Movimenti e “governo tecnico” Tavola rotonda tra Francesca Comencini, Luca Casarini, Alberto Perino pubblicata da Micromega del 23 dicembre 2011
10 / 1 / 2012
Una delle promotrici di ‘Se non ora, quando?’, un leader no global e uno degli animatori dei No Tav in Val Susa: un confronto di ‘movimento’ sulle prospettive e sui possibili scenari del governo Monti. Senza trascurare il nodo della rappresentanza e la preoccupazione per il berlusconismo imperante nella società. FRANCESCA COMENCINI / LUCA CASARINI ALBERTO PERINO MicroMega: Si è aperta una nuova fase politica: Berlusconi – stretto dalla crisi finanziaria e da una maggioranza ormai logora – ha passato il testimone a Mario Monti, a un governo tecnico che deve realizzare quelle riforme necessarie e richieste dall’Europa e dalla Bce. Credete che il regime del Cavaliere sia totalmente terminato o temete qualche «colpo di coda»? E nella caduta del regime, pensate sia stato determinante l’autunno caldo dello scorso anno che ha visto protagonisti la Fiom, gli studenti, le donne del Se non ora, quando?, il movimento referendario per l’acqua pubblica e i molteplici comitati per la difesa dei beni comuni? Francesca Comencini: Credo che il periodo del berlusconismo non sia finito perché in questi lunghi 17 anni c’è stata una pervasività enorme da tutti i punti di vista: antropologica, culturale, della rappresentazione delle donne. Temi che l’Italia ha assorbito nel profondo e che adesso non possiamo liquidare o rimuovere come se niente fosse; bisogna invece comprenderli e rielaborarli. Tra l’altro lo stesso Berlusconi mi sembra ancora molto attivo e capace di ritornare in scena da un momento all’altro. Sulla sua caduta, comunque, hanno sicuramente pesato i movimenti. Sono stati determinanti per instaurare nel paese un nuovo clima, per un risveglio sociale e civile. Ne è un esempio il movimento delle donne di cui faccio parte, Se non ora, quando?, che l’11 dicembre ha manifestato nuovamente, in piazza del Popolo a Roma con il motto «Mai più contro di noi, mai più senza di noi». Luca Casarini: Dobbiamo distinguere Berlusconi dal berlusconismo: Berlusconi è un uomo, per quanto sgradevole, il berlusconismo invece è un processo politico e culturale che ha determinato un blocco sociale in questo paese. Pensiamo alla conformazione della sua stessa maggioranza, all’alleanza con la Lega. Non si può minimizzare riducendola solo a una semplice convergenza di interessi tra una gang sostanzialmente di affaristi criminali e un potentato di raìs locali razzisti e xenofobi; è stata anche l’interpretazione da destra di una fase storica come quella della globalizzazione liberista. In un’epoca in cui è stato destrutturato il mercato del lavoro, sono nate nuove figure sociali, si è smantellato il welfare novecentesco, le politiche populiste e insieme neoliberiste di quella maggioranza hanno illuso milioni di persone orfane di rappresentanza. A differenza di una sinistra rimasta nel Novecento e che non si è posta il problema del mutamento della società. Questo processo non si può eliminare – all’improvviso – con una «rivoluzione dall’alto», ovvero con il governo Monti. Per cui sono assolutamente convinto che il berlusconismo nel paese sia tutt’altro che superato: l’impostazione italiana neoliberista o le contraddizioni tra «centro» e «periferia» – che la Lega interpreta da destra – permangono. Dobbiamo continuare ad approfondire ciò che abbiamo fatto contro Berlusconi, perché davanti avremo nuove sfide che vanno in questo senso. Alberto Perino: Quello di Berlusconi è un falso problema. La questione è un’altra: ormai sono i banchieri che stabiliscono le sorti dei governi e delle nazioni. Loro hanno deciso – e non quindi i movimenti – la sostituzione del Cavaliere con il tecnico Monti, ma la sostanza è invariata. Berlusconi era diventato inaffidabile per la Chiesa, per la Confindustria, per l’Europa e anche, in generale, per i cosiddetti «poteri forti». Si è deciso così di puntare su Monti ma in parlamento siedono le stesse persone – non essendoci stato formalmente un golpe o una torsione autoritaria. Gli stessi parlamentari di prima siedono oggi alla Camera e al Senato e sono loro che dovranno approvare le leggi che il governo proporrà. Con una sinistra incapace di essere un’alternativa programmatica alla destra: infatti le posizioni sui temi di fondo sono sostanzialmente simili. Entrambe non vogliono modificare lo status quo, né