Miliarmi cioè miliardi in armi. Che governi Berlusconi (P2 18-16) o Monti, nei conti della crisi c’è un mistero da 15 miliardi che riguarda l’acquisto di 131 caccia-bombardieri F35.
Quest’estate quando agli italiani vennero chiesti sacrifici (sai che novità) circolò un appello intitolato «Come cittadino ho diritto all’istruzione, al lavoro, alla pensione e alla sanità… posso fare a meno di 131 cacciabombardieri F-35 Jsf».
Vale rileggerlo oggi.
«Mentre con le due manovre economiche estive, per pareggiare i conti dello Stato, si chiedono forti sacrifici agli italiani con tagli agli enti locali, alla sanità, alle pensioni, all’istruzione, il governo mantiene l’intenzione di procedere all’acquisto di 131 cacciabombardieri d’attacco F35 “Joint Strike Fighter” al costo di circa 20 miliardi di euro (15 per il solo acquisto e altri 5 in parte già spesi per lo sviluppo e le strutture di assemblaggio). Le manovre approvate porteranno gravi conseguenze sui cittadini: si stimano proprio in 20 miliardi i tagli agli Enti Locali e alle Regioni (che si tradurranno in minori servizi sociali o in aumento delle tariffe) e altri 20 miliardi saranno i tagli alle prestazioni sociali previsti dalla legge delega in materia fiscale ed assistenziale, senza contare il blocco dei contratti e degli aumenti ai dipendenti pubblici e l’aumento dell’IVA che colpirà indiscriminatamente tutti i consumatori. Il tutto per partecipare a un progetto di aereo militare “faraonico” (il più costoso della storia) di cui non si conoscono ancora i costi complessivi (cresciuti al momento almeno del 50% rispetto alle previsioni iniziali) e che ha già registrato forti critiche in altri Paesi partner (Norvegia, Paesi Bassi) e addirittura ipotesi di cancellazione di acquisti da parte della Gran Bretagna.
Senza dimenticare che, contemporaneamente, il nostro Paese partecipa anche allo sviluppo e ai costosi acquisti dell’aereo europeo EuroFighter Typhoon. Con i 15 miliardi che si potrebbero risparmiare cancellando l’acquisizione degli F-35 JSF si potrebbero fare molte cose: a esempio costruire duemila nuovi asili nido pubblici, mettere in sicurezza le oltre diecimila scuole pubbliche che non rispettano la legge 626 e le normative antincendio, garantire un’indennità di disoccupazione di 700 euro per sei mesi ai lavoratori parasubordinati che perdono il posto di lavoro. Siamo convinti che in un momento di crisi economica per prima cosa siano da salvaguardare i diritti fondamentali dei cittadini, investendo i fondi pubblici per creare presupposti a una crescita reale del Paese senza gettare i soldi in un inutile e costoso aereo da guerra.
PER QUESTO CHIEDIAMO AL GOVERNO DI NON PROCEDERE ALL’ACQUISTO DEI 131 CACCIA-BOMBARDIERI F35 E DESTINARE I FONDI RISPARMIATI ALLA GARANZIA DEI DIRITTI DEI PIU’ DEBOLI E ALLO SVILUPPO DEL PAESE investendo sulla società, l’ambiente, il lavoro e la solidarietà internazionale» (il maiuscolo è nel testo).
Sul sito www.disarmo.org/nof35 si possono vedere le adesioni ma anche dati, informazioni e cronistoria della campagna che è in corso da tempo, naturalmente (chi legge avvertirà l’ironia anche se non si accende la speciale lampadina rossa) nella quasi totale indifferenza dei media.
Cambiato il governo, gli F35 restano intoccabili. Così sabato 3 dicembre, il quotidiano «il manifesto» sbatte i mostri in prima pagina e dedica ben tre articoli a questo «pozzo senza fondo» nel quale prima si dice che ogni aereo costerà 65 milioni di euro ma poi si precisa che il prezzo non comprende né il motore né i sofisticati sistemi elettronici. Neanche il carrozziere (o il dentista) più disonesto fa scherzi del genere ma i vari governi italiani – D’Alema nel 1998, Berlusconi nel 2002, Prodi nel 2007 – firmano tranquillamente i vari memorandum d’intesa. Quei caccia ci servono, a qualunque costo. Il nuovo appello de «il manifesto», firmato da Tommaso di Francesco e supportato dai conti di Giulio Marcon e Manlio Dinucci, si intitola «Spese di guerra, parliamone» ed è serio, documentato e dunque cade nel consueto silenzio. Insomma reazioni politiche zero.
