“Loro tagliano nastri, noi tagliamo reti”: nella sera dell’inaugurazione del Dal Molin il popolo delle pentole diventa popolo delle cesoie.
Un lungo serpentone ha attraversato il centro cittadino: 3.000 persone, ancora una volta, sono tornate in piazza dopo 7 anni di mobilitazione. Il taglio del nastro al Dal Molin non ha portato alla tanta agognata “pacificazione“, desiderio degli statunitensi e dei loro complici.
La città non si è vestita a lutto, non si è chiusa nel ricordo sterile dell’imposizione annunciando la propria sopraffazione, ma ha dichiarato il proprio futuro: Vicenza libera dalle servitù militari.
Dalle pentole – simbolo della contestazione al progetto – alle cesoie, simbolo della voglia dei cittadini berici di liberare la propria terra da reti e reticolati. Con i giovani in testa – come è accaduto lo scorso 4 maggio – a raccontare che una nuova generazione ha preso in mano il futuro della propria città.
Incredibile, Vicenza. Sette anni dopo, migliaia di donne e uomini scendono ancora in piazza per la terra che vivono. Lo fanno con la consapevolezza e l’allegria di chi non si rassegna all’imposizione ed è capace di trarre i bilanci di questi anni di mobilitazione.
Per gli statunitensi, innanzitutto. Che, nel 2006, avevano scelto Vicenza per farne la sede operativa del proprio “pugno di ferro”, la punta di diamante dell’esercito a stelle e strisce capace, con la propria Brigata aerotrasportata, di intervenire in poche ore in qualunque scenario di guerra. E che ora rischia di incolonnarsi alla rotatoria di Via Ferrarin, a poche centinaia di metri dai cancelli della base.
Perché, del progetto statunitense, oggi manca l’aspetto strategicamente decisivo: uno spazio di volo. Che gli architetti a stelle e strisce avevano, ovviamente, progettato all’interno dell’area del Dal Molin. Ma che non è stato realizzato, e non lo sarà mai.
Laddove avrebbero voluto decollare gli skysoldiers, infatti, oggi c’è il Parco della Pace. Un territorio smilitarizzato grazie alla cocciutaggine dei vicentini. Che sono entrati, più volte, in quell’area; ci hanno piantato 150 alberelli; ci hanno dormito, dopo aver tagliato le reti per occuparlo. E che, per questo, andranno a processo, in 44, il prossimo settembre.
Iniziative che hanno strappato alle grinfie dei militari 600 mila metri quadri di terreno, restituendoli alla comunità locale e segnando un’inversione di tendenza storica nei processi di militarizzazione del territorio vicentino.
Ma è tutta la città che è cambiata; la destra-zerbino degli Usa, che qui regnava, oggi è insignificante. E, nel cuore di Vicenza, crescono iniziative e mobilitazioni che vedono scendere in piazza le donne, gli studenti, le cooperative sociali, il gay pride.
Era la cattedrale d’Italia. La città più sicura per gli statunitensi, che qui potevano fare ciò che volevano. Spostare reti, spianare campi, allargare basi. Nel decennale silenzio di generazioni di amministratori locali. Oggi, non è più così. Oggi gli statunitensi rinunciano alle cerimonie in grande stile. Si nascondono nelle proprie basi. Ridimensionano progetti e ambizioni, lasciando in Germania parte dell’armata che volevano portare a Vicenza.
Oggi, gli statunitensi vedono le proprie reti andar giù. E’ il popolo delle cesoie che ha preso il testimone dal popolo delle pignatte. Che scende in strada, ancora una volta, a dimostrare che nessuna pacificazione è possibile finché ogni metro quadro della città non tornerà nelle mani dei vicentini. Per portare avanti un sogno, un’utopia, una speranza: Vicenza libera dalle servitù militari.