Il dibattito intorno al tema dello ius soli tra democrazia e cittadinanza europea
Potrà un Governo composto da Cecile Kyenge all’Integrazione, Angelino Alfano all’Interno e sostenuto dalla fiducia condizionata del PDL introdurre una nuova legge sulla cittadinanza?
La domanda sembra retorica e la risposta piuttosto scontata. Al di là del continuo riproporsi del tema nel dibattito pubblico, l’approvazione di una nuova legge che superi il principio dello ius sanguinis sembra molto lontana.
La contrarietà della destra era prevedibile, quella del Movimento 5 Stelle desta inquietudine, ma a frenare l’enfasi della neo-ministra all’integrazione ci ha pensato poco più che una settimana fa il Presidente del Consiglio Letta, durante la trasmissione “Che tempo che fa”, dichiarando che “il tema gli è caro ma si tratta di un argomento al di fuori dal percorso della fiducia”.
Al centro della scena torna così il solito ritornello del “vorremmo ma non possiamo”, uno scarica barile che rigetta continuamente la responsabilità nelle mani di Berlusconi, mentre alle parole dei sostenitori della riforma, che continuano a dichiararla cruciale per il futuro del Paese, non segue alcun fatto concreto.
La domanda giusta sembra quindi un’altra: può essere considerato un governo di cambiamento quello che sacrifica sull’altare delle larghe intese l’introduzione del principio dello ius soli?
Per la verità la risposta va ricercata nella stessa natura dell’esecutivo in carica, nato dalle macerie del Partito Democratico e del suo fallimento elettorale ma tutt’altro che frutto di un pasticcio.
Il Governo che strizza l’occhio al popolo, anche e soprattutto nella sua composizione, con la media età dei ministri più giovane di sempre ed alcuni volti inediti, risponde alla necessità di rimuovere tutte le opzioni che avevano minacciato la legittimità dei vecchi partiti e la politica di subordinazione imposta dall’Europa della Bce e dei capitali finanziari. Tutta la vicenda della rielezione del vecchio Presidente Napolitano che ne è stato il preludio, condita dalla retorica dell’acclamazione popolare, è frutto della stessa ricerca.
Ed anche la nomina al Ministero dell’Intergrazione di una donna di origini africane va nella stessa direzione. Certamente si tratta di una novità, ma non per forza di un’innovazione. Si parla infatti di “una nera al governo”, di cui non mettiamo in dubbio la buona volontà ma fatichiamo a comprendere le scelte, mentre nulla di concreto si affaccia all’orizzonte quanto alla messa in discussione dei CIE, delle norme vessatore sui permessi di soggiorno, delle restrizioni ai ricongiungimenti familiari, delle inadempienze italiane in materia di accoglienza ed asilo.
Cosa può esserci allora di nuovo e positivo se neppure la riforma sulla cittadinanza, condivisa anche dal salvatore della Patria Giorgio Napolitano, è tra i punti all’ordine del giorno?
Per comprendere la portata reale di questa domanda, la cui risposta appare comunque già scontata, è utile riposizionare il dibattito sul terreno che li è proprio.
In primo luogo ricollocando la discussione sulla cittadinanza tra le vicende dello Stato Moderno, anch’essa pienamente investita da quella crisi, avviata dai processi della globalizzazione, che lo ha accompagnato lungo tutta la seconda metà del secolo scorso.
In secondo luogo definendo il quadro di riferimento che non può essere che quello europeo. E’ infatti con la dimensione europea che la cittadinanza attribuita dagli Stati deve oggi confrontarsi, perché è in favore dell’Europa che si sono destrutturati gli Stati moderni e quel nesso tra sovranità, popolo e territorio che ne è stato a fondamento.
Lo spazio europeo della democrazia
Guardando all’Europa di oggi, quella attenta alle valutazioni delle agenzie di rating più che allo stato di salute della sua democrazia, appare evidente come si sia definitivamente interrotta la sua continuità con quei processi di allargamento della sfera dei diritti che, pur in maniera contradditoria, a partire dall’Ottocento, avevano caratterizzato la storia degli Stati Nazione.