accettano la perdita delle posizioni di privilegio . Anche nel passaggio dal fascismo alla repubblica, i personaggi chiave del regime – che occupavano ministeri o posti di rilievo – mantennero gli stessi incarichi, tant’è che la Costituzione non è mai stata realmente applicata in toto. Oggi siamo in un momento storico simile: è necessaria una rivoluzione culturale, i movimenti – più che scendere in piazza – hanno il dovere di far cambiare la mentalità al paese. Devono intraprendere una battaglia capillare per un profondo cambiamento culturale che sposti l’attenzione dal «capitale» alla «persona umana», che privilegi il «bene comune» rispetto al «bene privato». MicroMega: Che i mercati abbiano sfiduciato Berlusconi sembra lampante ma altrettanto palese pare la differenza tra il governo eversivo di Berlusconi e quello «tecnocrate» di Monti. Non ritenete necessario «baciare il rospo» per ristabilire nel paese le regole democratiche e i princìpi costituzionali scardinati negli ultimi tempi dal Cavaliere? Comencini: Innanzitutto vorrei ribadire un concetto: non penso affatto che i movimenti – come Se non ora, quando?,che parlando di dignità non solo delle donne ma dell’intera nazione, ha portato in piazza un milione di persone – abbiano fatto cadere Berlusconi e dato origine al governo Monti. Ma hanno determinato un cambiamento di clima politico nel paese tant’è che dall’elezione di Pisapia a Milano in poi sul tema delle donne – scusate se insisto sull’argomento – vi è stato un profondo mutamento: la rappresentanza e la rappresentazione del «femminile» si evolve grazie ai movimenti. Ora è diventato impensabile formare delle giunte senza la competenza delle eccellenze femminili. Questo è stato il fattore decisivo dei movimenti dello scorso anno. Per il resto sono d’accordo con Perino, bisogna favorire un discorso culturale nel paese perché la situazione è devastante e questa carenza produce un ordine sociale ed economico che diventa poi impossibile scardinare senza l’intervento dal basso della società civile. Quanto a Monti, non si può certo dire che sia uguale a Berlusconi, con lui si ritorna alla «normalità» dopo anni di illegalità. Credo sia giusto vedere in questo governo un nuovo inizio sul quale certamente si può fare – e probabilmente si deve fare – opposizione. Casarini: Partiamo da un punto fermo: il capitale finanziario e globale è in crisi. Stiamo attraversando una fase nuova, epocale, gravissima per la finanza e per tutti noi. Più pericolosa della crisi del ‘29. Ricordo che in quell’epoca negli Usa la risposta la diede Roosevelt con il New Deal, ma in Europa ci pensarono Hitler e Mussolini. Per questo la situazione è drammatica, perché le soluzioni, quando la gente è terrorizzata o disperata, le cerca anche dalle parti peggiori. Il dibattito non verte sulla reintrodizione dell’Ici o l’aumento dell’Iva ma sulla democrazia. Qui si parla di fallimento della moneta unica, del «modello Europa»; si sta sgretolando quel sistema ingiusto e sbagliato che è il neoliberismo e la sostituzione di Berlusconi con Monti non è che un capitolo di questo libro di cui nessuno conosce la fine. Non credo che Monti sia l’uomo della Goldman Sachs – altrimenti avrei dovuto dire la stessa cosa di Prodi visto che gli studi sono quelli – e non mi appassionano le teorie secondo le quali «il banchiere» sembra quella figura ottocentesca con la tuba e le ghette. Il potere finanziario è una rete, non un vertice, fatta di trust, interessi di cartello che sfruttano monopoli di fatto, e lì si mescola pubblico e privato in una serie continua di conflitti. È una questione complessa, ma un dato è certo: questa rete di poteri e di interessi non ammette sovrano sopra di sé. Dietro la scelta di Monti c’è una tendenza, nata dentro quella rete, che tenta di affermarsi alla luce del fallimento dell’orientamento che ha prevalso fin’ora: quello dell’idea, o dell’ideologia, che potesse esistere una moneta senza Stato, o che il mercato sia esso stesso capace di autoregolarsi. Cambia il ruolo che l’Italia svolge in questa fase di crisi: dalla «dittatura della finanza pura» si tenterà di passare a una governance dell’Europa. Che Berlusconi accentrasse nell’ultimo periodo su di sé una grande contestazione sociale era un elemento che la governance europea non poteva permettersi. Essa ha bisogno – per fare delle scelte impopolari in cui la crisi e il debito pubblico vengano pagati dalle fasce sociali