I veri obiettivi della riforma Monti-Fornero & Bce
di Luca Casarini
Tutta la retorica della flexsicurity per salvare i giovani, dei sacrifici da far fare ai più garantiti per rompere il dualismo del mercato del lavoro, del togliere un pò di “privilegi” per estendere le tutele in maniera universale, tutto questo armamentario si è rivelato solo fuffa. Parole, propaganda, balle. Per come è andata questa pseudo trattativa, condotta dal governo con l’ausilio del monarca Giorgio Napolitano, che ha già lanciato l’anatema nei confronti di coloro che oseranno “rompere” il vincolo della Grande Coalizione, sembrano due i veri obiettivi dell’esecutivo. Il primo è palese, e riguarda quella sfera simbolica attraverso la quale si costruiscono le reputation degli stati solventi e credibili per coloro che acquistano il loro debito: la “bastonatura” dei sindacati “riottosi”, di quelli che vorrebbero negoziare, anche solo in minima parte, prezzo e condizioni di vita della forza lavoro che rappresentano. Il refrain sul quale si muove infatti, la governance europea, è quello di un nuovo “interesse generale” che va oltre e contro la composizione di un patto sociale come accordo tra parti dagli interessi contrapposti. Il nuovo patto sociale deve essere il frutto di una visione metafisica, quasi mistica, della società e del suo funzionamento. La politica dei sacrifici ha una lunga storia, e un’ideologia trasversale che la sostiene. “Bisogna fare così, perchè è l’unica strada, perchè così è stato deciso”. A nulla valgono le considerazioni diverse, quelle che ad esempio mettono in discussione la bontà delle ricette di austerity per affrontare la crisi. Come ogni religione che si rispetti, anche la dottrina del liberismo della crisi, non può sottoporsi a troppi esami. Una dottrina è una dottrina, e come tale ha diritto a non offrire prove di veridicità. Può sempre rifugiarsi insomma, nel territorio insondabile del “miracolo che verrà”, una soglia questa che non è oltrepassabile dal raziocinio ma può solo essere annunciata dai Grandi Sacerdoti, i tecnici. Quindi, come ha più volte ricordato l’altro Mario, quello a capo del board della Bce, “il vecchio modello di welfare europeo” deve cedere il passo a qualcos’altro, qualcosa che nasce attorno al rigore fiscale, al pareggio di bilancio come precetto costituzionale, all’idea che il pagamento del debito, e non il lavoro, sia la nuova chiave di accesso alla cittadinanza. Per costruire questa fede, perchè non esiste nessuna motivazione empiricamente dimostrabile che tutto ciò sia giusto, o ineluttabile, il debito pubblico oggi comincia ad essere conteggiato come debito procapite, tanto da inculcare dentro la testa dei “fedeli” che effettivamente ognuno di noi abbia speso, senza rendersene conto, quei 32 mila euro che oggi ci vengono caricati sulle spalle come “national debt footprint”. Il Governo dunque lavora alla costruzione della reputation, e gli insegnamenti della Tatcher e di Reagan sembrano essere i suoi riferimenti. In questo senso un accordo troppo armonico, condiviso, unanime con le parti, non avrebbe sortito lo stesso effetto d’immagine. Quindi fin dall’inizio, il Governo, come faceva il precedente Ministro Sacconi, lavorava ad uno strappo, meglio se con la Cisl e la Uil da una parte e la Cgil ( che ha la Fiom al suo interno) dall’altra.
L’altro obiettivo non può essere dichiarato pubblicamente. Si tratta, utilizzando la flessibilità in entrata e in uscita, di abbassare i salari. Devono diminuire, come nel resto d’Europa sta avvenendo, di parecchi punti percentuali. Avendo scelto una strada che non permette di utilizzare alcuna leva svalutativa sulla moneta, bisogna creare una svalutazione interna, cioè far pagare di meno la gente che lavora nonostante l’imposizione di un aumento dei ritmi e dell’orario. La “competizione” i tecnici la fanno così, con la vita degli altri: i dividendi della rendita aumentano grazie al calo dello spread, alla reputation, al rigore di bilancio. Così l’1% può continuare ad arricchirsi. Al 99% che lavora invece, il compito di creare le condizioni perchè il sistema regga, cioè di finanziarlo, e quindi di finanziare la rendita, attraverso il lavoro sottopagato e una drastica contrazione delle altre parti che compongono il salario, dalle pensioni al welfare. Ma questo obiettivo, al quale si deve l’accanimento sull’articolo 18, non può essere dichiarato pubblicamente. I “licenziamenti facili”, all’interno di un quadro generale di fine del contratto nazionale e di estensione del modello Marchionne, servono a tradursi in nuova negoziazione, al ribasso e con ricatto, azienda per azienda, della busta paga. Quanti saranno infatti i padroni che licenzieranno per “motivi discriminatori”: nemmeno uno. Con il nuovo articolo 18 questo è l’unico caso che obbligherebbe al reintegro. Invece se vengono dichiarate dall’azienda difficoltà economiche, il costo del licenziamento è minimo, 24 mensilità, e presto sarà interamente coperto dall’Aspi ( assicurazione per l’impiego) che è il frutto di una contribuzione che per il 50% grava sul salario del dipendente. A quel punto, rinegoziare lo stipendio, per il datore di lavoro, sarà più semplice: o ti lascio a casa con un pò di soldi, che non ti permettono di certo di aprirti un’attività ma solo di continuare a pagare per un pò le rate del mutuo della tua prima casa ( così le banche non soffrono troppo), oppure accetti una riduzione di salario. Stessa cosa dicasi per la “flessibilità” in entrata. L’uso dei contratti di apprendistato, già prevede una retribuzione diminuita per tre anni.
C’erano alter strade? Certo. Ma la religione liberista non le prevede. Anzi le considera eresia. Se invece di perseguire il rigore di bilancio, di intestardirsi sul risanamento dei bilanci pubblici, si fosse affrontata la recessione con politiche di investimento sulla ricerca, sul welfare, sulla conversione ecosostenibile dei modelli produttivi, non saremmo in questa situazione. Se invece di massacrare la Grecia, si fosse stabilito, a livello politico, che la Bce si poteva trasformare in prestatrice di ultima istanza, immettendo denaro non nel sistema delle banche private, ma finalizzato a progetti utili ad innalzare la qualità della vita sociale, le cose potevano andare diversamente. Certo, avrebbe significato costruire un’altra Europa. Un’Europa con una costituzione comune, nella quale riscrivere una pagina nuova della storia della democrazia. Invece, anche grazie a Monti e a chi si è ostinato a sostenerlo, l’Europa che abbiamo è quella fotografata dalla riforma del mercato del lavoro di queste ore: a senso unico, dove il 99% finanzia il sistema che garantisce solo l’1%.