Ma non è sempre stato così. Perchè la fase di costruzione dell’Europa, proprio nel suo dispiegare nuove energie che andavano oltre i perimetri degli Stati, aveva parallelamente aperto l’opportunità di immaginare anche una nuova dimensione della democrazia e con essa della cittadinanza.
La crisi e le scelte delle elite europee hanno però ovviamente lavorato in un’altra direzione, ingabbiando quella spinta in burocrazie e diktat finanziari.
Così, l’Europa dei cittadini annunciata dai padri fondatori, ed oggi riconosciuta da tutti come necessità, è rimasta tale solo sulla carta. La sua sovranità è andata via via concentrandosi nelle mani della Banca Centrale e del Consiglio, organi non eletti, ma veri epicentri del potere decisionale. Un vero e proprio processo costituente dall’alto.
Contemporaneamente le geografie dell’Europa si sono ridisegnate proiettando ad Est come a Sud i suoi confini, anche oltre l’allargamento formale delle frontiere comunitarie, fino al ventre del continente africano e nel cuore dei Balcani, dove l’Unione proietta le sue politiche e ridefinisce così in forma espansiva il suo territorio.
Di contro, a più di cinquant’anni dalla sua nascita, calcano il suolo dell’Europa milioni di persone a cui il confine ha attribuito la qualifica di “non cittadini”.
In questo quadro, la cittadinanza europea è rimasta comunque ancorata al riconoscimento della nazionalità da parte dei suoi Stati Membri, ridotti a meri amministratori della crisi, ed è proprio questo divario a rappresentare il vuoto di democrazia che caratterizza l’Europa odierna.
Sia chiaro, non ci spinge nessuna tensione anti-europeista nel proporre questa riflessione, ma è proprio su questo punto, su questo campo di tensione aperto tra il riconoscimento della cittadinanza come prerogativa degli Stati Membri e la possibilità di una cittadinanza europea come spazio più ampio di diritti e opportunità che è il caso di investire. Si tratta di reinventare la costruzione di un’ Europa che, per dirla come Balibar, “realizzi un sovrappiù di democrazia rispetto agli Stati Nazione che la compongono”.
Le geometrie variabili della cittadinanza europea
Fin dalla sua nascita l’Europa ha costruito la sua identità intorno alla definizione di ciò che è altro da sé. Insieme ad essa, il concetto di cittadinanza europea ha preso forma cercando di individuare ciò che sta fuori dalla sua cornice, senza invece prestare attenzione all’arricchimento del suo contenuto.
Nonostante questo non si è mai trattatto di uno spazio di per sé escludente, o meglio, la cittadinanza europea ha rivelato nel suo processo di costruzione materiale, pur in forma normativamente non riconosciuta, un’inedita capacità incorporante, una funzione di ”inclusione escludente” in grado di comprendere al suo interno, non senza contraddizioni, anche i “non cittadini”, coloro che abitano il territorio dell’Unione e che confrontandosi e scontrandosi con gli istituti dell’Europa, nel corso del tempo, hanno forzato le geometrie della cittadinanza europea, praticandone informalmente le prerogative, esercitando quel “diritto ad avere diritti” tanto caro ad Hannah Arendt.
In questo quadro appare oggi sempre meno netta la separazione tra inclusi ed esclusi, tra chi sta dentro e chi sta fuori la cornice della cittadinanza.
Più che di uno status che qualifica in maniera compiuta il rapporto tra il singolo, il territorio che questi abita con altri e l’autorità che ne è sovrana, la cittadinanza europea appare sempre più come qualcosa di fluido, selettivo, un campo di tensione in cui si misurano spinte contrapposte. Da una parte l’ambizione verso una cittadinanza europea come surplus democratico, dall’altra il lavoro di eslcusione proprio delle oligarchie europee.
