Documento dei centri sociali del Nord-Est su guerra, terrorismo e nuovi assetti di dominio.
Tratto da globalproject.info

Alcuni mesi fa, dopo l’attentato a Charlie Hebdo, titolavamo un nostro documento “Siamo in guerra”. Al di là degli intenti provocatori di quell’intestazione, c’era il senso profondo di rabbia e terrore di una guerra globale che estende il proprio campo di battaglia all’Europa, colpendone il cuore, Parigi, per secoli simbolo colto e romantico di un Occidente potente e sbruffone. Ancora una volta la capitale francese è teatro di questa guerra, un teatro ancora più cruento ed a tratti inverosimile, se si considerano i luoghi dove sono avvenuti gli attentati del 13 novembre. Un teatro, un ristorante, uno stadio (anzi “lo stadio” per tutti i francesi!) sono qualcosa in più di “obiettivi sensibili”. Sono gli spazi della vita in comune che il terrore ha voluto devastare, sono i luoghi della socialità quotidiana che la guerra doveva spezzare per essere percepita come tale, ossia come condizione permanente nella quale le forme di vita sono dominate dall’uso della violenza armata e militare.
Parigi è dunque il teatro, quello eclatante, che scuote la paura ed i sentimenti di milioni di europei. Ma non è che uno degli scenari di una guerra che è globale nel suo essere multiforme e deterritorializzata. Una guerra che ha molteplici attori, che assolvono ruoli, funzioni ed interessi spesso interconnessi ed in continua evoluzione. Una guerra che ha una pluralità di campi d’azione, che è difficile comprendere solamente attraverso una lettura geopolitica delle vicende, proprio perché queste interrogano la costituzione stessa di un nuovo assetto di potere nella contemporaneità, in cui dinamiche climatiche, economiche, politiche e militari sono in costante dialettica. La questione climatica in particolare, sebbene da molti sia ancora sottaciuta, è assolutamente centrale per comprendere lo stato permanente in cui si rivela la guerra contemporanea. Non solo perché è causa del deterioramento organico delle condizioni oggettive di vita per miliardi di esseri viventi, ma perché attiene alla rottura del limite di un modello di sviluppo e di conseguenza della dialettica tra capitale, lavoro e natura in esso contenuta. Il capitale non procede con un sviluppo che aumenta gli spazi di libertà e di organizzazione per la forza-lavoro. Questo significa che un rapporto dialettico, la capacità di mediazione della disciplina e del biopotere capitalista si è drasticamente ridotta: laddove non sussiste una sintesi possibile, le posizioni possono polarizzarsi e portare alla guerra. Ovviamente non è un paradigma generalizzato e non è condizione trasversale alla moltitudine sfruttata, poiché per ora si concentra rispetto a dei gruppi subalterni specifici sui quali c’è tutta una considerazione storica, culturale, di potere, non trascurabile. Eppure, se ne possono osservare i sintomi nella guerra a bassa intensità che polarizza la società in gruppi nemici tra di loro, frattura la comunità in senso identitario per mascherare la contraddizione tra profitto e rendita selvaggi del capitale ed impoverimento (non solo inteso come “indigenza”) diffuso dei dominati. Questa guerra, che può sfociare nella sua versione “guerreggiata” anche all’interno delle frontiere europee, porta con sé un messaggio di impossibilità di poter arrivare ad una trasformazione, anche solo parziale e certamente non anti-sistemica, dell’esistente.
La dimensione deterritorializzata all’interno della quale la guerra si colloca nell’attuale contesto storico è il prodotto del definitivo superamento della dimensione statuale post-assolutista, sia nella forma dello Stato di diritto sia in quella dello Stato-nazione. Questo non comporta la dissoluzione spaziale del potere come organizzazione del dominio di classe, ma una sua riterritorializzazione sulla base dei processi di ristrutturazione che hanno investito il capitale dentro la crisi e che fanno emergere la guerra come elemento endemico nel lungo periodo della stagnazione. Il dispositivo dello stato di emergenza è il segno di questo binomio deterritorializzazione-riterritorializzazione: in primo luogo le dinamiche belliche finora applicate fuori dai confini europei si presentano all’interno del nostro continente, portate avanti non da stranieri o “invasori” estranei, bensì dai soggetti cittadini dell’Europa. Ma la caratteristica transnazionale della guerra, che va oltre il classico scontro tra potenze nazionali, paradossalmente diventa un modo per riterritorializzare i dispositivi del politico. Durante l’emergenza si rende visibile il sovrano, cioè chi decide. Con la proposta di modifica della Costituzione francese, proprio in materia dei poteri prefettizi nello stato di guerra e delle libertà civili e politiche, non è difficile riscontrare una nuova affermazione della statualità in un senso più restrittivo. E’ la risposta che dà la governance europea a tutto questo, nonché uno dei pochi margini di autonomia lasciati alle sovranità nazionali (ossia l’uso della forza pubblico-militare e la gestione dei confini).
