Oltre 900 BASI AMERICANE nel mondo
(Gianni Sartori)
Ancora nel 2002 Zoltan Grossman (membro del Gruppo di informazione dell’Asia del Sud-Ovest) aveva analizzato la relazione tra “guerre umanitarie” americane e l’installazione di nuove basi in aree strategiche. All’epoca, in soli dieci anni, gli Usa avevano già collezionato un gran numero di interventi: Iraq, Somalia, Yugoslavia, Afghanistan…per citare soltanto i maggiori. L’elenco si allungherebbe se venissero conteggiate azioni come quella nelle Filippine meridionali, a Mindanao, contro il gruppo islamico Abu Suyyaf.
Ufficialmente queste spedizioni dovevano servire a rovesciare dittature, impedire pulizie etniche o fermare il terrorismo islamico. Ma, secondo Grossman, gli Stati Uniti stavano soprattutto “affrontando il loro declino economico nei confronti dell’Europa e dell’economia asiatico.orientale ( “blocco dell’euro e blocco dello yen”).
Tali interventi andrebbero interpretati “soprattutto come una reazione alla nuova realtà geopolitica”.
“A partire dal 1990 –sottolinea l’autore- sulla scia di ogni intervento su larga scala, è rimasta una sfilata di basi militari in regioni nelle quali gli Usa non avevano mai avuto un appiglio”. I militari statunitensi si sarebbero “inseriti in queste zone consolidandovi l’influenza Usa, proiettando il dominio in regioni strategiche per contrastare futuri concorrenti economici, per creare un cuneo, un “blocco del dollaro”. Mentre gli interventi militari erano ancora in via di progettazione “i pianificatori si concentravano sulla costruzione di nuove installazioni militari o nell’assicurarsi il diritto di utilizzare come basi quelle già esistenti sul territorio”. A guerre concluse le truppe non si sono ritirate, dando origine a rancori nei loro confronti da parte delle popolazioni locali.
Quindi se è vero che “le nuove basi militari sono state costruite per appoggiare gli interventi” è altrettanto realistico pensare che “gli interventi hanno offerto l’occasione per ottenere tali basi”.
In questo modo gli Usa hanno acquisito un “solido aggancio nella terra centrale fra l’Europa a ovest, la Russia a nord e la Cina a est”, dalla Bosnia al Pakistan.
Attualmente gli Usa importano dal Golfo poco più del 5% del loro petrolio; il resto va principalmente in Europa e Giappone.
Sarebbe evidente che lo scopo principale era garantirsi “il controllo da parte di società americane delle forniture di petrolio, sia per l’Europa che per l’Asia Orientale” come aveva denunciato anche il presidente francese Chirac.
La guerra del Golfo del 1991 ha lasciato basi di grandi dimensioni in Arabia Saudita e nel Kuwait, oltre al diritto di mantenere basi in altri stati: Bahrain, Qatar, Oman, Emirati Arabi Uniti.
Senza dimenticare quelle già esistenti in Turchia.
DALLA SOMALIA AI BALCANI
Anche l’intervento del 1992-93 in Somalia aveva probabilmente il medesimo scopo. Ma in Somalia gli Usa, già alleati del dittatore Siad Barre, commisero l’errore di schierarsi con alcuni signori della guerra contro il potente Aidid, perdendo in un solo combattimento una ventina di soldati. Dopo il loro ritiro hanno acquisito una base nel porto di Aden, dall’altra parte del Mar Rosso, nello Yemen.
Qui nel 2000 hanno subito un pesante attacco da parte di Al Qaeda.
Gli interventi nei Balcani (Bosnia 1995 e Kosovo 1999) permisero agli Usa di insediare altre basi in Albania, Bosnia, Macedonia, Ungheria, oltre all’enorme complesso di Camp Bondsteel nel Kosovo.
L’intervento in Afghanistan si spiega con la “posizione storicamente strategica di questo paese che cavalca l’Asia meridionale, l’Asia centrale e il Medio Oriente”. Inoltre l’Afghanista si trova sul percorso proposto per l’oleodotto dell’UNOCAL, tra i campi petroliferi del Caspio e l’Oceano indiano.