La risultante è una stratificazione di livelli gerarchici. Al di là del suo riconoscimento formale infatti, la geometria della cittadinanza europea si è ridisegnata nella sostanza come spazio graduale, caratterizzato da posizioni differenziate a cui corrispondono anche differenti diritti ed al cui interno è possibile riconoscere ed occupare diverse posizioni. Dalla “clandestinità” dei soggetti non autorizzati, al riconoscimento normativo dei cittadini formali, passando per i diversi livelli del diritto di soggiorno, ci sono insomma una infinità di posizioni sfumate, tutte pienamente competenti a prender parte al processo di costituzione materiale dell’Europa almeno per due ragioni: per il fatto di misurarsi con i suoi tentativi di esclusione e al tempo stesso per il confronto che impongono con una nuova dimensione allargata della cittadinanza.
Si tratta quindi di abbandonare una concezione molle della cittadinanza che la svuota di ogni suo potenziale trasformativo.
Ciò che emerge dal processo costituente dell’Europa, al contrario, è uno spazio della cittadinanza tutt’altro che statico, certamente interessato da spinte che hanno cercato di perimetrarne la dimensione, relegandola a mero esercizio della democrazia in delega ed a volte negando anche quello, ma al tempo stesso investito di una carica conflittuale dirompente.
E’ su questo terreno, quello del confronto tra l’Europa di oggi, arroccata nei palazzi del potere decisionale e la pratica della cittadinanza europea come espressione di un conflitto continuo per allargarne i confini e riqualificarne i contenuti, che è possibile immaginare un nuovo processo costituente per una nuova Europa democratica e quindi nuovi diritti di cittadinanza.
Diritti di cittadinanza e cittadinanze indesiderate
Il rapporto tra il deficit di democrazia in seno all’Europa e la pratica di una cittadinanza europea che determini una rottura dei limiti posti dalla cittadinanza formale concessa dagli stati, è uno dei nodi cruciali del nostro presente.
Da questo punto di vista, nel tentativo cioè di forzare gli argini della cittadinanza europea, è opportuno parlare di diritti di cittadinanza, per restituire l’idea di un terreno di contesa, uno spazio di tensioni ed ambizioni, mobile e continuamente soggetto a contrattazione, che supera la definizione statica di cittadinanza legata alla sua codificazione.
E’ all’interno di questo spazio, quello dei diritti di cittadinanza, che va collocata la questione del riconoscimento della cittadinanza italiana ai giovani stranieri nati in Italia, come uno dei tanti e diversi gradini che è possibile “occupare” nella scala mobile della cittadinanza gerarchica.
Tornando al dibattito sullo ius soli, quindi, sembra utile sgombrare il campo da una mistificazione: l’acquisizione della cittadinanza nazionale non è la soluzione di tutti i mali.
I suoi limiti sono oggi evidenti proprio guardando alla sfera complessiva dei diritti di cittadinanza che sono ben altra cosa rispetto al rilascio di un passaporto.
La precarietà che si consuma come situazione di vita nella sfera del lavoro e non solo, buona parte dei diritti civili che ancora faticano ad essere riconosciuti, la deturpazione del territorio, l’espropriazione indebita dei beni comuni, il progressivo spostamento verso l’alto dei processi decisionali, una crisi scaricata in maniera drammatica sul welfare proprio dalla board dell’Europa, sono un destino che accomuna oggi cittadini e non cittadini, a cui non sarebbero certo sottratti i nuovi nati se gli fosse attribuita la cittadinanza italiana.
Ma proprio per questo la richiesta immediata di una modifica normativa che stabilisca il principio dello ius soli per l’attribuzione della cittadinanza ai giovani nati in Italia da genitori stranieri, risulta ancora più giusta, necessaria e sacrosanta.
