E se smettessimo di dire grazie?
Scritto da Francesco Raparelli
E se smettessimo di dire grazie, indebitandoci senza fine con tutti, e cominciassimo a lottare?
Napolitano, il grande Padre, si sacrifica per noi tutti e per la «politica bambina», come titola, con il consueto sessismo, il Corsera. Grazie presidente, grazie papà. Che i pargoli siano condotti sulla via giusta, quella delle riforme che non possono non essere fatte. Ineluttabilità. Le cose potevano andare peggio di così? Non credo.
Mentre Bersani piange, Berlusconi ride, ma il più euforico è Squinzi: finalmente il paese ha una guida sicura e le parti sociali, CGIL compresa, possono siglare il “Patto per la fabbrica”, un rinnovato patto dei produttori che ha come unico obiettivo quello di comprimere ulteriormente salari e diritti.
Oltre oceano, invece, arriva il plauso e il ringraziamento di Obama. Cosa vuole l’America dall’Italia? Vuole un alleato solido che sappia tenere a bada la spinta centrifuga tedesca. Washington e FMI hanno chiarito che non è l’austerity ciò che serve, e anche Visco li ha presi in parola. Vorrebbero una Germania spendacciona, che riducesse il surplus della sua bilancia commerciale (che ha raggiunto il 7% del PIL)… insomma, locomotiva europea in grado di favorire anche la ripresa americana. Ma la Germania non ci pensa proprio, anzi, da tempo ormai guarda a Est e, in assenza di conflitti sociali interni significativi, può permettersi di ridurre il costo del lavoro e, nello stesso tempo, di favorire il risparmio contro ogni spiraglio espansivo. Per essere più chiari: con la Germania che non molla, almeno fino alle elezioni di settembre, ci vuole un’Italia stabile che sappia contenere la frattura europea nel segno degli impegni del G20 di Los Cabos e a sostegno della creazione dell’area transatlantica di libero scambio USA-UE.
Il PD ne esce frantumato, l’unica buona notizia di queste ore. Vendola, con la lungimiranza e il coraggio che lo contraddistinguono da sempre, meno di 10 giorni fa proprio nel PD aveva deciso di sciogliere SEL. Notevole. E di codismo in codismo, prima Grillo poi Barca, alla ricerca del laburismo perduto.
Grillo grida al golpe e invita milioni di italiani in piazza al suo fianco, per riconquistare la democrazia. Mentre piazza Montecitorio e vie limitrofe si riempiono, di tanti e diversi, arriva il tweet che mette in guardia dai violenti. Poi si dice che il camper arriverà alle 22, e non più alle 19:30. Ma a piazza del Popolo, a Montecitorio c’è troppa confusione. C’è chi dice che è meglio andare al Pantheon. Poi la smentita, Grillo a Roma non ci arriva e in conferenza stampa, 15 ore dopo l’appuntamento, chiarisce che non ha più raggiunto la piazza per «evitare di favorire le violenze». Battuta dopo battuta, nell’attacco che resta radicale alla democrazia rappresentativa, il profilo katéchontico (Paolo di Tarso, nella seconda epistola ai Tessalonicesi, definisce il Katéchon la forza che trattiene l’avvento dell’Anticristo) di Grillo assume massimo rilievo: «sto tentando di calmare gli animi (la gente vorrebbe prendere i fucili), dovreste ringraziarci tutti».
Grazie Napolitano, grazie Grillo. Per ognuno ci vuole un grazie: al primo che, mettendo all’angolo Grillo e Rodotà, ha tenuto a freno la forza distruttiva del cambiamento istituzionale; al secondo che, epurando la critica radicale dei partiti e degli inciuci dalla rivolta di piazza, tiene a freno il sociale distrutto dalla crisi economica.
E se smettessimo di dire grazie, indebitandoci senza fine con tutti, e cominciassimo a lottare? Mentre si consumava la mossa d’ordine di Napolitano, ero in una fabbrica occupata, a discutere con operai, partite Iva, precari della comunicazione, disoccupati. Tanti mondi diversi, un desiderio comune: resistere alla crisi in modo inedito, combinare saperi e pretese, organizzare l’inorganizzabile (il lavoro precario e intermittente), strappare verso il basso la ricchezza. Una scommessa: la rottura tra società e rappresentanza, sempre più profonda sul terreno delle istituzioni politiche (la vicenda Rodotà insegna), potrebbe far saltare in aria, se adeguatamente attraversata da nuovi dispositivi organizzativi, il patto dei produttori, meglio, il patto dei padroni e delle banche contro i poveri. Nella carne dello sfruttamento, solo lì c’è speranza per il cambiamento. Per chi lo cerca nel palazzo, ci sono solo lacrime.
Pubblicato su Huffingtonpost.it, 21-04-2013.