più deboli – di un consenso illimitato. Poi esiste un altro fattore da analizzare: il dissenso diffuso che si è manifestato, anche in piazza coi movimenti, contro Berlusconi stava generando un percorso in cui la semplice indignazione si stava tramutando in progetto d’alternativa. Bisognava intervenire dall’alto per evitare un’operazione simile, hanno avuto paura. Come diceva Marx, i governi tecnici non esistono, sono scelte politiche che sono fatte in funzione di risposte a una crisi. Tra l’altro a questa crisi non c’è ancora una risposta, per cui abbiamo ancora uno spazio enorme davanti a noi per provare a costruire un’Europa diversa, a partire dalla lotta contro la devastazione dei diritti, delle garanzie, dell’ambiente e contro – per riallacciarmi a quanto detto dalla Comencini – quell’idea neoliberista in cui l’oggetto dello sfruttamento sia il corpo o la vita nel suo complesso. Il nostro problema è ricostruire un popolo, ovvero ricostruire una dinamica di una visione del mondo. Non baciare o meno il rospo. Il rospo c’è. Punto. Perino: Sono sostanzialmente d’accordo con Casarini perché alla base della sua analisi c’è un interrogativo fondamentale: un altro mondo lo vogliamo veramente? E sicuramente il governo Monti non ha le stesse nostre prospettive. Mi preoccupa invece questa campagna martellante sulla sua bontà e la gente che sembra dare piena fiducia a questo esecutivo persino prima di qualunque suo atto. Noi valsusini riteniamo invece che «non esistono governi amici». È impensabile appoggiare un esecutivo che sostiene le grandi opere inutili e dannose a scapito di interventi necessari come la messa in sicurezza dei territori da un punto di vista idrogeologico o degli edifici pubblici, degli ospedali e delle scuole. Si sta facendo di tutto per sottrarre spazi reali di democrazia partecipata: solo a giugno, ad esempio, il popolo ha vinto un importante referendum per l’acqua come bene comune e contro il ritorno dell’atomo e il nuovo ministro dell’Ambiente, Clini, come prima uscita pubblica, rilascia un’intervista a Panorama in cui dice che bisogna reintrodurre nel paese il nucleare. Questo sarebbe il governo della legalità e del ripristino dei princìpi costituzionali? MicroMega: Altra questione. Gli infiniti movimenti non riescono mai ad avere momenti permanenti di unità politica (solo momenti di mobilitazione comune, e anche aleatori e pieni di scontri interni). Era così anche con i girotondi e i no global. Perché? E come superare questo limite? Casarini: Insisto: siamo nel mezzo di una crisi sistemica del capitalismo, dagli esiti imprevedibili per i capitalisti stessi e per chiunque. Totale incertezza sul futuro. Nel presente invece si palesa una separazione tra le forme della democrazia storicamente determinate in Occidente e il capitalismo. È nello spazio aperto da questa contraddizione enorme e caratterizzato da «rivoluzioni dall’alto», che i movimenti dovrebbero provare a sperimentare forme innovative, e un nuovo modo di pensare la rivoluzione (nel senso del cambiamento radicale della società). Credo che grandi insegnamenti ci possano venire dai percorsi reali come la lotta in Val di Susa, che non è una lotta di ceto politico. Lì la soggettività di movimento dà input, si mette al servizio della comunità, ma il fattore interessante e vincente dei No Tav è la dimensione sociale che coinvolge decine di migliaia di abitanti. È gente «normale» che si batte per difendere il proprio territorio e il modello da cui ripartire è questo. Dobbiamo tornare ad essere «dentro la società» non ai margini o una cosa addirittura estranea. Lo dico in termini anche di autocritica: spesso ci è sufficiente vedere una piazza piena per sostenere che ci sia un progetto politico di cambiamento con delle chance, ma non è così. La situazione è più complessa. Le società stanno divenendo più complesse. Bisogna costituire nuove istituzioni, nuove procedure democratiche, rinnovare pratiche, linguaggi, obiettivi. L’indignazione di piazza può rappresentare un passaggio, ma non l’obiettivo finale. Per esempio gliindignados in Spagna alle ultime elezioni, hanno fatto campagna chi per l’astensione, chi per l’appoggio a candidati «anomali» come gli indipendentisti baschi, chi per Izquierda Unida, e chi ancora per far vincere nei vari collegi candidati di destra contro quelli del Psoe. L’astensionismo è cresciuto del 3,3 per cento, qualcuno lo definisce un incremento «fisiologico», ma