Ci sono due motivi, uno contingente e uno strategico, a spiegare perché il governo di Monti non prenderà in considerazione nessun taglio alle spese militari.
La ragione specifica è contenuta in un libretto (144 pagine per 8 euri) fresco di stampa per una casa editrice che si chiama – toh – Altreconomia: si intitola «L’economia armata» con il sottotitolo a spiegare «La produzione e il commercio di armi: conoscerne i meccanismi per promuovere un’economia di pace». Ne sono autori tre studiosi serissimi: Giorgio Beretta, Chiara Bonaiuti e Francesco Vignarca. Sin dalla premessa si parla di un «indissolubile intreccio» fra commercio d’armi e finanza. La quarta di copertina chiama in causa direttamente i cittadini detti normali informandoli che molto probabilmente aprendo un conto corrente «stanno contribuendo con un bullone all’acquisto di un carro armato» e che «investendo in un fondo pensione» ci sono 70 possibilità su 100 di alimentare la «produzione militare». Il taglio del libro invece è rigoroso, scientifico, pignolissimo. Non perché i due autori e l’autrice rifuggano l’impegno etico-politico ma perché temono che su argomenti così delicati sia necessario disporre di dati inoppugnabili per muoversi. Così la legge 185 (del 19 luglio 1990) che assicura una – almeno parziale – trasparenza sul commercio di armi come pure tutti i meccanismi della produzione italiana (nel quadro internazionale) e della finanza armata sono esaminati con precisione quasi maniacale. Il breve «Che cosa fare?» finale offre qualche spunto «per una mobilitazione critica di persone e associazione». Senza illudere che si trovi facilmente una via d’uscita.
Anche se «L’economia armata» è stato scritto quando ancora governava Berlusconi spiega in modo inoppugnabile perché nulla cambierà con Monti. Questo è, assai più del precedente, un governo delle banche e l’intreccio «tra produzione-commercio di armi e finanza» è – come detto – indissolubile.
Ma vi è anche un motivo di lunga durata, strategico che spiega perché anche governi di altro tipo faticheranno a liberarci delle spese militari. Anche in questo caso ricorro, per brevità, a un libro uscito nel 2005 e ovviamente (si tratta nuovamente di sarcasmo) ignorato da intellettuali, giornalisti e politici attenti al bene comune. Il libro venne pubblicato dalla Emi, casa editrice missionaria (un covo di terroristi con ogni evidenza) e si intitola «Dizionario critico delle nuove guerre». Ne è autore Marco Deriu che lo ha concepito proprio come un’enciclopedia di 181 voci più una densa introduzione e conclusioni (intitolate «per continuare a pensare») assai choccanti e che infatti fecero arrabbiare un bel po’ di pacifisti i quali – a mio avviso inspiegabilmente – si sentirono offesi.
La tesi di Deriu – suffragata da un’impressionante mole di fatti – è che la guerra sia ormai un «fenomeno sociale totale» accettato: se non si mutano l’economia, la vita quotidiana e persino l’immaginario delle nostre società non è possibile arginare la “necessità” di nuove guerre. Insomma «la guerra è profondamente intrecciata con la nostra normalità e senza rendercene conto la maggioranza di noi partecipa, più o meno inconsapevolmente e più o meno indirettamente, a questa realtà». Occorre fare i conti con molti rimossi, avverte Deriu, se davvero vogliamo incrinare questo modello.
In una sintesi ancora più estrema e provocatoria lo aveva scritto molti anni fa Gunther Anders: «L’industria non produce armi per le guerre ma guerre per le armi».
Dunque non sembra realistico oggi che qualcuno fermi la follia (da 15 miliardi) degli F35 oppure l’altra (da 10 miliardi) per i caccia Eurofighter Typhoon anche se quella montagna di soldi risparmiati consentirebbe di non massacrare le pensioni, di costruire (o mettere in sicurezza) molte scuole, di creare posti di lavoro per decine di migliaia di persone.
L’articolo finisce qui ma vorrei esprimere un auspicio – così contravvenendo alle regole del giornalismo secondo cui l’autore non deve chiamarsi in causa – cioè di sbagliarmi e che una massiccia mobilitazione popolare costringa il governo dei banchieri a convertire i soldi degli F35 in qualcosa di socialmente utile.