Una nuova costituente europea

di Lorenzo Marsili (European Alternatives), Ugo Mattei (International university college of Turin), Francesco Raparelli (Centro studi per l’Alternativa comune)

 

Nonostante lo sfilamento della Repubblica ceca, il secondo paese a sfilarsi, dopo la Gran Bretagna, l’Unione procede nella definizione del Fiscal compact. Si aggiungono pezzi alla “gabbia d’acciaio” imposta dalla Deutsch Bank e dalla Merkel: riduzione del rapporto tra debito pubblico e Pil al 60%, sanzioni automatiche in caso di sforamento, costituzionalizzazione, in ogni paese dell’Eurozona, del pareggio di bilancio. Cosa cede in cambio la “locomotiva” tedesca? Nulla. Il «firewall» sarà attivo da luglio, ma l’entità del fondo verrà discussa nel mese di marzo, anche quest’ultimo vertice è stato inconcludente. Anzi, per iniziare a discutere del fondo salva-Stati la Merkel ha posto come condizione il commissariamento della Grecia e delle sue politiche fiscali: “germanizzare” l’Europa, più di quanto non lo sia già.

 

Un nuovo processo costituente dunque sta prendendo forma nello spazio dell’euro e dell’Unione. Una «rivoluzione dall’alto», come ha scritto Balibar, sollecitata dall’iniziativa dei mercati finanziari, che sta riducendo in briciole la democrazia liberale che abbiamo conosciuto a partire dal secondo dopoguerra.

Sarebbe ingenuo, però, pensare che questo processo sia lineare. Nonostante gli sforzi di Draghi e Monti non è detto che la moneta unica ce la faccia: l’unificazione delle politiche fiscali è tardiva e i limiti ai quali Draghi deve sottoporre l’immissione di liquidità a sostegno degli Stati in crisi sono troppi. La Bce non è una banca centrale, non può stampare moneta, ed è stato proprio questo limite paradossale, imposto dalla Germania, a stimolare l’iniziativa degli hedge funds. Non è casuale che oggi siano proprio quest’ultimi ‒pensiamo a Soros – a richiedere a gran voce l’istituzione degli eurobonds. La socializzazione del debito garantirebbe stabilità all’euro, ma anche liquidità in abbondanza per i mercati. La Germania non ci sta e guarda verso est. Altrettanto, non è casuale che proprio al seguito del vertice di Bruxelles la Merkel si sia mossa verso Pechino in compagnia di una ventina di imprese tedesche. Già 200 lavorano nel Guangdong, e il 30% degli scambi commerciali tra l’Europa e la Cina riguardano la Germania. Intanto in Francia è partita la corsa per le presidenziali e Hollande, il candidato socialista, promette, in caso di vittoria, di far saltare il Trattato.

Si tratta insomma di un processo costituente rissoso e incerto, quello avviato dal Fiscal compact. I risultati sul terreno economico sono ancora molto fiacchi, la Grecia e il Portogallo continuano a rischiare il default, altrettanto l’Irlanda. Mentre Spagna e Italia, devastate dalle politiche del rigore di Rajoy (e prima di lui di Zapatero) e Monti, procedono verso la recessione. Dal punto di vista politico, invece, i risultati sono evidenti: i cittadini europei non contano più nulla, già contavano molto poco prima, ora il tasso di democrazia nell’Eurozona si riduce al minimo. La direzione del capitalismo del vecchio continente sembra più che mai quella cinese: compressione smisurata dei salari, peggioramento delle condizioni di vita, azzeramento della “sostanza” democratica, in un quadro in cui anche i diritti negativi cominciano ad essere a rischio.

Possiamo arrenderci a questo destino? Noi pensiamo di no, e pensiamo che siano tanti, in Europa, a pensarla in questo modo. Per questo ci stiamo mobilitando, assieme a tante e tanti, oltre 40 associazioni in tutta Europa, per «la rotta». Dal 10 al 12 febbraio, per tre giorni al Teatro Valle occupato di Roma, si aprirà un confronto a tutto campo sull’Europa che vogliamo. L’idea è quella di dare vita ad un nuovo spazio pubblico transnazionale, una gcostituente dal bassoh che sappia federare istanze politiche e conflitti, componendo linguaggi e pratiche tra loro differenti, ma tenuti insieme dal filo di una comune spinta europeista, ostile all’Europa che c’è e al disastro che ci attende.

Il metodo è induttivo. Si parte da due questioni programmatiche decisive: il reddito minimo garantito; i beni comuni. In entrambi casi si tratta di questioni che, se conquistate sul terreno normativo, sarebbero in grado di rovesciare il delirio monetarista di Francoforte e di ridefinire la costituzione materiale europea. Dire reddito significa ripensare la distribuzione sociale della ricchezza: in un contesto produttivo dove la precarietà diventa regola e la vita viene messa continuamente al lavoro, la conquista di un reddito di base significa uscire dall’incubo del ricatto. La sfida dei beni comuni – come abbiamo imparato con il referendum del 12-13 giugno – è la sfida della democrazia contro il saccheggio e l’autoritarismo: né pubblico né privato, il comune allude ad una sfera sociale e politica dove il potere si diffonde e con esso la partecipazione nella gestione delle risorse e dei servizi.

Ma come sappiamo i diritti e le norme non cadono dal cielo, devono essere strappati da un’iniziativa politica ampia e radicale. Per questo immaginiamo la costruzione di due grandi campagne europee, campagne in grado di coinvolgere movimenti e associazioni, amministratori locali e forze sindacali. In questo senso, l’utilizzazione dello strumento dell’Ice (Iniziativa dei cittadini europei), potrebbe essere uno stimolo a connettere soggetti eterogenei, a far crescere l’attenzione pubblica, ad arricchire lo sfondo all’interno del quale far emergere in primo piano le lotte concrete.

Seppure il metodo è induttivo, e si tratta di partire dalla singolarità delle vertenze, non possiamo non pensare ad un luogo di composizione delle lotte e del discorso. L’indebolimento del percorso dei fori sociali non deve farci demordere. Siamo sicuri che l’appuntamento del Valle occupato sarà solo l’inizio e siamo convinti che, nel mezzo dell’emergenza e della crisi, stia crescendo una nuova “coscienza europea”. Non sarà facile e non sarà breve, ma per dirla con uno slogan dei movimenti studenteschi, «gente come noi non molla mai».