alla fine ha votato il 70 per cento della popolazione e ha vinto il centro-destra di Rajoy, uno che non ha neanche mai rinnegato il franchismo. In Italia la situazione non è molto diversa: l’antiberlusconismo di questi anni è servito soltanto per portare Monti a palazzo Chigi? Per ribaltare gli scenari dobbiamo entrare nel terreno della sovranità dei popoli in Europa, le nostre vertenze contro le grandi opere e per i beni comuni, per un nuovo welfare e la riconversione ecologica della produzione, per il reddito di cittadinanza, devono diventare di respiro sovranazionale. Comencini: La tesi – sostenuta ora da Casarini – di scissione tra democrazia e capitalismo mi trova in parte d’accordo. Non credo, però – e per fortuna – che sia una scissione completa, sennò non saremmo qui a parlarne, sarebbe una tragedia. Penso, per parafrasare Didi-Huberman quando parla di immagini, che permanga democrazia malgrado tutto. Sui movimenti si può sostenere che per certi versi è una loro caratteristica strutturale quella di avere vita relativamente breve. È una cosa abbastanza inevitabile, perché i movimenti sono molto restii alle forme di organizzazione, il che rappresenta anche la loro bellezza. L’eros, inteso come istinto di vita, è l’effimero collante dei movimenti, ed è quasi naturale che a un certo punto svanisca, o si sposti, si trasformi. Questo non vuol dire che finiscano però del tutto. Come fiumi carsici attraversano le società anche quando sembrano sopiti, se sono stati movimenti reali e con qualcosa di forte dentro. Per esempio, come dicevo prima, io credo che il movimento detto infelicemente No global non sia finito. Credo che abbia cambiato forma, si sia spezzato in mille rivoli diversi, continuando a rendere possibili altri movimenti con la sua analisi della globalizzazione e delle nostre vite dentro di essa che aveva intuizioni potenti e mai smentite. Adesso un tassello importante da cui ripartire è la difesa dei beni comuni. Questo significa prima di tutto spezzare la solitudine. Sembra una questione privata ma io credo sia anche una questione altamente politica. Difendere i beni comuni vuole innanzitutto dire fare esperienza e pratica di un’azione politica insieme ad altri, riprendersi questa dimensione fondamentale della vita che si era persa a favore di una grande solitudine individuale e sociale, nelle quale dimenticarsi di sé e dei propri diritti è come scivolare silenziosamente in uno stagno senza accorgersene. Le lotte per i beni comuni che sono state le più sentite dalle cittadine e dai cittadini mi pare siano quelle che hanno a che fare con un’idea primordiale della vita: il proprio territorio, l’acqua, l’energia. C’è dentro questi temi un senso ultimo e irrinunciabile di sé, qualcosa che ha a che vedere con le radici, il corpo, il futuro, le figlie e i figli, il mondo, il limite. Nelle lotte per i beni comuni, così come nel movimento delle donne di cui faccio parte, mai come in questo momento l’aspetto simbolico è profondamente legato all’aspetto economico e politico. Credo che questa opposizione tra la vita e le regole del capitale globalizzato fosse in parte già presente in quel che fu chiamato il movimento No global, che ebbe intuizioni molto forti. In sintesi, credo che il senso delle lotte per i beni comuni sia quello di rimanere vivi. Perino: Si riescono a mobilitare le persone su obiettivi precisi, su vertenze concrete che coinvolgono quotidianamente la propria vita. Passare dal percorso di lotta a un discorso politico più complessivo è molto più difficile perché abbiamo visto come tra le varie anime del movimento ci siano attriti e divisioni per inutili leaderismi o egemonie. Diventa ahimè una battaglia di ceto politico dove la gente non partecipa sentendosi lontana da queste dinamiche. La vera democrazia – quella partecipata e non quella delegata – parte dal basso, ha rispetto della popolazione locale, cerca di occuparsi del benessere delle persone. In Val di Susa dopo anni di lotta siamo riusciti a mettere in piedi quest’esperimento di contaminazione trasversale, tra soggetti diversi. Tutti però uniti contro la Tav e per nuove forme di partecipazione e democrazia. Quindi ritengo sbagliatissimo ora demonizzare Berlusconi e pendere dalle labbra di Monti, i movimenti in questa fase devono ricercare, capire il malessere generale che sta montando a causa della crisi economica. Ad esempio trovo interessantissima l’esperienza di Occupy