A proposito di Femminicidio
di Lidia Cirillo
Si sarebbe quasi tentate di non tornare più sul “femminicidio”, divenuto tema perfino delle trasmissioni di intrattenimento di Mediaset, ma si tratterebbe di una tentazione malsana. Bisogna solo non confondere, nelle intenzioni e nel senso, le denunce femministe con i bla-bla mediatici.
Sono passati solo sei anni da quando a Roma un imponente corteo, che si autonominava di “femministe e lesbiche”, sfilava con uno slogan dotato di un grande potere esplicativo: l’assassino ha le chiavi di casa. Alcuni anni dopo la stessa idea circola libera anche sui media peggiori e significherebbe davvero essere sorde non riconoscere che nel senso comune qualcosa è cambiato.
La cosa in sé non dovrebbe meravigliare perché dagli anni Sessanta del secolo scorso molte lotte femministe hanno mutato la mentalità della gente e il modo in cui le donne si percepiscono e sono percepite. Quello culturale è il piano su cui il femminismo ha riportato le più significative vittorie, anche perché lì ha concentrato le sue polemiche e le sue pratiche. Ma non solo per questo.
Torniamo un momento indietro e ripassiamo la lezione femminista, prima di pronunciarci sull’oggi e sulle ragioni della magra conquista per cui l’opinione pubblica è ora informata sull’identità dell’assassino.
La violenza contro le donne rappresenta l’aspetto repressivo che caratterizza ogni rapporto di potere, soprattutto quando viene rimesso in discussione da chi è stata/o troppo a lungo in posizione subalterna e non accetta più le vecchie regole del gioco. Spesso la violenza è la reazione a un atto di libertà della donna, alla scelta della separazione o alla denuncia di maltrattamenti e minacce. Quando avviene il contrario, quando cioè a voler recuperare la propria libertà è l’uomo, la logica non cambia perché l’omicidio come soluzione del problema rivela l’inconscia convinzione di poter disporre della proprietà di un corpo femminile, sia quando vuole allontanarsi, sia quando resta come ingombrante presenza. Anche quando la violenza non diventa omicidio, non si consuma in famiglia e si manifesta come violenza sessuale, il significato è lo stesso. Al fondo si tratta di una specie di punizione per la libertà che la donna si è concessa di uscire sola in tempi e luoghi a rischio, rinunciando alla protezione maschile o del gruppo. Non si tratta dell’unica spiegazione, ma mi si perdonerà se vado alla sostanza perché il discorso è lungo e non semplicissimo.
Una volta individuate le cause, su cui c’è una certa omogeneità di opinione, il femminismo si è poi diviso sui rimedi. Negli anni Settanta e Ottanta ci fu una lunga polemica intorno alla domanda: è giusto chiedere a questo Stato un aumento delle misure repressive, non c’è il rischio che le utilizzi poi a suo modo, vale a dire con finalità assai diverse dalla nostre? Come spesso accade, ci si divise in due posizioni troppo semplificate per essere giuste.
Che un certo livello di repressione sia indispensabile e giusto, sarebbe difficile negarlo. La sottovalutazione dei crimini commessi contro una parte del corpo sociale è stata nella storia una delle espressioni della sua svalorizzazione e subalternità: si è potuto disporre della vita di uno schiavo o di una donna; i delitti commessi da membri delle classi superiori contro membri delle inferiori si sono pagati a prezzo scontato per secoli; l’omicidio di un afroamericano ancora oggi negli Stati Uniti può essere pagato meno dell’omicidio di un bianco. In India la condanna di un gruppo di stupratori omicidi è stata vissuta come una svolta in una cultura in cui spesso lo stupro è tollerato e la vergogna ricade sulla vittima piuttosto che sullo stupratore. Una svolta però irrimediabilmente segnata dalla barbarie della pena di morte.
In realtà non c’è alcuna ragione per fare su questo tema considerazioni diverse da quelle che abbiamo sempre fatto a proposito di altri reati: l’aumento delle pene imbarbarisce la società e soprattutto non risolve i problemi. Ci si dirà che la violenza contro le donne non è un reato come gli altri: d’accordo, ma quando si propone come soluzione un più massiccio intervento di polizia e magistratura, allora lo si tratta esattamente come un reato simile agli altri.