Non essere subordinati al ricatto della richiesta di un permesso per vivere dove si è nati e cresciuti, potersi muovere in maniera più agile dentro e fuori i confini dell’Unione, praticare sport senza restrizioni e divieti, accedere al pari delle famiglie dei coetanei italiani a misure di sostegno al reddito e di assistenza sociale, sono oggi questioni non più rinviabili, diritti negati a chi è figlio dei processi di costruzione dell’ Europa, della loro voracità e di due decenni in cui la stessa, al di là delle retoriche sulla chiusura delle frontiere, ha cercato di attrarre a sé forza lavoro “straniera” da mettere ai margini.
Si tratta della possibilità di andare ancora una volta oltre le barriere imposte nelle gerarchie della cittadinanza, forzandone l’orizzonte. E forse proprio per questo fatica a diventare realtà. Non è un caso che, certo in maniera più attenuata di Italia, Spagna e Olanda, tutti i paesi europei sottopongano il riconoscimento della cittadinanza nazionale al vaglio di rigidi requisiti in cui il principio dello ius soli, anche dove presente, viene distorto in favore di una concezione premiale della cittadinanza.
Il vizio, che purtroppo accomuna i tenaci avversari della riforma, così come molti tra i suoi sterili sostenitori, è tutt’altro che frutto di una visione arretrata ed inadeguata della società, ma sembra piuttosto incarnare a pieno la proposta di cittadinanza che l’Europa finora ha saputo consegnarci: una questione di autorizzazioni, uno status da attribuire ai meritevoli, uno strumento in mano agli Stati per imporre confini, uno spazio di contrattazione e di esclusione appunto.
Ben sintetizza questa concezione della cittadinanza come argine imposto alla sfera dei diritti, ciò che è avvenuto a Vicenza solo pochi giorni fa, con il rigetto dell’istanza di riconoscimento della cittadinanza italiana ad un attivista del movimento No Dal Molin per la sua “contiguità con movimenti aventi scopi non compatibili con la sicurezza della Repubblica”. La cittadinanza è un nodo cruciale su cui oggi la governace autoritaria della crisi gioca fino in fondo la sua sfida e di cui l’Europa ed i suoi Stati sembrano aver tremendamente paura. Per questo assistiamo al progressivo svuotamento dei suoi contenuti: a volte impedendone il riconoscimento formale, altre limitandone l’esercizio anche ai cittadini formalmente riconosciuti, altre ancora sottoponendola ai diktat della Troika ed alle scelte del managment europeo.
Ius soli subito
Se quello dei diritti di cittadinanza e tra questi quello dell’introduzione dello ius soli è un campo di tensione, un terreno di contesa, è allora più chiaro quale sia il nodo cruciale che il dibattito di questi giorni intorno al tema non riesce a rivelare fino in fondo.
Il terreno su cui confrontarci è un altro, a meno di non volerci accontentare di condannare i nuovi nati, sempre che la riforma venga mai approvata, a divenire cittadini nazionali di un’Europa che può offirire loro poco più che povertà e miseria.
Occorre muoversi intorno alla relazione tra cittadinanza e democrazia, alla sua necessità di essere aggredita affinché la rottura degli argini della prima, possa determinare una reinvenzione della seconda. Ancora riprendendo il filosofo francese Balibar: per “democratizzare la democrazia”.
Perchè la richiesta del riconoscimento della cittadinanza ai nati in Italia non troverà spazio nelle aule parlamentari finchè continuerà ad essere ridotta a moneta di scambio per la tattica politica, relegata a merce da barattare con il sostegno al governo della post-democrazia finanziaria, invece di dispiegarsi sul piano del conflitto, interrogando fino in fondo, per metterlo in discussione, il concetto stesso di cittadinanza europea e le sue istituzioni, un terreno questo sul quale siamo coinvolti tutti.
Per farlo, per trovare la capacità di essere “imposta” tra i punti concreti dell’agenda politica, questa sacrosanta e non più rinviabile riforma non può non essere accompagnata dal linguaggio della conquista di una più ampia sfera dei diritti di cittadinanza.
Questa si sarebbe una vera spinta per il cambiamento.
Nicola Grigion – Progetto Melting Pot