Wall Street, nata nell’ultimo dei posti a cui avrei pensato. Eppure da quelle proteste c’è molto da imparare. MicroMega: Non è arrivato il momento per i movimenti di fare – in vista delle prossime elezioni – liste della società civile capaci di portare un vento nuovo nelle istituzioni? E più in generale che tipo di rapporto ci dovrebbe essere tra movimenti e partiti della sinistra? Comencini: Personalmente non credo che si debbano fare delle liste civiche, ma rinforzarsi su tutto il territorio, darsi un minimo di struttura organizzativa, contare sulla scena pubblica e condizionare fortemente i partiti e le istituzioni dall’esterno. Perino: Alle ultime amministrative il movimento No Tav ha fatto una scommessa, un tentativo politico, andando oltre al classico rapporto coi partiti e decidendo di autorappresentarsi all’interno di alcune liste civiche con un chiaro impegno contro la nuova linea ferroviaria Torino-Lione. Un esperimento che è riuscito perché sono stati eletti molti nostri rappresentanti e in Valle siamo risultati decisivi per la vittoria del centro-sinistra anche nella Comunità montana. E ora nelle giunte c’è un peso influente dei No Tav. A livello nazionale invece mi sembra impossibile riprodurre il modello delle liste civiche, perché le persone possono scegliere liberamente se conoscono davvero e personalmente il candidato, se si fidano ciecamente delle sue battaglie. Se poi si ridurrà il numero dei parlamentari, con il conseguente allargamento dei collegi elettorali la gente sarà costretta a sostenere politici sconosciuti, a regolarsi non sulla conoscenza reale del candidato ma sulla sua immagine. Le agenzie pubblicitarie sanno costruire l’immagine di un candidato – come fosse il prodotto di un qualunque supermercato – per fare sì che poi gli elettori lo votino. L’eletto, con questo meccanismo, sarà sempre frutto di una manipolazione complessiva della gente. Casarini: Interessante il ragionamento di Perino proprio perché l’intreccio contemporaneo tra comunicazione, produzione dell’opinione e media è, da un lato, parte costituente della nostra vita, dall’altro la nostra condanna. Basta soffermarsi sul ruolo dei social network o, più in generale, della Rete. Nei paesi arabi, come Egitto o Tunisia, hanno rappresentato una scelta di libertà, un fattore di sollevazione popolare contro i regimi. I blogger utilizzavano internet per informare ma anche per organizzare le lotte. Nello stesso tempo i social network rappresentano una mutazione antropologica: un meccanismo di alienazione in cui un giovane preferisce avere più amici su Facebook che reali in carne e ossa. Sul rapporto tra movimenti e rappresentanza sono convinto che noi dobbiamo occuparci della politica perché i movimenti fanno politica, sono politica. Nel sostanziale crepuscolo della democrazia liberale e del sistema della rappresentanza che abbiamo conosciuto dal dopoguerra in poi, sempre di più la politica non è quella di Palazzo ma si palesa con ciò che si muove nella società. Tuttavia i sistemi di potere e di decisione che sono basati sulla espropriazione della sovranità dei cittadini – e tra questi metto in ultima istanza anche il sistema dei partiti – agiscono come macchine di cattura del consenso, e occupano lo spazio lasciato vuoto da una democrazia in crisi. Disegnano i contorni della democrazia, ma dentro non c’è nulla. È un simulacro. Ma proprio per queste caratteristiche, la democrazia stessa e i suoi istituti fondamentali, sono terreno di contraddizione. Quindi non possiamo – come movimenti, intendo – che occuparcene. Dobbiamo essere il motore costituente di una de-costruzione, dobbiamo distruggere il simulacro e riempire di nuovo significato la democrazia. Sul filo del rasoio: né isolarci nel minoritarismo purista e ideologico, né riconoscerci in quel cadavere ormai freddo che è la rappresentanza parlamentare. Il parlamento – che è composto da onorevoli di cui io non ho alcuna stima né rispetto – è comunque il luogo di ratificazione delle leggi che propongono i governi, per cui è evidente che dobbiamo occuparcene. Ma tutto in funzione di indebolire il sistema che conosciamo, metterlo in difficoltà, far crescere le «anomalie» anche dentro le istituzioni e contemporaneamente provare a costruire nuove forme di democrazia diretta. Il successo dei referendum dello scorso giugno, e ciò che è accaduto alle amministrative di Napoli in particolare sono uno splendido esempio. Per il