In alternativa all’aumento delle pene, gran parte del movimento femminista ha proposto due rimedi: la continuazione della battaglia culturale per la dignità e la libertà delle donne; il finanziamento e il rafforzamento dei centri antiviolenza, che meritoriamente hanno salvato l’esistenza di non poche donne. Bisogna però oggi chiedersi, se davvero siano queste le vie principali da percorrere. Per quanto giuste, entrambe hanno limiti evidenti. La prima rimanda a una battaglia secolare, fondamentale certo, ma dagli effetti a lungo termine e soprattutto non specifici. La seconda o riguarda un numero troppo ridotto di donne oppure, se fosse assunta in pieno dallo Stato, produrrebbe il solito carrozzone di interessi privati, ceti politici e preti a cui sul terreno dei rapporti di genere si riduce spesso lo Stato sociale in Italia. Si tratta non di negare l’esigenza di continuare a percorrere le due strade, ma di comprendere quale svolta potrebbe dar loro sostanza.
La svolta di cui il femminismo italiano ha bisogno deve prendere atto dell’inefficacia crescente delle battaglie solo culturali, soprattutto in presenza di una crisi come l’attuale, i cui effetti non sono solo materiali, ma anche politici e quindi culturali.
Anche qui il discorso non è facile e imporrebbe di rispondere alla fine almeno a una domanda: che cosa è la violenza contro le donne, il residuo di un rapporto di potere arcaico, represso da uno Stato tutore di interessi altri e più moderni oppure ha una sua modernità e funzionalità ed è punito dallo Stato per ovvie ragioni di monopolio e modalità della violenza? Oppure, perché la domanda suoni più comprensibile, esiste una violenza di Stato che preserva anche i rapporti di potere fondati sul genere? Ogni eventuale risposta dovrebbe tenere conto che i rapporti di potere non solo si sostengono reciprocamente, ma anche si mantengono complessivamente. Proverò a dirlo in maniera più semplice attraverso qualche esempio.
Di fronte alla possibilità di rivolte popolari contro le condizioni di vita imposte dalla crisi, il ricorso delle grandi forze economiche a destre populiste, razziste, omofobe e sessiste è uno dei modi attraverso i quali un rapporto di potere arcaico si modernizza, diventando funzionale a un altro, in modo particolare a quello di classe. Si può dire che ogni violenza di uno Stato che abbia questo tipo di direzione politica è anche violenza di genere, non dimenticando però che sessismo, razzismo e omofobia non caratterizzano solo la destra, ma per questa l’esempio ha maggiore evidenza e richiede un minor numero di passaggi concettuali.
Un altro esempio. Durante la prima campagna di mutuo soccorso con le donne che in Grecia hanno perso il diritto all’assistenza sanitaria pubblica (messa in piedi dalla rete “Donne nella crisi”), la femminista greca Sonia Mitralia ha raccontato della regressione subita nel suo paese dai rapporti di genere. La disoccupazione, la perdita per molta gente dell’assistenza sanitaria, l’impossibilità di continuare a pagare un mutuo o un affitto hanno prodotto la comprensibile reazione del ricorso alle riserve più profonde, e quindi più tradizionali, del corpo sociale. La famiglia ridiventa luogo privilegiato di relazioni solidali, la coabitazione respinge le donne alla condizione di ammortizzatori dei contrasti, la perdita dei servizi sociali si sovrappone a una cultura in cui l’idea della condivisione dei compiti di riproduzione aveva appena appena cominciato a farsi strada. Si può dire anche in questo caso che ogni repressione di lotte contro questo stato di cose sia, a suo modo, anche una repressione di genere. Un esempio ancora, non facile, perché può essere inteso come giustificazione della violenza e che tuttavia va fatto, se non si vuole avere un’immagine troppo parziale della realtà. La perdita del posto di lavoro, la carenza di risorse economiche, l’esistenza precaria umiliano ed esasperano soprattutto la parte maschile, abituata a considerarsi sostegno principale della famiglia e ad affidare a questo ruolo la propria identità.
