Oltre la proprietà pubblica riformiamo il codice
di Alberto Lucarelli
Il codice civile del 1942, con riferimento al genus dei beni pubblici, individua tre categorie: i beni demaniali, i beni patrimoniali indisponibili e i beni patrimoniali disponibili. I beni che fanno parte del demanio pubblico sono individuati dall’art. 822 c.c., che al primo comma ne elenca una serie che appartengono allo Stato e costituiscono il cosiddetto demanio necessario: il lido del mare, la spiaggia, le rade e i porti, i fiumi, i torrenti, i laghi e le altre acque definite pubbliche dalle leggi in materia. L’art. 823 c.c. detta il regime giuridico speciale cui sono soggetti i beni cosiddetti demaniali: essi sono inalienabili e non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi, se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano. Spetta all’autorità amministrativa la tutela dei beni che fanno parte del demanio pubblico.
Tale modello di tutela sia nella circolazione, che nella gestione dei beni si rivela, nella sostanza, inadeguato a garantire le esigenze di carattere generale. In particolare, sembra il frutto di quel formalismo giuridico tipico delle codificazioni borghesi. La sdemanializzazione ex art. 829 c.c., quale presupposto di un’eventuale alienazione del bene, può leggersi quale atto che determina o prende atto della sottrazione del bene all’uso pubblico o della destinazione del medesimo ad un uso pubblico. L’istituto della sdemanializzazione assume una rilevanza centrale nell’ambito della presente riflessione, in quanto rivela una contraddizione di fondo della normativa codicistica rispetto allo spirito che permea la Costituzione: contraddizione paradigmatica del rapporto patologico fra codice e Costituzione, nel quale il primo dovrebbe essere attuativo della seconda ed invece è più risalente. In altri termini, il primo dovrebbe attuare i fini della seconda ed invece si ispira ad una filosofia diversa e, per certi versi, opposta.
La schematica ricostruzione del regime civilistico della proprietà pubblica di cui sopra consente di isolare l’aspetto rilevante ai fini dell’indagine: la disciplina codicistica dei beni pubblici e la stessa previsione costituzionale della proprietà pubblica sono idonee a garantire l’interesse generale?
In altri termini, è di estremo interesse comprendere quale sia la ragione sottostante alla previsione civilistica di un regime speciale della proprietà pubblica e alla distinzione fra beni demaniali e beni patrimoniali, se la conseguente differenziazione di regime giuridico sia compatibile con la disciplina costituzionale della proprietà e soprattutto sia idonea a consentire allo Stato di adempiere ai suoi compiti di tutela e soddisfacimento dell’interesse generale.
La stessa Costituzione può essere riletta e considerata quale fondamento di un regime giuridico dei beni che non si regge più sullo schema del diritto proprietario, ma su uno schema alternativo in cui è centrale la nozione di bene comune e di appartenenza collettiva. La nuova lettura, dunque, si fonda, innanzitutto su un criterio di distinzione fra i cosiddetti beni pubblici in base al quale i beni non sono guardati nella loro oggettività, ma nel loro profilo funzionale. Nel quadro della disciplina vigente, si omette di riflettere sul perché si consente la gestione privatistica (naturalmente finalizzata al profitto) di beni che appartengono a tutti. Sembra che le chimere dell’efficienza, della concorrenza, della liberalizzazione offuschino il valore costituzionale più alto e centrale della tutela e dello sviluppo della persona umana. Nella visione alternativa, invece, l’aspetto della necessaria proprietà pubblica del bene per il soddisfacimento dell’interesse generale viene superato in un’ottica che si pone al di là del rapporto proprietario, introducendo la nozione di appartenenza collettiva quale assoluta inalienabilità di beni comuni. Tali beni sono sottratti ad un regime proprietario per essere sottoposti ad un regime dell’appartenenza alla collettività, attuale e futura.
