La sentenza Cucchi conferma la licenza di uccidere conferita alle nostre quattro Polizie.
Il dispositivo della terza Corte di Assise di Roma che ha sentenziato in ordine all’omicidio di Stefano Cucchi genera profondo dolore e rabbia, ma non altrettanto stupore. Sono sotto processo tre agenti della Polizia Penitenziaria, tre infermieri e sei medici dell’ospedale Pertini: le condanne sono solo per i medici, condannati per omicidio colposo, fino a un massimo di due anni per il primario del reparto, pene interamente paralizzate tramite l’applicazione della condizionale. Non un assassinio, ma incuria, trascuratezza professionale, errori, omissioni. Non c’è stato nessun pestaggio. La vita di Stefano vale 320 mila euro, a tanto ammonta la provvisionale disposta in via accessoria.
Conosciamo bene la sua storia. La sua come quella di altri, troppi, che hanno fatto la stessa fine nello stesso modo. Dal suo arresto nell’ottobre 2009 con l’accusa di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti al suo pestaggio, alla sua morte in un letto d’ospedale dopo una settimana senza che nessuno, ne familiari ne difensori, abbia avuto l’autorizzazione a vederlo. E nessuno ne sarebbe venuto a conoscenza se la famiglia e i movimenti non si fossero battuti per spezzare il muro di omertà che veniva edificandosi attorno a questo ennesimo omicidio di Stato.
A dicembre dello scorso anno è stata resa nota la super perizia disposta dalla Corte per accertare le cause del decesso. Le conclusioni di sei luminari dell’istituto Lebanof di Milano furono per l’attribuzione della colpa ai medici, che avrebbero sottovalutato la carenza di cibo e liquidi e il suo grave stato di malnutrizione. In 190 pagine hanno costruito la base d’appoggio per la sentenza di oggi, mettendo in dubbio la relazione tra morte e pestaggio. Meglio: mettendo in dubbio lo stesso pestaggio, suggerendo una caduta quale origine delle lesioni, scrivendo che “non vi sono elementi che facciano propendere per l’una piuttosto che l’altra dinamica lesiva”. Imperizia, negligenza, superficialità: una condotta meramente “colposa”.
La Corte ha verosimilmente sposato appieno la tesi dei professori malgrado le immagini del corpo martoriato di Stefano siano da anni di dominio pubblico, a disposizione di tutti e tragicamente eloquenti. La Corte ha ancora una volta spezzato una lancia a favore del Diritto di Polizia, quell’insieme di norme non scritte che consegna alle nostre quattro polizie una oggettiva licenza di uccidere. Così come troppe volte negli ultimi anni si è verificato, fino ad estendere tale salvacondotto ai corpi scelti del nostro Esercito, legittimato all’uso delle armi in difesa degli interessi privati, vedi il caso dei Marò. I giudici romani hanno seguito l’indirizzo di sempre, malgrado qualche timido segnale in direzione contraria: unica eccezione – che come sempre conferma la regola – la posizione del Tribunale di Sorveglianza di Bologna circa gli assassini di Federico Aldrovandi.
Se questo singolare avamposto democratico dell’esercizio della giustizia scrive che le violenze subite da Aldro “sono qualificabili come tortura” nulla cambia invece nell’assoggettamento della attività giudiziaria alle ragioni della politica e della tutela dell’agire delle forze dell’ordine. Quanto accaduto oggi a Terni in occasione della manifestazione dell’ AST, ex Thyssen, compresi i punti di sutura sulla testa del sindaco, ne è solo l’ultima prova. Perché evidentemente c’è ancora molto da fare sul terreno del contrasto all’uso criminale della forza poliziesca, della determinazione di norme certe sull’uso delle armi, sulle regole di ingaggio, sulla riconoscibilità del personale in divisa. Sull’adozione nel nostro ordinamento penale del reato di tortura, così come prescritto da un’ormai antica risoluzione Onu.
Di tutto ciò parleremo in seno allo Sherwood Festival il prossimo 10 luglio, anche con Patrizia Moretti, la mamma di Aldro, e Lucia Uva. Per chiedere giustizia. Per lavorare per averla.
Sherwood Festival 10 luglio : Licenza di tortura