Cucchi, ecco l’ora esatta del pestaggio
di Checchino Antonini
«Manca la voce degli imputati ma mancano pure dei precisi atti che i tre agenti di custodia imputati avrebbero dovuto compiere quel giorno a Piazzale Clodio». Quel giorno è il 16 ottobre del 2009, il giorno in cui Stefano Cucchi fu portato in tribunale dopo una notte in guardina. Un giorno cruciale per la vicenda del trentunenne arrestato la notte precendente mentre cedeva una dose di hashish a un amico. Secondo Alessandra Pisa, avvocata di parte civile che ha tenuto la sua arringa, il pestaggio di Stefano Cucchi «avvenne in prossimità dell’udienza di convalida».
La foto segnaletica di Stefano mostra dallo schermo i segni delle botte, intorno agli occhi, sulla mandibola destra. Lo schermo è allestito nell’aula bunker di Rebibbia dove il processo di primo grado è alle battute finali. Entro la fine di maggio sarà emessa una sentenza nei confronti di 12 persone: medici e infermieri dell’ospedale Pertini più agenti della polizia penitenziaria. Stavolta sono proprio i secondini (Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici), che devono rispondere di lesioni personali aggravate, al centro della ricostruzione dei fatti compiuta dalla legale ferrarese, stesso studio di Fabio Anselmo, stessi casi seguiti. Questo, Aldrovandi, Uva, Ferrulli.
Dopo di lei, Fabio Anselmo proseguirà cercando di recuperare per il trentunenne geometra romano, ucciso in un calvario tra prigione, tribunale e ospedale, la dignità che gl’è stata negata anche in questo processo.
La Pisa ricostruisce in un grafico il sotterraneo della Cittadella giudiziaria di Roma dove ci sono le celle dei detenuti in transito. Poi incrocia gli orari in cui ciascuno è salito in aula, confronta le deposizioni, smonta i depistaggi come quelli di due detenuti albanesi che non potevano aver visto nulla e che negarono di avere sentito, depotenzia l’insidia di qualsiasi ricostruzione alternativa circolata in questi tre anni e mezzo. Cruciale il racconto di Samura Yaya che sentì le guardie arrabbiate, il tonfo di Stefano quando cadde a terra e i colpi sordi dei calci alla testa e alla schiena. Lo sentì piangere. Come per Federico Aldrovandi è un migrante, uno straniero, il teste-chiave. In quel momento non c’erano “operanti” nel seminterrato. Gli operanti sono i carabinieri che avevano accompagnato Cucchi all’udienza di convalida e l’hanno consegnato alla polizia penitenziaria. Quando fu portato in aula «aveva viso gonfio e difficoltà a sedersi, segno di una lesione al sacro». Un altro detenuto sente Stefano che chiama le guardie, chiedeva la terapia, la medicina per l’epilessia. Una ragazza nelle stesse condizioni gli consigliò di non chiamarle “guardie”, meglio “appuntati”. Stefano aveva paura che senza quelle pasticche sarebbe potuto arrivare un attacco epilettico. Alla fine di tutti gli incroci di dati, Alessandra Pisa è sicura: erano le 12.20 quando avvenne il pestaggio. «Da lì in poi matura la sintomatologia». Il dolore sarà via via più incandescente. «Gli agenti, forse, erano sfiancati dalle richieste del detenuto e hanno risposto nel modo peggiore». In aula Stefano ha i segni sul volto, sta seduto su un fianco, quasi sdraiato. Perché con una frattura alla base della colonna vertebrale è così. Ma quegli occhi cerchiati, all’avvocato d’ufficio, sembrano quelli di un tossico. «Stefano aveva tanta adrenalina in corpo che il dolore che già aveva non era la sua priorità. L’incontro padre-figlio durò pochi minuti. Stefano voleva il suo avvocato di fiducia, era arrabbiato perchè era stato picchiato, era così tanto nervoso che il dolore lo sentiva in maniera ridotta; non lo diede a vedere perchè aveva un orgoglio incredibile».