In questa direzione si è mossa la Commissione Rodotà, individuando nei diritti fondamentali della persona l’elemento in rapporto al quale vanno ordinati i beni comuni ed in rapporto al quale ciascuna categoria di beni comuni sarà oggetto di una specifica disciplina. Si prende atto del fatto che il regime civilistico dei beni pubblici si rivela inefficace rispetto al fine di tutela dell’interesse generale che è proprio della proprietà pubblica.La vigente disciplina dei beni pubblici, sotto il profilo della circolazione degli stessi ha costituito il fondamento delle leggi che a partire dal 2001 hanno disciplinato la cartolarizzazione dei beni pubblici, prevedendo provvedimenti dell’autorità amministrativa con cui si produce il passaggio di beni demaniali (o del patrimonio indisponibile) al patrimonio disponibile.Tali leggi hanno abilitato l’autorità amministrativa ed, in particolare, il Ministro dell’economia e delle finanze, ad adottare atti amministrativi e, segnatamente, decreti, con valore dichiarativo. Il valore costitutivo dell’effetto di sdemanializzazione, infatti, resta in capo alla legge. In tale tendenza si inserisce anche l’ultimo degli atti normativi in materia di beni demaniali, e cioè il decreto legislativo sul federalismo demaniale che consente il trasferimento a titolo gratuito a Regioni, Province ed enti locali di beni demaniali consentendo loro di valorizzarli, anche ponendoli sul mercato. In sostanza il decreto sul federalismo demaniale, sotto il profilo esaminato opera una sdemanializzazione ex lege di beni.
Il regime pubblicistico dei beni si caratterizza, altresì, per una specialità sotto il profilo gestionale dei beni stessi. In particolare, ferma restando la proprietà pubblica di taluni beni, la gestione degli stessi può essere affidata a soggetti privati. Ciò determina una scissione fra proprietà formale e sostanziale del bene e delle immediate conseguenze in termini di fruibilità dello stesso da parte della collettività, ossia in termini di interesse generale. Al di là dell’assetto proprietario, infatti, i beni pubblici, tanto demaniali (sia demanio necessario che eventuale), tanto patrimoniali, possono essere oggetto di diritti a favore di terzi nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano. Il regime della proprietà pubblica così come delineato dal codice, con le sue categorie, con i vincoli alla circolazione sempre superabili in via legislativa, con l’ipocrita distinzione fra proprietà formale e gestione del bene affidabile a privati, con il nesso beni-interesse generale anch’esso nella disponibilità del Legislatore, non garantisce il bene comune. La causa principale di questa inefficacia sembra poter essere individuata nella centralità che il codice del ’42 attribuisce al legislatore. Il legislatore è onnipotente, la legge è garanzia dell’interesse generale secondo la visione classica del sistema rappresentativo del tempo al quale il codice risale.
Oggi quella affermazione appare in tutta la sua ipocrisia e il campo della proprietà pubblicasembra essere il più idoneo a svelarla, metterla in crisi e, forse, superarla. Il legislatore non ha gestito la proprietà pubblica a fini di interesse generale; il modello della rappresentanza classica è fallito laddove lo Stato non è percepito come soggetto tutore dell’interesse generale ma come soggetto da controllare; l’intervento della legge non ha garantito che una sdemanializzazione ed una successiva vendita di beni pubblici avvenissero a vantaggio della collettività.
Il regime codicistico, dunque, appare inadeguato rispetto al fine della tutela dell’interesse generale. Emerge nel rapporto fra la normativa civilistica della proprietà pubblica e l’art. 42 Cost. l’artificiosità di una normativa preesistente rispetto al dato costituzionale e che per questo non può essere attuativa di quest’ultima perché ispirata a principi affatto differenti.
Emerge la necessità di un nuovo assetto non incentrato sul diritto proprietario, con tutto ciò che ne consegue in termini di regime di circolazione e gestione, un assetto in cui sia assicurato il godimento di un bene alla collettività; in cui la gestione del bene sia funzionale al godimento della collettività e non al lucro di chi lo gestisce; in cui la stessa appartenenza del bene sia garantita a tutti: ad ogni individuo ed alle generazioni future.
Ripartiamo, dunque, dalla categoria dei beni comuni così come elaborata dalla Commissione Rodotà: beni della collettività e non di proprietà pubblica, la cui gestione e titolarità è sottratta alle stesse istituzioni rappresentative e diviene oggetto di gestione partecipata e di decisioni indisponibili.
Tratto da Il Manifesto del 16 marzo 2012