La proposta di una svolta non significa il ritorno a una riduzione del conflitto di genere al conflitto di classe e all’arido economicismo contro cui la mia generazione giustamente si ribellò a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso. Allora insistemmo sull’importanza misconosciuta dei fattori psicologici, culturali e simbolici. Oggi bisognerebbe fare un viaggio in senso inverso, senza tuttavia perdere l’acquisito, e ricordare che le condizioni materiali di esistenza non sono sempre e dappertutto decisive, ma crescono d’importanza man mano che la crisi si drammatizza e imbarbarisce le relazioni sociali e la politica.
La cosa in sé non dovrebbe meravigliare perché dagli anni Sessanta del secolo scorso molte lotte femministe hanno mutato la mentalità della gente e il modo in cui le donne si percepiscono e sono percepite. Quello culturale è il piano su cui il femminismo ha riportato le più significative vittorie, anche perché lì ha concentrato le sue polemiche e le sue pratiche. Ma non solo per questo.
Torniamo un momento indietro e ripassiamo la lezione femminista, prima di pronunciarci sull’oggi e sulle ragioni della magra conquista per cui l’opinione pubblica è ora informata sull’identità dell’assassino.
La violenza contro le donne rappresenta l’aspetto repressivo che caratterizza ogni rapporto di potere, soprattutto quando viene rimesso in discussione da chi è stata/o troppo a lungo in posizione subalterna e non accetta più le vecchie regole del gioco. Spesso la violenza è la reazione a un atto di libertà della donna, alla scelta della separazione o alla denuncia di maltrattamenti e minacce. Quando avviene il contrario, quando cioè a voler recuperare la propria libertà è l’uomo, la logica non cambia perché l’omicidio come soluzione del problema rivela l’inconscia convinzione di poter disporre della proprietà di un corpo femminile, sia quando vuole allontanarsi, sia quando resta come ingombrante presenza. Anche quando la violenza non diventa omicidio, non si consuma in famiglia e si manifesta come violenza sessuale, il significato è lo stesso. Al fondo si tratta di una specie di punizione per la libertà che la donna si è concessa di uscire sola in tempi e luoghi a rischio, rinunciando alla protezione maschile o del gruppo. Non si tratta dell’unica spiegazione, ma mi si perdonerà se vado alla sostanza perché il discorso è lungo e non semplicissimo.
Una volta individuate le cause, su cui c’è una certa omogeneità di opinione, il femminismo si è poi diviso sui rimedi. Negli anni Settanta e Ottanta ci fu una lunga polemica intorno alla domanda: è giusto chiedere a questo Stato un aumento delle misure repressive, non c’è il rischio che le utilizzi poi a suo modo, vale a dire con finalità assai diverse dalla nostre? Come spesso accade, ci si divise in due posizioni troppo semplificate per essere giuste.
Che un certo livello di repressione sia indispensabile e giusto, sarebbe difficile negarlo. La sottovalutazione dei crimini commessi contro una parte del corpo sociale è stata nella storia una delle espressioni della sua svalorizzazione e subalternità: si è potuto disporre della vita di uno schiavo o di una donna; i delitti commessi da membri delle classi superiori contro membri delle inferiori si sono pagati a prezzo scontato per secoli; l’omicidio di un afroamericano ancora oggi negli Stati Uniti può essere pagato meno dell’omicidio di un bianco. In India la condanna di un gruppo di stupratori omicidi è stata vissuta come una svolta in una cultura in cui spesso lo stupro è tollerato e la vergogna ricade sulla vittima piuttosto che sullo stupratore. Una svolta però irrimediabilmente segnata dalla barbarie della pena di morte.
In realtà non c’è alcuna ragione per fare su questo tema considerazioni diverse da quelle che abbiamo sempre fatto a proposito di altri reati: l’aumento delle pene imbarbarisce la società e soprattutto non risolve i problemi. Ci si dirà che la violenza contro le donne non è un reato come gli altri: d’accordo, ma quando si propone come soluzione un più massiccio intervento di polizia e magistratura, allora lo si tratta esattamente come un reato simile agli altri.
