Il business della marijuana
Calinfornia, USA. Piccoli coltivatori contro le colture intensive e speculative
Dopo che la Corte Costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità della Fini – Giovanardi sulle droghe, dopo che il Governo ha deciso di non impugnare la legge promulgata nello scorso gennaio dalla Regione Abruzzo nella quale è prevista l’erogazione su ricetta medica, che apre anche alla prescrizione dei medici di famiglia, dei farmaci galenici a base di cannabinoidi, si affaccia anche in Italia unpercorso strisciate di legalizzazione della marijuana: è utile discuterne ed attrezzarsi avendo ben chiaro quello che si muove attorno a noi, vicino e lontano. Questo è un articolo tratto dal Manifesto di domenica 9 marzo che ci sembra interessante riproporre.
Coltivatori legali di marijuana contro le multinazionali, forze dell’ordine contro i cartelli della droga e sindacati di categoria contro il sistema statale delle licenze. Negli Stati Uniti è lotta senza quartiere ed esclusione di colpi per accaparrarsi e gestire il nuovo e redditizio mercato regolamentato della cannabis. Sui fronti opposti della barricata, quelli che coltivano marijuana all’aperto in modo naturale e chi invece pratica colture intensive in luogo chiuso, tra chi fa agricoltura biologica e chi invece adopera serre idroponiche. Queste ultime sono totalmente artificiali: senza suolo, poiché il substrato è un materiale inerte, mentre il nutrimento arriva direttamente alle radici tramite una soluzione preventivamente preparata. Le piante crescono più velocemente, anche grazie alla luce artificiale garantita da enormi gruppi elettrogeni a gasolio, e di conseguenza la raccolta avviene prima.
«Non vogliamo avere nulla a che fare con chi insegue solo il profitto e non coltiva le piante nel modo giusto, che siano uomini armati nelle foreste o grandi società farmaceutiche, non vogliamo avere nulla a che fare né con la mafia, né con chi coltiva per la Goldman Sachs con cento lampade al neon», denuncia Marvin Levin del Mendocino Farmers Collective, il collettivo degli agricoltori della contea di Mendocino, che coltiva marijuana bio di prima qualità: «Crediamo che la marijuana debba essere coltivata in modo biologico e alla luce del sole e non con le lampade al neon, i cui gruppi elettrogeni inquinano e fanno rumore», continua Levin.
Già prima della legalizzazione a scopo terapeutico, la coltivazione di cannabis era uno dei business più redditizi della California. L’ottava economia del mondo ha infatti superato la sua grave crisi finanziaria e il maggiore tasso di disoccupazione degli ultimi settant’anni, proprio grazie alla marijuana, la più grande coltura da reddito dello Stato. Nel nord-ovest della California, attorno alla città di Potter Valley, c’è l’Emerald triangle. Stretta tra l’Oceano Pacifico e la natura selvaggia delle montagne che confinano con l’Oregon, il Triangolo di smeraldo è formato da tre contee (oltre a Mendocino, ci sono Humboldt e Trinity). Questa regione, che dista circa 200 chilometri da San Francisco, è la capitale della marijuana dell’intero emisfero occidentale. A suo favore, giocano tre fattori: clima, cultura e soprattutto topografia. Verdi colline si alternano a pendii inaccessibili, radure boscose a villaggi isolati, collegati da un labirinto di strade di montagna e lontani da occhi indiscreti.
Nel Triangolo di smeraldo la coltivazione della cannabis è stata avviata dagli hippie negli anni Settanta ma nel 1996, in seguito al successo del referendum sulla cosiddetta Proposition 215, confermandosi uno degli Stati più tolleranti d’America la California legalizza la coltivazione e la vendita di marijuana per uso terapeutico: per averla basta una semplice dichiarazione del proprio medico curante. «Siamo molti preoccupati dall’interessamento delle grandi industrie del tabacco che vogliono acquistare terreni da queste parti, perché credo che il loro arrivo influirà sulla qualità del prodotto», confida Levin. In California, come del resto in altri Stati che hanno regolamentato e consentito la coltivazione di marijuana, stanno infatti sbarcando i dirigenti di Philip Morris, Rj Reynolds e British American Tabacco. Ma anche dei colossi farmaceutici, come Pfizer, Johnson & Johnson e Roche. Sono loro in un certo senso i concorrenti della grande criminalità organizzata. Quella delle grandi fattorie, nascoste nella foresta o sulla cima delle montagne, con le proprie piantagioni occultate in container interrati o lungo i sentieri che attraversano i 12,5 milioni di ettari di verde pubblico (grazie ai tagli che la crisi economica ha imposto ai Parchi), sorvegliate da guardie armate. I piccoli contadini si sentono così stretti in una micidiale morsa ai cui estremi ci sono i cartelli e le organizzazioni della malavita (a partire delle gang affiliate ai cartelli messicani Sinaloa e Arellano-Felix) che vogliono sfruttare il mercato illegale finché c’è, e le multinazionali farmaceutiche e dell’industria del tabacco, a cui la legalizzazione fa gola.
Per provare a mettere un freno alla loro conquista del mercato, proprio nella contea di Mendocino, lo sceriffo Tom Allman, ha imposto nel 2010 un tetto al numero di piante che si possono coltivare: 25 per ogni singolo coltivatore che diventano 99 nel caso di colletivi o società. Cui si aggiunge un permesso che costa 1.050 dollari, altri 500 per supportare i controlli mensili alle piantagioni da parte delle autorità e 25 per ottenere la certificazione che attesti il rispetto delle norme di sicurezza pubbliche e ambientali. Ma non tutti sono d’accordo con questa misura che interviene sulla legge statale, ponendo dei limiti in quella contea rispetto a quanto avviene in quella confinante. L’Humboldt, ad esempio, ribattezzato la Silicon Valley dell’erba, conta circa 4.000 coltivatori commerciali di marijuana che generano vendite per oltre 400 milioni di dollari l’anno, superando di gran lunga quella che fino al decennio scorso era l’industria più fiorente, quella del legname, ferma a 66 milioni. Avverrà lo stesso anche negli Stati del Colorado e di Washington, i primi due degli Usa a legalizzare anche l’uso di marijuana per scopi ricreativi, che hanno superato la California nell’offrire la possibilità di trasformare la cannabis in un’industria di massa. Tanto che in questo nuovo e fiorente business sono già entrate imprese completamente estranee all’ambiente che si sono quotate in Borsa con ottimi risultati. Del resto se tuttora per la legge federale la cannabis resta illegale, il braccio di ferro tra i governi Usa (Clinton prima e Bush figlio poi), con l’arrivo di Obama è ormai un lontano ricordo. Un cambio di rotta che ha portato negli ultimi altri 21 Stati, più il District of Columbia, a seguire la stessa strada della California, tanto che l’erba è attualmente legale in poco meno della metà del territorio statunitense.
Un ritorno alle origini, potremmo dire, visto che fino agli anni Venti in molti Stati americani la marijuana era legale. Poi, sotto la pressione di associazioni, gruppi conservatori e benpensanti arrivò il proibizionismo, che fino al 1933 riguardò persino l’alcol, spalancando così le porte al contrabbando e al gangsterismo. In un’intervista al New Yorker, Obama ha dichiarato che la cannabis «non è più pericolosa dell’alcol».
da: ilmanifesto