Serve di ripensare un’industria che occupa 10mila persone
L’industria del cemento è finita
Italcementi e Cementir annunciano agli azionisti un dimezzamento nel numero degli stabilimenti (la prima) e il congelamento del grande progetto di revamping dell’impianto di Taranto (quello nella foto). La crisi è ormai talmente evidente che non può più essere nascosta
È finita da tempo, perché i consumi pro capite sono in caduta libera da un triennio, dopo aver toccato un massimo di circa 800 chilogrammi a testa, e un cementificio, che è una macchina capital intensive, alla lunga non può lavorare al 60, 65% della propria capacità.
La vera novità degli ultimi due giorni, però, è che a prendere atto di una crisi irreversibile è -finalmente- anche l’industria del cemento, che ne ha informato i propri azionisti in questi giorni dedicati, per molte delle società quotate in Borsa, alle assemblea che approvano i bilanci 2012.
Ieri (17 aprile) era toccato ad Italcementi, che è il principale attore del mercato. Riprendiamo dal Corriere della Sera (la famiglia Pesenti, che controlla Italcementi, è anche azionista di Rcs, l’editore del quotidiano) la lettera che Giampiero e Carlo Pesenti hanno distribuito agli azionisti:
“Il mercato italiano del cemento continua a essere caratterizzato da una sovracapacità produttiva rispetto a una domanda che si è allineata ai livelli della fine degli anni Sessanta. L’anno scorso le aspettative di un’inversione della tendenza negativa che aveva caratterizzato il settore delle costruzioni a partire dal 2008 -afferma il presidente di Italcementi-, si sono allontanate a causa dell’aggravarsi dello scenario congiunturale, soprattutto in Europa, in alcuni fasi entrato in una fase di recessione, spostando l’attesa di segnali concreti di ripresa sono nel prossimo futuro”.
“A fronte di questa nuova realtà, che si prevede non possa più tornare agli elevati livelli pre-crisi -da Italcementi- è stato avviato un intervento con l’obiettivo di razionalizzare l’apparato industriale e distributivo nazionale, senza per questo ridurre le quote di mercato: il gruppo con il rigoroso controllo della gestione finanziaria continuerà una politica di mantenimento dell’indebitamento netto entro i prudenziali limiti che da sempre caratterizzano il profilo della società. Il 2013 -si legge ancora nella lettera dei vertici agli azionisti- inaugura la completa integrazione nella relazione finanziaria annuale di quella sulla sostenibilità e le strategie e le azioni intraprese quest’anno, pur a fronte di una volatilità che contraddistingue l’evoluzione dello scenario macroeconomico mondiale, determineranno per il gruppo nuove sfide e un impegno ancora maggiore affinché la nostra attività possa generare valore condiviso per tutti gli stake-holders” concludono Giampiero e Carlo Pesenti.
Poi presentano il piano industriale: nel 2013, saranno 8 le cementerie “sicuramente aperte”. Invece di 17.
Oggi (18 aprile) è tocca invece a Cementir (gruppo Caltagirone), annunciare il congelamento del progetto d’investimento da 150 milioni di euro per l’impianto di Taranto, di cui abbiamo scritto più volte anche in merito ad un finanziamento a fondo perduto concesso dalla Regione Puglia per trasformarlo in un co-inceneritore di rifiuti:
“‘Avendo 4 siti produttivi -ha spiegato Francesco Caltagirone jr, secondo una nota di MF DJ News- stiamo pensando di concentrarci in alcuni’ di essi perché la crisi non termina a breve.
Per ora il progetto di Cementir sullo stabilimento di Taranto ‘è congelato’ sia per l’andamento del mercato del cemento con una domanda attesa nell’anno in calo a ’20-22 milioni di tonnellate’, rispetto a una
capacità produttiva più che doppia e sia ‘per l’incertezza dell’Ilva’.
‘Non ci sono gli estremi economici per concentrarci sullo stabilimento’ perché ‘andare a investire piu’ di 150 mln di euro non ne vale la pena. Lo stabilimento continua a marciare nonostante sia vecchio. Quest’anno e
il prossimo non inizieremo nessun investimento perché il mercato non c’è’. Inoltre, ‘pensiamo che nel 2013-2014 riusciremo a portare a break even l’Italia nonostante il calo del mercato'”.
Di fronte a quest’ecatombe, non potrà servire il palliativo immaginato dal governo tecnico, che da fine marzo autorizza i cementifici a bruciare il Cdr, oggi chiamato combustibile solido secondario (Css) e non più considerato un rifiuto. È tempo di intervenire in modo efficace, con la capacità di immaginare un futuro diverso per (parte) dei 10mila lavoratori oggi impiegati all’interno dell’industria del cemento italiana.