NAZIONALIZZAZIONE DELLE BANCHE? NON CI RISULTA!

[di Antonio Tricarico]

 Lo scandalo Monte dei Paschi e la conseguente grana politica, caduta come un macigno sulla campagna elettorale, ha finalmente generato anche in Italia un dibattito su quali provvedimenti prendere di fronte al fallimento delle banche. Il presidente del consiglio uscente, Mario Monti, ha strenuamente difeso i suoi Monti bond, prestiti temporanei per quasi 4 miliardi per dare liquidità al Monte.

Ma lui stesso non ha escluso, qualora la banca non si risollevi – o se si scoprissero ulteriori buchi – che sarà necessaria una “nazionalizzazione di risulta”. I prestiti sarebbero trasformati in azioni e poi lo Stato risanerebbe la banca, con la speranza di metterla di nuovo sul mercato. Lo stesso modello che ha guidato i mastodontici salvataggi in Regno Unito e Stati Uniti, dove tutt’ora molti istituti di credito sono in mani statali.

Sarebbe da chiedersi se il termine nazionalizzazione sia quello giusto in questo caso. Contrariamente a quello che si pensa, gli Stati che hanno salvato le banche non sono intervenuti nella loro gestione, avvenuta sempre secondo puri principi di mercato. Si sono limitati a incassare eventuali dividendi, senza neanche mettere un tetto ai vergognosi bonus percepiti dai manager per riportarle a fare profitto.

Si direbbe quasi che sono le banche ad aver comprato lo Stato, instillando la loro logica di mercato nelle tesorerie centrali e badando solo ai guadagni, per buona pace dell’accesso al credito di piccole imprese, famiglie, e della funzione di interesse pubblico che storicamente hanno avuto nel far incontrare risparmio e credito.

Ma proprio in questi giorni una rivoluzionaria sentenza della corte arbitrale dell’Associazione Europea per il Libero Scambio (Efta) ha suggerito un’altra strada. In Islanda, nel pieno della crisi, il governo non è intervenuto sulla bancarotta delle sue banche, lasciandole fallire a danno dei tanti investitori globali. Solo dopo ha proceduto con un’autentica nazionalizzazione di alcuni istituti di credito, ma fuori da logiche di mercato.

Di fronte ai ricorsi di Regno Unito e Olanda, il collegio arbitrale è stato netto: non spetta allo Stato garantire i profitti degli investitori privati se la banca è diventata insolvente, ossia se i suoi debiti hanno superato la patrimonializzazione. Se si applicasse tale principio alle banche europee, oggi sarebbero in tante a chiudere bottega! Questo giudizio inatteso potrebbe cambiare radicalmente la prospettiva con cui guardare al problema della supervisione del sistema bancario e all’eventualità dell’intervento pubblico.

La finanza è sempre più incentrata sui mercati, al punto che le banche stesse si finanziano e indebitano su quelli finanziari privati. Tornando a un sistema basato invece sulle banche – come è di fatto ancora in maniera prevalente in Italia – si riducono i rischi sistemici, ma soprattutto si può concepire un ruolo pubblico sia per tenere le banche private fuori dalla linea speculativa dei mercati di capitale, sia promuovendo istituti di credito pubblici che operino fuori la logica di mercato.

Secondo il dogma del mercato unico e della concorrenza, non sarebbe illegale la rinuncia unilaterale a fare profitti da parte di alcuni attori. Chiaramente questo richiederebbe un ripensamento dell’intero sistema italiano delle fondazioni bancarie, che da garanti della territorialità del sistema creditizio sono diventate “predoni locali” al pari dei “predoni globali” che fanno razzia sui mercati.

Il dibattito attuale tra i sostenitori di una maggiore apertura del sistema bancario italiano ai mercati finanziari globali e chi vuole operare solo “di risulta”, se proprio costretti dagli eventi, rendendo lo Stato di fatto uno speculatore al pari dei privati, è quindi fuorviante. Una terza via (non blairiana, please…) c’è, se si vuole vederla: ripensiamo il concetto di banca pubblica e, come suggerisce il movimento alter-mondialista francese, parliamo di risocializzazione delle banche, ponendo anche la questione centrale di chi poi decide e controlla i manager una volta tirati gli istituti di credito fuori dal mercato e posti sotto controllo pubblico. Utopia “di risulta”, penserà qualcuno? Non proprio.

Si può iniziare da chi è stata per 150 anni una banca pubblica di investimenti, la Cassa Depositi e Prestiti (Cdp), l’unica che oggi in Italia ha capitale da far gola a tanti. Il primo passo sarebbe smentire il patto rinnovato recentemente tra Monti e le fondazioni per tenerle nel capitale della Cassa con una quota di minoranza – però decisiva in tutto – del 20 per cento. Cacciamoli i mercanti da tempio, e risocializziamo Cdp!