La ridefinizione delle nuove strutture di dominio si manifesta attraverso una complessità di punti di applicazione. Il caso turco è un altro esempio in cui la dialettica tra deterritorializzazione della guerra e riterritorializzazione del comando eccedono il classico rapporto tra fronte interno e fronte esterno che storicamente si determina nei contesti bellici. Il governo Erdogan infatti se da un lato si pone come perno di una coalizione internazionale anti-Isis, dall’altro utilizza da tempo i dispositivi della “ragion di Stato” come elemento di disciplinamento violento del conflitto sociale e politico. I confini tra fronte interno ed esterno diventano assai sfumati nella guerra combattuta dalla Turchia, che se da un lato ha come obiettivo la conferma di interessi strategici che attengono al proprio rango di potenza nell’area, dall’altra ha come bersaglio continuo le organizzazioni politiche e militari dei curdi. La cosa è ben dimostrata dal ruolo attivo esercitato dal governo Erdogan in diversi attentati avvenuti nel Kurdistan turco e soprattutto nella strage di Ankara, avvenuta lo scorso 14 ottobre, come parte di quella strategia della tensione che ha portato Erdogan a rivincere le elezioni con ampi margini di vantaggio sugli avversari.
Allo stesso modo emblematico, sebbene intriso di articolazioni storiche differenti e specifiche, il ruolo che sta assumendo Israele nell’attuale scenario. Se l’uso della violenza da parte dello Stato israeliano nei confronti dei palestinesi è una triste costante, l’uso politico strumentale da parte di Netanyahu dello “spauracchio terrorista” (che s’intreccia con il depotenziamento scientifico della componente laica palestinese attuato da questo e dai precedenti governi, attraverso l’incarceramento indiscriminato dei leader politici) ha portato, specie negli ultimi mesi, ad un utilizzo a tratti incontrollato della forza militare per reprimere nel sangue qualsiasi manifestazione di protesta.
All’interno di questo nuovo assetto del potere statuale riterritorializzato va letta anche la guerra intra-islamica che l’Isis sta combattendo non solo in Medio-Oriente, ma anche in Nord-Africa ed Asia centrale e che ha avuto negli attentati di Beirut contro Hezbollah, avvenuti il giorno prima di quelli di Parigi, uno dei punti di massima visibilità. E’ in questo contesto che si scontrano, ma allo stesso tempo si intrecciano, nel quadro di una governance globale sempre più multipolare, gli interessi e le pressioni da un lato delle potenze mondiali “classiche” (in particolare Stati Uniti e Russia), dall’altro di potentati sub-continentali (come lo stesso Stato islamico), affermatisi con la liquefazione delle precedenti strutture di potere statuale nell’area, avvenuta tra la guerra in Afghanistan, la seconda guerra del Golfo e le primavere arabe.
Certo, il neocolonialismo rappresenta una delle possibili chiavi di lettura del rapporto dialettico tra guerra e capitale, nelle forme appena descritte. Ma abbiamo la necessità di definirne gli elementi essenziali ed inquadrarli all’interno di quell’egemonia paradigmatica che ha assunto il capitale finanziario ed estrattivo all’interno degli assetti globali contemporanei. Se il colonialismo ottocentesco e novecentesco, che in quell’area aveva come perno il controllo del canale di Suez, si fondava sull’interesse di garantire un flusso mercantile costante tra Atlantico ed Asia orientale, passando per il Mediterraneo, oggi assume centralità il controllo dei flussi monetari derivanti dalla finanziarizzazione e dall’estrazione delle risorse energetiche, in particolare petrolio e gas. L’incidenza ad esempio di alcune scelte strategiche non solo sui mercati, ma anche sulla vita delle persone, è nota. Più complesso è palesarne cause ed effetti dentro una cornice interpretativa che tenga insieme vicende e processi, che connetta gli attentati di Parigi con la revoca delle sanzioni all’Iran, che consente al Paese del Golfo di esportare nuovamente petrolio, con il conseguente abbassamento del prezzo a livello mondiale ed il notevole spostamento di capitali azionari verso la cosiddetta energia verde. Questo non significa che i due eventi considerati abbiano immediatamente la stessa matrice, ma va comunque considerata la natura fluida, orribile ed immediatamente finanziaria ed estrattiva della guerra nella contemporaneità.
