“Behemoth”, il film sul demone dello sviluppo insostenibile, vince il Green Drop Award
di Maria Fiano – Vince il Green Drop Award 2015 “Behemoth” presentato alla Mostra del Cinema di Venezia perché “meglio interpreta la sostenibilità tra i film in gara”. In effetti il documentario di Zhao Liang convince e piace. Moltissimo. Evocativo, allegorico, apocalittico: è un viaggio nelle viscere della terra, là, nelle miniere della Mongolia, dove centinaia di donne e uomini lavorano, scavano e producono, respirando polvere di carbone giorno e notte, senza tregua, .
Behemoth per la Bibbia è una creatura straordinaria: imbattibile, grande e possente, un mostro che divora pascoli immensi, proprio come la miniera. Il documentario di Liang è una caduta agli inferi, senza ritorno: sprofondiamo insieme alla camera centinaia e centinaia di metri sotto terra, nelle sue viscere incandescenti per risalire in superficie, stanchi, sudici e sudati. Una sorta di immaginario e allegorico cammino dantesco guidati da uno strano Virgilio che trascina in silenzio sulle sue spalle uno specchio che “riflette i mali del mondo”: è così che tra rocce e polveri incontriamo i dannati della terra e tocchiamo con mano una minacciosa legge del contrappasso che fa pagare l’avidità degli uomini con lo sfruttamento perenne dei loro simili, tra fiamme e fuliggine che finiscono per divorare tutto: paesaggi, sentimenti, parole. E’ un documentario senza dialoghi: parlano le macchine e una voce fuori campo che punta il dito sulle scelte scellerate della nostra era. A scandire il tempo restano solo il sordo boato della miniera e i rumori metallici delle gru e dei camion mentre i minatori si piegano, senza più parole, ai voleri del produttivismo industriale. Non parlano gli uomini, zittiti, da questo tempo e questo paesaggio disumanizzato. Non parlano mentre si attardano a togliersi di dosso le tracce della polvere di carbone, mentre mangiano, si strofinano, si siedono o camminano. Perché non resta loro niente di umano, ricoperti da fuliggine e carbone.
Le immagini di Zhao Liang testimoniano la situazione dei lavoratori delle miniere della Mongolia, rappresentate come un mostro o come veri e propri gironi danteschi da cui però non si può uscire a “riveder le stelle”. Un “Je accuse” violento contro la distruzione del pianeta e l’abbrutimento dell’uomo in nome di paradisi effimeri e inesistenti, costruito su un puzzle di ritratti e paesaggi accompagnati da un frastuono continuo che si impressiona nella memoria.
Secondo la giuria “il film si rivela un documentario di denuncia sullo sviluppo insostenibile della Cina e delle società industrializzate. Gli uomini, le donne, l’ambiente, la natura sono rappresentati come sacrificio in nome di un progresso che, con un colpo di scena finale, si rivela inesistente. Nel viaggio dantesco simulato dal regista cinese non c’è salvezza, ma insegnamento morale, un monito per gli spettatori di ogni latitudine del globo”.
Zhao Liang non racconta solo la Cina: parla di come la produzione industriale stia distruggendo ovunque paradisi naturali e disumanizzando il lavoro di donne e uomini prigionieri di un modello produttivo che condanna tutto alla distruzione e al niente.
“E Dio creò il Behemoth il quinto giorno. Era il mostro più grande di tutti. Mille montagne gli servivano da pascolo.”
da Ecomagazine