La strage di Dacca
Oggi in Italia ci saranno FlashMob a Firenze, Milano e Treviso.
Sono venuti a trovarci pochi giorni fa a Treviso per poter indicare direttamente la responsabilità anche della multinazionale a colori Benetton degli oltre 1000 morti causati dal crollo del Rana Plaza a Dacca in Bangladesh. In realtà morti per sfruttamento.
Il Rana Plaza era un enorme opificio tessile in cui lavoravano quasi 10000 persone direttamente o indirettamente su commissione delle grandi firme della moda di massa, con appalti e subappalti, con salari ridicoli, con l’evidente fruttamento minorile, con zero sicurezza.
Le multinazionali hanno chiuso gli occhi davanti al profitto e tentano di farlo anche davanti alle loro responsabiltà per i morti, per questo la delegazione di lavoratori e associazioni è qui in Italia ed Europa, per esigere il rispetto dei vivi e dei morti. Riportiamo l’articolo di Emanuele Giordana dal manifesto del 24.04.14.
C’è una piccola fotografia che gira in tutte le redazioni dei giornali asiatici. È del 2012 e raffigura un parlamentare dell’Awami League, il rampante Towhid Jung Murad, che bacia in testa Sohel Rana, il proprietario del Rana Plaza di Dacca, un palazzone malandato di otto piani più uno in costruzione che, la mattina del 24 aprile del 2013, implode su se stesso come se venisse colpito dall’urto di un terremoto. Un «urto» che uccide più di mille persone.
Il proprietario Sohel Rana, destinato nel giro di pochi giorni a cadere, come il suo palazzo, dalle stelle alla polvere, diventa il volto del cattivo accusato di strage ma, anche grazie a quella foto, emerge il dettaglio di un antico sodalizio tra politici e speculatori, parlamentari e affaristi, «thug» (banditi) che la fanno franca grazie a chi dà una mano a far timbrare le carte. Anche quelle di palazzinari senza permessi, con materiali scadenti e una solerte rapidità edilizia che gode del grande boom che ha investito il Paese, tanto da aver fatto del settore tessile la prima voce dell’export bangladese.
Oggi Sohel Rana però amici non ne ha più. Lui che era un giovane rampante attivista del braccio giovanile del partito al potere e che, grazie alle sue amicizie anche politiche, era diventato un ras di Savar, zona periferica della capitale, adesso fa i conti con inquirenti che sono andati a spulciare nei permessi, nelle licenze, nei pezzi di carta. Jung Murad, che un anno prima lo baciava in testa, è invece corso tra i primi sul luogo della tragedia: camicia verde ben stirata e piglio da consumato arringatore, lo si vede immortalato mentre, come un po’ tutti han fatto, chiede giustizia per le vittime. Meglio tacere del fatto che Savar è il suo regno e che Rana era tra i suoi amichetti. Quella foto imbarazzante è del resto una delle tante che ha ricostruito i dettagli di quella tragedia, costata la vita a 1.138 persone e che ha lasciato centinaia di malati e invalidi. Oltre a centinaia di famiglie senza impiego perché, dice oggi chi lavorava al Rana Plaza, se hai quel marchio addosso non lavori più. Sohel pagherà per tutti?
Un’altra foto fa luce su altri dettagli. C’è un angolo buio che non riguarda solo il sottobosco mafioso di Savar e le sue implicazioni con la classe alta che ha i rampolli in parlamento e una manovalanza ben nutrita a presidiare il territorio.
Sul luogo del delitto c’è un lato scuro, illuminato dallo scatto del reporter, che chiama in causa responsabilità che stanno a 10mila chilometri da Savar. In America, Canada, Europa. Persino a Treviso, sede della multinazionale dall’italico cuore di nome Benetton.
La foto illumina dei dannatissimi pezzi di carta: ordini, fatture, annotazioni su stoffe, asole, bottoni. Ci son nomi altisonanti con cui collaborano le fabbriche ospitate al Rana Plaza. Illumina la globalizzazione che in Bangladesh mostra uno dei suoi lati meno eccitanti e glamour. Può succedere: che ne sappiamo di come si regola il nostro omologo a migliaia di chilometri di distanza? Ma il problema viene dopo. Ammesso, obtorto collo, di essere coinvolti nel lavoro non tanto solare che si svolgeva a ritmo continuo al Plaza, ora bisogna pagare. Qualcuno lo fa. Qualcuno no. Qualcuno firma l’accordo sulla sicurezza nelle fabbriche, qualcuno invece fa orecchie da mercante su un altro accordo che vincola le aziende a rifondere le vittime. C’è chi sceglie la strada individuale: un po’ di quattrini a qualche charity che si occupi di ripulire l’immagine…
Per essere chiari e venire ai fatti, nonostante sia stato siglato un accordo tra marchi, governo, sindacati e Ong sotto l’egida delle Nazioni unite per predisporre un programma di risarcimento delle famiglie, il Donor Trust Fund volontario, istituito per raccogliere le donazioni, è a secco. Un anno dopo il crollo i marchi e i distributori hanno contribuito con soli 15 milioni di dollari, appena un terzo dei 40 milioni necessari. Sul libro nero ci sono tre società italiane: Benetton, Manifattura Corona e Yes Zee.
Oggi in Italia ci saranno FlashMob a Firenze, Milano e Treviso. Altre azioni sparse per il mondo. A Dacca lavoratori e sindacalisti ricorderanno tutti coloro che hanno perso la vita quel dannato 24 aprile.