Le prima questione da porci è: qual è il tessuto sociale impattato dalla guerra globale e di cui essa stessa si nutre? È ovviamente avventuroso prodigarsi in letture di questo genere, che hanno una scala globale o quantomeno intercontinentale, ma è altrettanto ingenuo non pensare alla crisi sistemica ed agli sconvolgimenti da questa prodotti come ad uno spartiacque reale. L’impoverimento complessivo che ha investito, anche se in forme differenti, territori e metropoli; l’affermazione di una governance post-democratica, che ha nel definitivo superamento della sovranità statuale, e nel conseguente esautoramento delle istituzioni tradizionali della rappresentanza liberale, uno dei tratti maggiormente distintivi; l’esplosione di tutte le contraddizioni legate alla crisi climatica, che iniziano a determinare l’impossibilità della riproduzione biologica della vita in diverse parti del pianeta e che si connettono, con altri fattori, all’aumento esponenziale dei flussi migratori. Si tratta di fenomeni che determinano, nella complessità dello spazio globale, da un lato l’aumento della capacità del capitale di estrarre valore dalla vita e dall’ambiente, dall’altro risposte che non stanno andando nella direzione della liberazione del comune, ma che aggregano soggettività in forma organizzata sulla base dei fondamentalismi. Ne parliamo al plurale proprio perché sia il fondamentalismo religioso, che vede nell’Isis la nascita di un nuovo archetipo, sia quello politico, di matrice xenofoba e reazionaria, contengono al loro interno elementi comuni di carattere anti-sistemico, pur essendo funzionali alla riproduzione del sistema stesso. Li contengono nel loro linguaggio, nel loro modo e nella loro capacità di reclutare a partire dalla condizioni materiali di vita, nella loro capacità di produrre soggettivazione.
In questo contesto lo spazio del conflitto e di un’alternativa sistemica, che parte dal presupposto della giustizia sociale, rischiano di rimanere schiacciati se non si pongono il problema di contrastare sul campo, e nello spazio globale, sia il capitale sia i fondamentalismi. Allo stesso tempo è necessario rovesciare la logica e la prassi dello Stato di emergenza come dispositivo in grado di assoggettare ancor di più corpi e vite. Il terreno della guerra investe direttamente tutti questi elementi. Come allora siamo in grado, in quanto attivisti politici e parte di movimenti sociali, di contrastare la guerra nelle sue forme attuali, posto che il pacifismo, anche radicale, che abbiamo conosciuto ed attraversato negli anni passati è stato superato dalle condizioni storiche?
Si tratta di un interrogativo complesso, a cui tutti siamo chiamati a rispondere, senza nasconderci dietro baluardi ideologici o posizionamenti pregressi. La nostra idea parte innanzitutto dal presupposto che in questa guerra non vogliamo arruolarci, vogliamo esserne disertori attivi e rendere questa diserzione un dispositivo di massa e di lotta, un fatto costituente. Recuperando e riattualizzando lo spirito di Zimmerwald e Kienthal, che un secolo fa sanciva la “trasformazione della guerra imperialista in guerra di classe”, disertare e lottare per noi significa innanzitutto ambire a trasformare l’esistente, immergendoci nelle sue contraddizioni e combattendo le sue brutture ed i suoi orrori.
Sembra scontato e ripetitivo guardare al Rojava, a quel modello di resistenza in armi allo Stato islamico e di costruzione di una società nuova ed autodeterminata, come parte reale e basilare di questo processo. Ma anche la spinta esercitata dai migranti ai confini europei, divenuta dirompente a partire dalla fine della scorsa estate, rappresenta un altro esempio fondante di resistenza alla guerra ed ai dispositivi che la producono.
L’esperienza curda in particolare ci interroga profondamente sull’agire politico, a partire dai nostri territori, proprio perché rende palese il fatto che l’iniziativa di un potere costituente è l’unico contraltare possibile rispetto ai nuovi assetti di comando e guerra che si stanno determinando. Valorizzare le autonomie territoriali in questo momento rappresenta una premessa essenziale per costruire realmente potere costituente, capace di liberare territori e confederarli. Per questa ragione riteniamo indispensabile aprire uno spazio di confronto con altri, con tutte quelle realtà politiche e sociali e con quelle singolarità che sentono la nostra stessa esigenza di non fermarsi di fronte alla guerra ed al terrore, ma di rovesciarli.
Centri sociali del Nord-Est