Ancora prima dell’11 settembre, gli Usa stavano già inviando truppe nell’ex repubblica sovietica dell’Uzbekistan. La guerra ha poi reso possibile la costruzione e il diritto di utilizzo di basi in Afghanistan, Pakistan, Uzbekistan, Kyrgyzstan e Tajikistan. La perenne instabilità fornisce agli Stati Uniti la giustificazione per una permanente presenza militare nella regione, arrivando a ipotizzare l’uso del dollaro come nuova moneta afgana.
Prossimi obiettivi potrebbero essere, oltre all’Iran, lo Yemen e la Somalia per la posizione strategica dei loro porti.
Anche le “esercitazioni congiunte” di militari statunitensi e truppe filippine contro il gruppo Abu Sayyaf (ma probabilmente anche contro la guerriglia della minoranza Moro) avevano lo scopo di ristabilire il diritto a utilizzare le basi, dopo che il Senato filippino aveva negato il mantenimento della base aerea Clark e della base navale di Subic, come richiesto dai gruppi nazionalisti.
Nuove basi nelle Filippine garantirebbero agli Usa il controllo in Asia orientale e probabilmente non susciterebbero troppe critiche da parte di Pechino (come invece è accaduto per il Kyrgyzstan).
Tra le future aree del mondo che potrebbero diventare oggetto di interventi americani c’è anche l’America Latina, in particolare la Colombia (con il pretesto della guerriglia delle Farc) e il Venezuela.
CONTRO LE BASI
Nel gennaio del 2004 a Munbai si era costituita una Rete internazionale contro la presenza militare Usa, da Portorico all’Iraq, passando per Camp Darby e Aviano.
L’ecologista Marinella Correggia ricordava che “ questa Rete è nata per contrastare un’egemonia militare che continua a crescere come un cancro nel globo, pericolosa per l’incolumità del pianeta e dei suoi abitanti”.
E talvolta la resistenza è possibile. A Vieques, isola di Portorico, nel 2003 (dopo 63 anni di esperimenti militari) gli abitanti sono riusciti ad allontanare l’US Navy. Naturalmente i terreni rimangono contaminati (uranio, agente orange…) e richiedono una radicale bonifica.
In Brasile era stato il primo governo Lula a non rinnovare la concessione della base di Alcantara, praticamente regalata agli Usa dal governo Cardoso nel 2000.
Lottano invece ormai da più di trenta anni circa 2000 chagossiani che vorrebbero ritornare nella loro isola, Diego Garcia nell’arcipelago Chago (stato delle Mauritius), da cui vennero scacciati con minacce e intimidazioni. L’isola è ora deturpata dalle caserme, gli alberi sono stati tagliati, il mare è inquinato…e da qui sono partiti i B52 per bombardare Afghanistan e Iraq. Nel 2000 una corte inglese aveva riconosciuto il loro diritto al ritorno, ma in un processo successivo la sentenza è stata annullata. In Corea le proteste per i numerosi delitti commessi dai militari statunitensi hanno costretto il governo a inserire un memorandum sulla protezione ambientale nel Sofa (Status of overseas forces agreement), Anche negli Usa la mobilitazione popolare ha portato alla chiusura di alcune basi nella baia di San Francisco.
Risale invece a qualche anno fa la lotta delle donne pacifiste inglesi contro la base di Greenham, accusata di aver fatto nascere una estesa “economia della prostituzione”.
Sul legame tra presenza militare americana e sviluppo della prostituzione, soprattutto in Asia, Richard Poulin aveva pubblicato “Prostituzione/globalizzazione incarnata” (ed. Jaca Book). Tutto avrebbe avuto inizio con le guerre di Corea e del Vietnam, quando il governo americano negoziò la realizzazione di veri e propri “campi del sesso” per le truppe sia in Corea che in Thailandia. In questo paese il numero delle prostitute passò rapidamente da 20.000 a 400.000. In seguito, a guerre finite, il governo tailandese ricevette almeno due milioni di dollari di finanziamento dalla Chase Manhattan Bank per organizzare il turismo sessuale per reduci e militari. Attualmente in Thailandia ci sarebbero due milioni di prostitute, il 33% minorenni.
In base ai dati che ci hanno fornito Gerry Condon ed Helen Jaccard, esponenti di Veterans for Peace e di Bradley Mannig Support Network, attualmente le basi statunitensi nel mondo sarebbero oltre 900. Almeno con la Crimea stavolta gli è andata male.
Gianni Sartori