L’incertezza della transizione e le certezze del padrone (o della Salita e discesa del lavoratore)
Il Jobs Act è ormai legge, ma i suoi effetti sono tutt’altro che chiari. In questo momento di transizione che è già un futuro, molte aziende approfittano della confusione generale per decidere quale tipologia contrattuale applicare ai propri dipendenti, lasciando nel frattempo i lavoratori in sospeso, per non parlare di chi oltre al salario vede sospesa in questo modo la possibilità di rinnovare il permesso di soggiorno. Se infatti molta è la confusione sotto il cielo, la situazione è, come si suol dire, eccellente, soprattutto per chi come i datori di lavoro sull’incertezza fa profitti. Loro sanno già benissimo che avranno variegate opportunità di giocare al ribasso con il salario dei lavoratori. Sanno che l’incertezza paga quanto i bonus fiscali che garantiscono una forza lavoro continua ma flessibile e precaria per il maggior tempo possibile. Le domande esistenziali dei datori di lavoro, i grandi quesiti del capitale, sono: «Quanto poco posso pagarti? Quante garanzie posso negarti?». Queste domande per ora sembrano non avere una risposta ben definita. Si dice imbarazzo della scelta, si scrive precarietà.
Proviamo a immaginare il disagio della loro confusione: da un lato possono sperimentare il contratto indeterminato a tutele crescenti, dall’altro possono invece provare ad assumere lavoratori con il contratto a tempo determinato acausale – le cui proroghe sono diventate otto anziché cinque (se seguono la successione di Fibonacci, tra poco passiamo a 13) – e magari solo dopo decidere di assumere gli stessi lavoratori con il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, il che significa cinque anni di precarietà. Possono persino sperimentare una terza via, quella dei voucher, il cui tetto massimo si è alzato a 7000 euro annui, o addirittura una quarta, cioè quella del lavoro a chiamata che il Jobs Act ha mantenuto e che servirebbe alle aziende per far fronte ai picchi di produzione. Sia mai che l’entusiasmo giochi brutti scherzi. La pazienza premierà dunque generosamente tutti i padroni che stanno congelando i rinnovi contrattuali e le nuove assunzioni, ma non si prevede lo stesso per i precari che sono in attesa.
In quale universo parallelo il Jobs Act dovrebbe creare nuovi posti di lavoro se anche lo Youth Guarantee – il piano europeo per la lotta alla disoccupazione giovanile per cui l’Europa ha stanziato 1,5 miliardi – è stato un fallimento totale? Il ministro Poletti, imputa il fallimento della garanzia giovani a una cattiva traduzione dell’inglese… e non ha tutti i torti. Forse Youth Guarantee, come un elisir di giovinezza, voleva garantire a tutti, anche al comparire delle prime rughe, l’esperienza impagabile della gioventù: il lavoro precario e senza orari, lo sfruttamento sfrenato, la vita spericolata, di quelle che non dormi più, senza coperture assicurative, senza malattia… Insomma quel vivere alla giornata e il galvanizzante pensiero di non sapere mai come andrà finire.
Il termine «guarantee», che è stato tradotto con “garanzia”, secondo il ministro è equivoco e improprio e se lo si fosse sostituito con “impatto” le cose sarebbero andate diversamente.Soprattutto, non si sarebbero create aspettative troppo elevate e nessuno avrebbe pensato che il progetto potesse davvero garantire dei posti di lavoro. Un impatto però c’è stato (e sono in molti a sfregarsi la testa dopo la botta)! Il nulla garantito regna sovrano!
Infatti, nonostante la partecipazione al progetto abbia visto coinvolti su tutto il territorio nazionale 412.015 Neet (giovani che non studiano e non lavorano tra i 15 e 29 anni), i quali hanno sostenuto dei veri e propri colloqui di lavoro – di fatto una perdita di tempo –, la Garanzia Giovani non ha prodotto alcun posto di lavoro. Solo una percentuale bassissima, il 3%, è stata richiamata per essere inquadrata nelle aziende come tirocinante o stagista. Ad oggi però bonifici sui conti correnti di questi malcapitati non se ne vedono. Le aziende, come da prassi, hanno usufruito di forza lavoro senza sborsare un euro. L’INPS – in teoria – dovrebbe provvedere ai pagamenti attingendo dai fondi stanziati per il progetto, per ora però non ha avuto l’occasione di garantire versamenti a nessuno, dato che nessuno è stato inserito nel mercato del lavoro.
Nessuna garanzia e nessun impatto: un nulla di fatto, costato per di più molto caro, se si pensa allo spreco di fondi e personale attivati a vuoto, e non c’è traduzione equivoca e impropria che possa giustificare questo fallimento.
Nel frattempo però, i più impazienti hanno deciso di sperimentare nuove forme di contratto come il lavoro a chiamata in differita: lavori ora, ti pago (parolone) dopo. Se da un lato l’elisir di giovinezza dello Youth Guarantee è stato un fallimento totale, Escher in mostra a Bologna è un successo ancor prima di cominciare. Per garantire il successo dell’evento non sono sufficienti le incisioni del nostro amato visionario: occorre forza lavoro flessibile e disponibile per tutta la durata della mostra. Menomale che ci sono le fantasiose risorse offerte dal Jobs Act che trasforma in realtà i più immaginifici sogni padronali: i salari dei lavoratori e delle lavoratrici, che per sei ore al giorno presidieranno le opere, non solo saranno di 3,58 euro netti all’ora, ma questi fortunati neoassunti vedranno i loro conto correnti gonfiarsi di briciole di salario e soprattutto d’aria e di buoni propositi soltanto 3 o 4 mesi dopo l’inizio del loro lavoro. Il futuro del Jobs Act è già qui, e l’unica Garanzia sembra quella del profitto per i padroni.
Chi di noi guardando i quadri di Escher non ha provato quel senso di perdita dell’orientamento e nel tentativo di venirne a capo, girando e rigirando il foglio, con forti emicranie, non ha poi finalmente capito che non c’era via d’uscita? Si sa che oggi vanno di moda le mostre interattive, ma qui siamo di fronte all’avanguardia ed è il caso di essere all’altezza. Il nostro Escher infatti non ci insegna a stare nei confini, ma a guardarci attraverso e a pensare altri futuri.