gruppo sociale, dando spessore sociale e politico ai numeri che già ISTAT aveva messo nero su bianco.
E’ in atto da almeno un quindicennio un trasformazione sociale che polarizza le differenze economiche tra ceti sociali andando a erodere, a sgretolare il differenziale di reddito di quella larga fascia sociale che nei paesi occidentali avanzati è chiamato ancora ceto medio.
Dunque, anche in Europa, negli Stati Uniti d’America, in Canada e in Giappone, si sta scivolando verso quella condizione che, nel secolo scorso, era considerata peculiare degli stati del Terzo Mondo ed oggetto di instabilità politica e sociale nei Paesi in via di sviluppo.
La globalizzazione e la crisi economica che l’accompagna, sopratutto nei paesi a capitalismo maturo, stanno producendo una omogeneizzazione planetaria anche nella distribuzione del reddito. Non è una novità per i movimenti, che, fin dalla rivolta di Seattle del novembre 1999, hanno fatto del diritto negato al reddito e ai diritti sociali per tutti la ragione cardine delle nostre iniziative e manifestazioni.
Riportiamo qui l’articolo di Roberto Ciccarelli dal Manifesto del 4 maggio 2014.
La sperequazione tra i redditi sono diventate così immense da avere raggiunto all’inizio del XXI secolo lo stesso livello record del 1910–1920. Ne ha parlato l’economista francese Thomas Piketty in Le capital au XXIe siècle(Seuil), un libro discusso anche in Italia dove non è ancora uscito. A leggere l’analisi pubblicata ieri dal Censis sulle diseguaglianze che separano in Italia un club di super-ricchi dalla maggioranza della popolazione, la tesi mostra tutta la sua attualità.
Nel nostro paese dieci persone dispongono di un patrimonio di 75 miliardi di euro pari a quello di quasi 500 mila famiglie operaie. Allargando di poco il cerchio, poco meno di 2mila italiani dispongono di un patrimonio superiore a 169 miliardi, escluse le proprietà immobiliari. In questo caso anche le percentuali aiutano a farsi un’idea: lo 0,003% della popolazione italiana possiede una ricchezza pari a quella del 4,5% di quella totale. E ancora: l’1% dei più ricchi, circa 414 mila persone, nel 2012 si è spartito un reddito netto di oltre 42 miliardi di euro. A livello individuale, calcola il Censis, significa un reddito netto da 102 mila euro l’anno. La maggioranza degli italiani invece arriva a malapena a 15 mila euro annui. La crisi non ha intaccato le rendite dei primi e la povertà dei secondi. Semmai ha rafforzato la tendenza.
Questa situazione non è il prodotto di un destino cieco e ineluttabile. È il risultato delle politiche economiche adottate da noi all’indomani dell’esplosione della crisi del debito sovrano. Il 27 gennaio scorso uno studio sulle diseguaglianze pubblicato dalla Banca d’Italia ha confermato che metà della ricchezza nazionale è detenuta dal 10% delle famiglie, mentre la povertà è aumentata coinvolgendo in un solo anno — era il 2011–2012 — il 16% della popolazione in più. Da allora, l’impatto dell’austerità ha moltiplicato queste proporzioni a tal punto che nel 2013 l’Istat ha certificato l’aumento dei poveri assoluti (oltre 4 milioni) e quello dei poveri relativi (oltre 9 milioni). Proporzioni che parlano concretamente degli effetti della “lotta di classe dall’alto” in corso nel mondo. In un recente rapporto l’Ong Oxfam sostiene che 85 individui possiedono una ricchezza pari a quella di oltre tre miliardi e mezzo di persone sul pianeta.
Per il Censis il dilagare dell’impoverimento coincide con l’adozione delle politiche di austerità in Italia, e in particolare con i tagli alla spesa pubblica e quelli agli investimenti. Tra il 2006 e il 2012 i consumi familiari annui degli operai si sono ridotti del 10,5%. Questo calo è direttamente collegato a quello del reddito familiare annuo: –17,9% rispetto a 12 anni fa. Ugualmente alto il calo dei redditi degli impiegati (-12%), più contenuto quello degli imprenditori (-3,7%). Il patrimonio dei dirigenti nel 2012 era pari a 5,6 volte quello di un operaio, mentre vent’anni fa era circa 3 volte superiore. Quello di un libero professionista oggi è 4,5 volte superiore al patrimonio di un operaio. Vent’anni fa era più basso: quattro volte in più. Quello di un imprenditore è pari a oltre 3 volte quello di un operaio (2,9 volte vent’anni fa).
Le iniquità sociali non riguardano solo il rapporto tra patrimonio e reddito. Colpisce la libertà individuale e decisioni importanti come quella di avere figli. Chi decide di averne uno deve confrontarsi con il rischio di diventare povero. L’alternativa è straziante. Diventa un incubo quando si tratta di decidere se averne un secondo. Per il Censis la sua nascita fa quasi raddoppiare il rischio di finire in povertà (20,6%). Quello di un terzo figlio lo triplica (32,3%). A Sud, poi, il rischio è quasi triplo (33,3%) rispetto a quello del Nord (10,7%). Sono queste le premesse che hanno creato il nuovo soggetto della crisi, che lo studioso Maurizio Lazzarato ha definito l’«uomo indebitato»: nel Sud il 18% dei residenti corrono il rischio di finire indebitati rispetto a quelli del Nord (10,4%) e del Centro (13%).
Il ceto medio, osserva il Censis, è ormai “sfarinato”. Con la perdita di una prospettiva, anche mediocre, di una redistribuzione e di un benessere futuro aumentano le possibilità di un “ritorno al conflitto sociale”. Per questo ceto medio, stritolato dalla lotta di classe della finanza contro il lavoro e la proprietà, il bonus di 80 euro al mese promesso da Renzi sarà tutt’al più un lenitivo, al peggio un miraggio di primavera. Se sarà permanente, sostiene il Censis, la spesa per consumi sarà di 3,1 miliardi in 8 mesi, il 15% in più rispetto al caso in cui il bonus non venga rinnovato. In questo caso, solo 2,2 milioni di italiani (su 10) spenderanno gli 80 euro per una pizza in più, mentre 5 milioni useranno gli 80 euro per pagare i debiti. Gli altri 2,7 si adegueranno alla congiuntura e, con ogni probabilità, terranno il bonus nel portafogli.