Ma le tre guardie non potevano non essere consapevoli della gravità di quel ragazzo magro che parla a fatica, cammina appoggiandosi al muro e chiede di essere visitato dal medico di Piazzale Clodio prima di essere trasportato a Regina Coeli. A questi, Stefano dice «evasivamente» di essere caduto dalle scale. «Certo che so’ scale strane!», esclama il dottore. Altri addetti ai lavori, non appena lo vedono, pensano che le ha prese. «Come mai c’ha questi rossori?», chiese quello che lo doveva tradurre in galera. Stefano non riuscì nemmeno a togliersi la maglietta, meno che mai a fare la flessione per l’ispezione corporale d’obbligo all’ingresso in carcere. Le mani erano segnate anche esse nel tentativo di parare i colpi. Ma i tre imputati e tutti gli altri colleghi, contrariamente alla prassi, non produrranno alcuna relazione, annotazione, certificazione di quelle che vanno prodotte «a futura memoria» in caso di eventi anomali come quello di un detenuto che non si regge in piedi dopo alcune ore nelle loro mani. Finché il medico di turno a Regina Coeli non decide di mandarlo al Pronto soccorso del Fatebenefratelli. E allora sarà quel camice bianco a beccarsi una “annotazione” grazie alla quale perderà il posto. L’avvocata è sicura che non si tratti di lesioni aggravate ma di omicidio preterintenzionale.
L’arringa di Fabio Anselmo sarà molto lunga e continuerà mercoledì mattina. C’è molto da dire. A cominciare dal contrasto tra la drammaticità degli eventi ricostruiti dai pm e l’inconsistenza delle lesioni per come le hanno interpretate i periti del tribunale. Ma ad Anselmo interessa cominciare l’arringa restituendo dignità a Stefano Cucchi, smontando lo stigma che lo ha visto quasi alla sbarra anziché vitttima di questo processo: «Era prima di tutto una persona e non solo un tossicodipendente», dice davanti alla terza corte d’Assise di Roma. «Non era un tossicodipendente da venti anni», ha ripetuto mostrando anche una foto in cui, vent’anni prima, Stefano era un boy scout in buona salute. «È stato detto di lui – ha aggiunto il legale – che era maleducato e non collaborativo. Frasi solo frutto di pregiudizi». Perché a partire dai carabinieri che lo arrestarono, Cucchi viene descritto come «tranquillo e spiritoso». La questura sapeva della casa di Morena (dove fu trovato un quantitativo di droga dal padre e consegnato alla procura) e i militari sapevano che era stato in palestra poche ore prima dell’arresto e che soffriva di epilessia. Nel sangue non c’era traccia di droga, né di crisi di astinenza e i suoi conti in banca erano «incompatibili» con ipotesi di spaccio. Insomma, Stefano s’era appena riaffacciato dopo alcuni anni al mondo della droga quando fu arrestato grazie a una soffiata. «Tutti sanno che è stato menato. Non c’è nessuno che non sia convinto che sia stato pestato – continua Anselmo – se fosse caduto non saremmo qui. Avremmo una relazione di servizio anziché queste incredibili perizie».
Anche per Stefano Maccioni, legale di parte civile per “Cittadinanzattiva”, «c’è stato un errore macroscopico nella perizia disposta dalla Corte, soprattutto quando indica nel capo e nel sacro le lesioni trovate sul corpo di Cucchi. Stefano aveva i jeans macchiati di sangue dall’ interno e ci sono elementi che dicono che quelle macchie siano precedenti al momento in cui fu portato in aula per la convalida del suo arresto. Quando fu portato a piazzale Clodio non aveva lesioni, non aveva macchie di sangue; questo è un dato obiettivo. Così come c’è un elemento chiaro, univoco, e sono quelle macchie sui pantaloni». Stefano si è fatto curare ogni volta che gli fu spiegato il perchè era necessario. Stefano rifiutò di alimentarsi fin dal suo ingresso al Pertini perchè voleva parlare col suo avvocato, magari per denunciare le lesioni subite. Ma non gli è stato consentito di farlo. Non si può sostenere sia stata una morta improvvisa e inaspettata. Stefano aveva segni clinici e doveva essere curato».
In aula, a concreto sostegno alla famiglia Cucchi, c’erano Claudia Budroni, sorella di Dino, ucciso da un poliziotto sul raccordo anulare di Roma, e Lucia Uva, la sorella di Giuseppe, morto nel luglio 2008 dopo un arresto da parte dei carabinieri per ubriachezza molesta e un passaggio violentissimo in una caserma della polizia. Ilaria Cucchi ricambierà l’indomani a Varese in occasione del processo d’appello.