In alternativa all’aumento delle pene, gran parte del movimento femminista ha proposto due rimedi: la continuazione della battaglia culturale per la dignità e la libertà delle donne; il finanziamento e il rafforzamento dei centri antiviolenza, che meritoriamente hanno salvato l’esistenza di non poche donne. Bisogna però oggi chiedersi, se davvero siano queste le vie principali da percorrere. Per quanto giuste, entrambe hanno limiti evidenti. La prima rimanda a una battaglia secolare, fondamentale certo, ma dagli effetti a lungo termine e soprattutto non specifici. La seconda o riguarda un numero troppo ridotto di donne oppure, se fosse assunta in pieno dallo Stato, produrrebbe il solito carrozzone di interessi privati, ceti politici e preti a cui sul terreno dei rapporti di genere si riduce spesso lo Stato sociale in Italia. Si tratta non di negare l’esigenza di continuare a percorrere le due strade, ma di comprendere quale svolta potrebbe dar loro sostanza.
La svolta di cui il femminismo italiano ha bisogno deve prendere atto dell’inefficacia crescente delle battaglie solo culturali, soprattutto in presenza di una crisi come l’attuale, i cui effetti non sono solo materiali, ma anche politici e quindi culturali.
Anche qui il discorso non è facile e imporrebbe di rispondere alla fine almeno a una domanda: che cosa è la violenza contro le donne, il residuo di un rapporto di potere arcaico, represso da uno Stato tutore di interessi altri e più moderni oppure ha una sua modernità e funzionalità ed è punito dallo Stato per ovvie ragioni di monopolio e modalità della violenza? Oppure, perché la domanda suoni più comprensibile, esiste una violenza di Stato che preserva anche i rapporti di potere fondati sul genere? Ogni eventuale risposta dovrebbe tenere conto che i rapporti di potere non solo si sostengono reciprocamente, ma anche si mantengono complessivamente. Proverò a dirlo in maniera più semplice attraverso qualche esempio.
Di fronte alla possibilità di rivolte popolari contro le condizioni di vita imposte dalla crisi, il ricorso delle grandi forze economiche a destre populiste, razziste, omofobe e sessiste è uno dei modi attraverso i quali un rapporto di potere arcaico si modernizza, diventando funzionale a un altro, in modo particolare a quello di classe. Si può dire che ogni violenza di uno Stato che abbia questo tipo di direzione politica è anche violenza di genere, non dimenticando però che sessismo, razzismo e omofobia non caratterizzano solo la destra, ma per questa l’esempio ha maggiore evidenza e richiede un minor numero di passaggi concettuali.
Un altro esempio. Durante la prima campagna di mutuo soccorso con le donne che in Grecia hanno perso il diritto all’assistenza sanitaria pubblica (messa in piedi dalla rete “Donne nella crisi”), la femminista greca Sonia Mitralia ha raccontato della regressione subita nel suo paese dai rapporti di genere. La disoccupazione, la perdita per molta gente dell’assistenza sanitaria, l’impossibilità di continuare a pagare un mutuo o un affitto hanno prodotto la comprensibile reazione del ricorso alle riserve più profonde, e quindi più tradizionali, del corpo sociale. La famiglia ridiventa luogo privilegiato di relazioni solidali, la coabitazione respinge le donne alla condizione di ammortizzatori dei contrasti, la perdita dei servizi sociali si sovrappone a una cultura in cui l’idea della condivisione dei compiti di riproduzione aveva appena appena cominciato a farsi strada. Si può dire anche in questo caso che ogni repressione di lotte contro questo stato di cose sia, a suo modo, anche una repressione di genere. Un esempio ancora, non facile, perché può essere inteso come giustificazione della violenza e che tuttavia va fatto, se non si vuole avere un’immagine troppo parziale della realtà. La perdita del posto di lavoro, la carenza di risorse economiche, l’esistenza precaria umiliano ed esasperano soprattutto la parte maschile, abituata a considerarsi sostegno principale della famiglia e ad affidare a questo ruolo la propria identità.
La proposta di una svolta non significa il ritorno a una riduzione del conflitto di genere al conflitto di classe e all’arido economicismo contro cui la mia generazione giustamente si ribellò a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso. Allora insistemmo sull’importanza misconosciuta dei fattori psicologici, culturali e simbolici. Oggi bisognerebbe fare un viaggio in senso inverso, senza tuttavia perdere l’acquisito, e ricordare che le condizioni materiali di esistenza non sono sempre e dappertutto decisive, ma crescono d’importanza man mano che la crisi si drammatizza e imbarbarisce le relazioni sociali e la politica.