L’Austria, in questa fase, riveste un ruolo centrale dal punto di vista geografico, e di conseguenza nella gestione politica delle migrazioni, poiché è il crocevia di due rotte migratorie. La prima, quella dell’asse del Brennero, è da più di un anno che è interessata dal potenziamento dei controlli razziali effettuati, soprattutto sui treni, dagli agenti della trilaterale, con il fine di bloccare ed ostacolare il transito dei migranti. La seconda, quella della rotta dei Balcani, ha visto dall’inizio del 2015 un aumento considerevole degli arrivi di persone, che per raggiungere l’Europa centrale e settentrionale devono necessariamente attraversare il territorio austriaco. L’Austria è perciò diventata lo snodo cruciale della Balkan Route, principale punto di approdo e di passaggio del viaggio senza fine di uomini, donne e bambini in fuga da guerra e miseria.
Con la staffetta solidale #Overthefortress abbiamo visto e toccato con mano le situazioni calde sui vari confini della rotta, i cambi di direzione imposti essenzialmente dalla militarizzazione dei Paesi balcanici e dall’innalzamento di chilometri di filo spinato in Ungheria e Bulgaria.
Solo la grande determinazione dei migranti ha messo in discussione i regolamenti inadeguati europei, primo tra tutti il Regolamento Dublino III e l’impossibilità di richiedere asilo in paesi diversi da quelli che si affacciano sul mar Mediterraneo e sull’Egeo. Questa forzatura, agita da centinaia di migliaia di persone, ha aperto una breccia nell’Europa fortezza mostrando sia il volto migliore dei tanti cittadini europei che hanno spinto e sostenuto questo viaggio, ma anche il volto peggiore delle destre populiste che sono riuscite a imporre nell’agenda dell’Unione un’idea di cittadinanza escludente e costruita su basi etniche.
Oggi, con la chiusura del confine austriaco, assistiamo al materializzarsi di quell’effetto domino che più volte abbiamo raccontato sulla Balkan route: la Slovenia, la Croazia, la Serbia e la Macedonia stanno attuando politiche di respingimento su ogni frontiera perché nessuno di questi paesi vuole assumersi la responsabilità dell’accoglienza.
Il portato di questi cambiamenti epocali sta facendo emergere che le politiche europee sull’immigrazione hanno complessivamente fallito: non vi è la volontà di accogliere dignitosamente i migranti, ma si sono stretti accordi con la Turchia del dittatore Erdogan per il loro rimpatrio e per fortificare le frontiere esterne; la NATO impone un blocco navale al largo della Libia, e si posiziona nel Mar Egeo, proprio con l’intento di bloccare le partenze via mare; sono stati aperti gli “hotspot” in Italia e Grecia per dividere sommariamente i rifugiati dai cosiddetti “migranti economici”, da chi può avere il diritto a richiedere l’asilo a chi invece deve essere escluso. Di fatto l’approccio hotspot delle politiche europee è quello di normare dall’alto una vera e propria fabbrica di differenziazione degli individui, con il conseguente incremento della clandestinità e dei problemi ad essa connessi.
Tutto questo mostra palesemente che la guerra globale si sta declinando come una guerra all’umano, colpendo migliaia di corpi desiderosi di libertà, pace e giustizia sociale. Come movimenti sociali dobbiamo cogliere che si sta aprendo una sfida per la costruzione di un’Europa aperta e solidale che si contrappone frontalmente, e senza mediazioni possibili, ad un’Europa delle gabbie etniche e dell’austerità. Il nodo principale di questa sfida, che riguarda tutti e tutte, è quello di una nuova cittadinanza europea, basata sulla possibilità di muoversi liberamente, ma soprattutto sulla necessità di conquistare nuovi diritti sociali, civili e un welfare universale.
Riteniamo fondamentale aprire domenica 28 febbraio, all’interno dell’appuntamento di Agire nella Crisi, una discussione pubblica per organizzare un’iniziativa transnazionale da concretizzarsi all’inizio della primavera sui confini meridionali ed orientali dell’Austria.
All’assemblea parteciperanno tante realtà di movimento europee, con l’obiettivo di organizzare una mobilitazione radicale e praticabile da tanti, che sia in grado di rompere il meccanismo del regime dei confini e che voglia intensificare un lavoro di rete e condivisione progettuale nelle zone maggiormente interessate dalla pressione migratoria.