neoliberismo la democrazia è un intralcio, come lo è tra l’altro il libero mercato. È tutto una mistificazione: in realtà il neoliberismo ha generato monopoli, trust, norme contro la concorrenza, sovvenzioni pubbliche per i privati. Ha costruito un sistema burocratico e farraginoso che allontana sempre più i cittadini dai luoghi delle decisioni, che diventano inappellabili, obbligate da uno stato di eccezione, l’emergenza economica permanente. Queste mostruosità rimarranno anche con il governo Monti che ovviamente non è interessato a colpire le fondamenta del neoliberismo. Ecco perché la sfida dei movimenti è entrare in questa fase per proporsi come alternativa credibile. A partire – ribadisco – dalle lotte sociali. Ma l’alternativa al sistema capitalistico e neoliberista è un processo, non una lista della spesa. È un percorso, non avviene dalla sera alla mattina. È questa visione che ci indica l’alternativa come il prodotto di tante piccole e grandi cose. Credo che il non essere ancora riusciti a determinare questo cammino, a farlo in maniera umile e non autosufficente, consapevoli che quattro slogan non bastano ad affrontare un sistema biopolitico di dominio, sia la prima ragione dell’affermazione, nonostante la crisi di sistema, di quelli che vengono chiamati «poteri forti». Io direi «poteri più forti»: di noi. Credo che le esperienze amministrative della Val di Susa, del No Dal Molin di Vicenza, di Venezia, di Napoli, di Roma, e molte altre che hanno visto presentarsi alle elezioni liste civiche, legate alle lotte per i beni comuni nel territorio, siano molto interessanti. Sul rapporto invece tra movimenti e rappresentanza, io credo che il problema sia mal posto. I movimenti sono da sempre il segnale di quanto il sistema della rappresentanza sia insufficente, se non di ostacolo, al cambiamento. I movimenti sono semplicemente irrapresentabili. Ma ad essi oggi viene chiesto, dalla situazione che abbiamo, di esprimere una qualità più alta della semplice critica all’esistente: penso al movimento degli studenti in Cile e alla sua capacità, nel conflitto durissimo con il governo, di tirarsi dietro tutto il paese, di innescare una discussione sulla Costituzione, sul modello sociale nel suo complesso. Viviamo un’epoca nella quale rischiamo di essere protagonisti di tante rivolte, ma poi di vedere le rivoluzioni fatte solo dall’alto per riprodurre lo stesso potere contro cui ci ribelliamo. Il governo Monti cambierà tutto quello che abbiamo conosciuto prima come posizionamento dei partiti: probabilmente nasceranno nuove alleanze, forse anche nuove forze politiche che spaccheranno a metà quelle vecchie. Di sicuro io credo che i movimenti, da soli, non potranno produrre quel cambiamento radicale sui nodi che caratterizzano l’alternativa. Lo immagino, il cambiamento, come una concatenazione di fattori e di sinergie, anche non cercate, che tramutano spinte dal basso e dall’alto in qualcosa di nuovo, di non previsto, di anomalo per il sistema. Ma non è scontato e in mancanza di lotte sociali in grado di parlare e di coivolgere milioni di persone non succederà. C’è un pensiero unico dominante al potere che bisogna scalfire e vista l’inadeguatezza dei partiti c’è un immenso spazio da colmare. Questo è il compito dei movimenti: contribuire a scrivere una nuova storia, in Italia come in Europa. Per essere all’altezza della sfida, dovremmo anche dotarci di una certa «serenità» che possiedono solo coloro che sono consapevoli di quanto grande sia la posta in gioco, e di quanto infinitamente più importante sia in confronto alle nostre piccole miserie acquisire uno spirito unitario tra di noi senza lasciarsi andare a stupide accuse o divisioni. In fondo significa questo: essere umili e rispettosi di un bene comune, il cambiamento, che ci appartiene ma di cui non possiamo disporre a nostro piacimento. È di tutti. Le uniche discriminanti dovrebbero essere rappresentate dalle posizioni politiche: chi sostiene, per esempio, il reddito di cittadinanza, la lotta dei valsusini o le battaglie per la difesa dei beni comuni è un mio compagno di strada. Altrimenti non si va nella stessa direzione. Questo dovrebbe stabilirsi – di volta in volta – sempre su dati concreti, non sul piano «identitario». Per questo credo che tra di noi dovremo saper costruire un modo nuovo di stare insieme cercando di convergere sugli obiettivi praticabili che condividiamo. (a cura di Giacomo Russo Spena)