Mercato dei crediti di carbonio, un cattivo affare

“A Call to Action” è il titolo del rapporto del Panel di alto livello delle Nazioni Unite sul Clean Development Mechanism, il meccanismo che avrebbe dovuto garantire la riduzione delle emissioni di CO2 nell’ambito del Protocollo di Kyoto. E che invece si è rilevato un fallimento

di Elena Gerebizza, Re:Common*

É pubblico il rapporto del Panel di alto livello delle Nazioni Unite sul Clean Development Mechanism, il fantomatico meccanismo di sviluppo pulito istituito con il Protocollo di Kyoto che avrebbe dovuto garantire la raccolta dei capitali necessari a realizzare progetti per la riduzione delle emissioni di CO2 nei Paesi poveri.
“Avrebbe” in quanto il meccanismo sembra essere in serie difficoltà. Anzi, a sentire Joan MacNaughton, vice presidente del Panel ed ex rappresentante del governo inglese, intervistata dal Guardian, sarebbe “essenzialmente fallito”.
Se da un lato il Panel -creato per realizzare una valutazione indipendente del meccanismo che in molti vorrebbero “salvare” nel caso il Protocollo di Kyoto naufragasse- riconosce i numerosi problemi del meccanismo, dall’altro conclude chiedendo ai governi di intervenire per salvare il CDM e “ridare fiducia agli investitori” lasciando intendere che alla fine dei conti, di mercato si tratta (e non di salvare il pianeta).
Il fallimento del CDM si incastra bene in un contesto in cui sono evidenti problemi ben più seri legati all’idea più ampia di istituire un mercato globale dei crediti di carbonio entro il 2020 promossa da governi e imprese fin dalla firma del Protocollo di Kyoto.
Il sogno mancato dell’accordo globale sul clima di Copenhagen nel 2009, saltato in seguito al voltafaccia del governo Obama, era proprio questo: creare un mercato globale del carbonio, con regole chiare, che avrebbe permesso a imprese e investitori di lanciarsi a testa bassa nella creazione del mercato dei derivati più grande al mondo, con parole d’ordine riassumibili in: privatizzare, mercificare, finanziarizzare e speculare.
Un’operazione che ha poco a che fare con la lotta ai cambiamenti climatici e molto invece con interessi privati dell’alta finanza, intenzionata a mettere le mani sulle risorse naturali dei paesi del Sud, così da portare a compimento la più grande espropriazione di beni comuni naturali mai avvenuta.
Le aziende europee sono state tra le più attive nella realizzazione di progetti CDM che aiutavano a raggiungere gli obiettivi di riduzione interni fissati dall’Unione, oltre che a rivendere i titoli anche sui vari mercati volontari. Ma negli ultimi anni, i permessi a inquinare distribuiti dall’UE bastano da soli a coprire le emissioni derivate da una ridotta produzione, e non incentivano né a riduzioni reali, né a cercare scorciatoie contabili attraverso l’escamotage dei progetti CDM. Il crollo di interesse ha avuto un impatto diretto anche sul prezzo dei certificati di riduzione. Oggi il costo di una tonnellata di presunta riduzione di CO2 vale circa tre dollari, contro i 20 del periodo d’oro precedente al 2009.
Le notizie che giungono da Bruxelles confermano che anche in Europa il mercato di carbonio versa in cattive acque. A giugno è entrato in vigore il registro unico delle riduzioni di emissioni che, a causa di problemi con il software utilizzato, ha aumentato l’incertezza tra gli investitori, i quali non sarebbero in grado di risalire a governi e aziende che hanno immesso sul mercato i certificati di riduzione.
Un problema serio, anche visti i casi di frode già occorsi e il fatto che numerosi crediti che verranno a breve banditi dall’UE sarebbero ancora in circolazione, rischiando di lasciare qualcuno con il cerino in mano. “Ci si può affidare all’onestà di chi vende o effettuare una compravendita al giorno” ha detto Simone Ruiz della IETA (International Emission Trading Association). Un autogol che rischia di seppellire definitivamente anche l’ETS, per la gioia di chi nel mercato non ha mai creduto.