da www.globalproject.info
Gli ultimi dati statistici resi noti – e lo sappiamo bene come la statistica possa falsare la realtà nel bene e nel male – ci raccontano di una disoccupazione della fascia giovanile al 41% mentre quella generale si aggiudica un 13%, siamo al massimo storico dal 1977, annus horribilis per le dirrompenti implicazioni politiche e sociali di cui molti, troppi specialmente in casa PD, sono ancora prigionieri.
Non è stato un fulmine a ciel sereno bensì la logica conseguenza di una crisi economica che persiste da almeno 7 anni, in cui le scelte della Troika, di una Germania egocentrica ed egoista, hanno reso devastanti per tutta l’Europa mediterranea, in particolare per il modello economico produttivo italiano, fondato sulle piccole e piccolissime imprese.
Il recente Rapporto Censis ha ricordato che il 2013 si chiude con la sensazione di una dilagante incertezza sul futuro del lavoro in Italia. Circa un quarto degli occupati è convinto che nei primi mesi del 2014 la propria condizione lavorativa peggiorerà, il 14,3 per cento prevede una riduzione del proprio reddito e un altro 14% teme di perdere del tutto la propria occupazione. In generale si stimano in quasi 6 milioni gli occupati che nell’ultimo anno si sono trovati a fare i conti con situazioni di precarietà lavorativa. E i giovani sono ancora una volta i più esposti, in termini di precarietà e di perdita del posto di lavoro.
Il contesto europeo non è comunque molto più incoraggiante. Secondo il Draft Joint Employement Report della Commissione Europea, la disoccupazione ha raggiunto livelli senza precedenti nell’Eu-28, con un tasso che è cresciuto dal 2008 al 2013 dal 7,1 per cento al 11 per cento circa. La disoccupazione di lungo termine è anch’essa cresciuta raggiungendo nel 2013 il 47,1 per cento del totale della disoccupazione. Anche le proiezioni dell’Ilo sul 2014 registrano un aumento della disoccupazione di lungo termine in molti paesi, compresi gli Stati uniti.
Mentre l’ISTAT scrive che nel 2012, il 29,9% delle persone residenti in Italia è a rischio di povertà o esclusione sociale, secondo la definizione adottata nell’ambito della strategia Europa 2020. L’indicatore deriva dalla combinazione del rischio di povertà (calcolato sui redditi 2011), della severa deprivazione materiale e della bassa intensità di lavoro. L’indicatore adottato da Europa 2020 viene definito dalla quota di popolazione che sperimenta almeno una delle suddette condizioni.
Rispetto al 2011, l’indicatore cresce di 1,7 punti percentuali, per l’aumento della quota di persone in famiglie severamente deprivate (dall’11,2% al 14,5%); la quota di persone che vivono in famiglie a rischio di povertà è sostanzialmente stazionaria (19,4%) dopo l’incremento osservato tra il 2010 e il 2011; si mantiene stabile, dal 2010, anche quella relativa alla bassa intensità lavorativa (10,3%).
Il rischio di povertà o esclusione sociale è di 5,1 punti percentuali più elevato rispetto a quello medio europeo (pari al 24,8%) come conseguenza della più elevata diffusione della severa deprivazione (14,5% contro una media del 9,9%) e del rischio di povertà (19,4% contro 16,9%).
Quasi la metà (il 48%) dei residenti nel Mezzogiorno è a rischio di povertà ed esclusione ed è in tale ripartizione che l’aumento della severa deprivazione risulta più marcato: +5,5 punti (dal 19,7% al 25,2%), contro +2 punti del Nord (dal 6,3% all’8,3%) e +2,6 punti del Centro (dal 7,4% al 10,1%).
Da questo quadro occupazionale retrospettivo e prospettico non possiamo aspettarci che un impoverimento di massa, socialmente trasversale, da dove il così detto ceto medio uscirà drasticamente assottigliato in termini di peso sociale, economico e politico, mentre della ormai mitica classe operaia non resterà un che un pallido ricordo: il lavoro novecentesco, la piena occupazione sono finiti. Non vengono meno i presupposti della lotta di classe, anzi, tutto si polarizza, ma cadono le vecchie categorie interpretative novecentesche, ancora tanto care a chi non è capace di cambiare occhiali e vedere il caos multitudinario che s’avanza.
Non si tratta di riscoprire un neopauperismo, cristiano o anarchico che sia, ma, laicamente e realisticamente, fare i conti con le trasformazioni produttive intervenute nella società e nella divisione internazionale del lavoro e attrezzarsi politicamente alle dinamiche dei movimenti che da metà ottobre si stanno muovendo, ognuno con le proprie caratteristiche, nella forma di una spuria coalizione antiliberista per la riappropriazione del reddito, per riformulare un welfare dal basso.
Se questa è la cornice della fase che stiamo attraversando lo Jobs Act di Renzi, niente di nuovo per carità, si adatta bene con un mix di un po’ di welfare e neoliberismo a manetta, dal suo/loro punto di vista, all’ esigenza di un più efficace controllo sociale, ad una maggiore sinergia con le possibili dinamiche produttive, ad una coerente prospettiva con la ricollocazione dell’Italia nella globalizzazione dell’economia.
Il modello proposto è un adeguamento, all’italiana, di quello tedesco, con una specie di cogestione codificata – ora lo è nei fatti, soggetta però all’altalena di rapporti interconfederali e ai riflessi del conflitto sociale – nelle grandi e medie aziende private e pubbliche, dove c’è il sindacato confederale ed una prateria, libera da steccati in entrata ed uscita, per il resto dei luoghi del lavoro, dove vengono prospettate un paio di forme contrattuali ed una unica indennità quale ammortizzatore sociale, ponendo fine della cassa integrazione e delle decine di declinazioni di sussidi alla disoccupazione.
Una proposta che ha messo un po’ di pepe al culo alle grandi confederazioni del lavoro e dell’industria, sufficiente, però, per siglare un nuovo accordo sulla rappresentanza sindacale nei posti di lavoro col fine di rimarcare chiaramente l’autonomia negoziale delle parti sociali aldilà della politica istituzionale.
Una proposta che è lontana da quella dei movimenti anzi con un segno politico opposto, di cui accoglie furbescamente solo vaghe suggestioni. Una operazione, però, che spariglia, pro domo sua, le carte nella contrattazione politica e istituzionale, che mette la rendita di posizione dei sindacati confederali con le spalle al muro agitando anche una legge sulla rappresentanza, che accalappia consensi nell’universo dei lavori precari.