Il trappolone

 di Augusto Illuminati

Con uno sgradevole tasso di dottrinarismo e con la solita sfibrante prolissità Monti ci ha spiegato che l’epoca della concertazione permanente è finita e che adesso comandano i poteri finanziari. Prendere o lasciare, anzi soltanto prendere (omettiamo cosa e dove), perché non c’è alternativa (TINA), come ricorda anche l’autorevole voce del Presidente Napolitano. Ha scritto Dario Di Vico sul «Corsera»: «verbalizzare al posto di concertare». La concertazione, che era come la nostra Costituzione materiale, «ieri è andata in pensione», anche se la riforma Fornero «è solo una prima rata». Osserviamo incidentalmente che la Costituzione formale aveva subito un bello sbrego con il passaggio da Berlusconi a Monti, quella materiale ha seguito –interessante, in genere succede l’inverso.

 

Gli elementi simbolici fanno cortocircuito con le pratiche sostanziali e alla logica concertativa subentra non il vuoto, bensì la coppia operativa decretazione-accordi separati. La firma di Napolitano e lo scissionismo Cisl-Uil. Il simbolo o scalpo da esibire all’Europa e alla finanza internazionale è l’art. 18 e la rottura sindacale –e Monti non ha mancato di girare il coltello nella piaga lodando la ragionevolezza della Camusso a proposito della Tav–, la pratica sostanziale è lo scarico sulle parti dei costi della mobilità, disimpegnando il contributo pubblico agli ammortizzatori, e la possibilità di riversare tutti i licenziamenti alla voce “economici” (senza possibilità di reintegro) sotto forma di pratiche individuali. Quale imprenditore sarà così stupido da ricorrere a misure disciplinari o a complesse trattative per licenziamento collettivo, quando nelle piccole e medie aziende si potrà usare uno stillicidio di licenziamenti economici individuali e nelle grandi si impiegherà lo sperimentato istituto della newco e riassunzione selettiva, modello Pomigliano? Bella forza che restano vietate le discriminazioni individuali esplicite, ma come mai al tavolo delle trattative non è stata neppure evocata quella di massa contro la Fiom nelle aziende di Marchionne?

 

La questione dell’art. 18 –su cui formalmente si è operata la rottura– è stata agitata come vessillo simbolico ma allo stesso tempo ha costituito una trappola simbolica. Licenziamenti più facili, ha detto la Camusso, giusto. Ma il bilancio negativo della riforma non sta qui, per l’essenziale. Sta piuttosto nel riordino degli ammortizzatori, calcolato per ridurre il peso sul bilancio pubblico di una disoccupazione realisticamente in aumento nella pesante fase recessiva che si è aperta ormai da un anno, nella scrematura assai limitata della tipologia dei contatti a tempo determinato e nel privilegiamento dell’apprendistato come canale tutt’altro che garantito all’assunzione a tempo indeterminato. Dopo essersi riempiti la bocca dei ggiovani per colpire i presunti garantiti, si è stabilito –alla faccia di un’allocazione universale e di qualsiasi forma di reddito di cittadinanza– di riservare una corta e magra indennità di disoccupazione (a carico di aziende e lavoratori occupati) a chi ha perso un lavoro dopo 52 settimane più o meno continuative in chiaro. Tagliando fuori, cioè, tutto il precariato o quasi. E su questo –come sulla proposizione di uno sviluppo non generico e utopico­– il sindacato è stato timido o si è girato dall’altra parte. E quando diciamo sindacato, parliamo di Cgil, non dei suoi cugini venduti a swottocosto. Non ha capito che, senza una battaglia centrale sul reddito di cittadinanza, la difesa dell’art. 18 e la trattativa sugli ammortizzatori sociali rischiavano di configurarsi come un arroccamento perdente, sull’esistente. L’accusa di conservatorismo è un effetto ideologico quanto il giovanilismo d’accatto di Fornero e Napolitano, d’accordo, ma la zappa sui piedi in pratica la Cgil se l’è data.

 

Non guardiamo al passato, ma per il futuro? La Cgil parla di una battaglia di lunga durata, non di scoppi momentanei –e questo vuol dire che lo sciopero tradizionale nelle fabbriche ha molti limiti e che per precari e licenziabili scioperare è complicato–, ma come si pensa di riunificare nuclei operai e universo precario, come bloccare l’operazione insistendo sui nodi sensibili (logistica, blocco delle città, diffusione tumultuaria della resistenza, ripresa di contestazione politica), su quale programma e con quali tattiche agitatorie e vertenziali?

 

Il progetto di Monti è chiarissimo: ridurre i salari favorendo la licenziabilità senza investire per creare posti nuovi di lavoro (il mercato fa il resto). In tal modo, secondo l’ortodossia monetaria, si potrà prima o poi uscire dalla crisi e ripartire a fare profitti industriali (intanto quelli finanziari vanno alle stelle). Un progetto complementare a quello di Marchionne –nessuna sorpresa per la complice e reciproca simpatia. Con cui condivide anche il probabile fallimento. La riforma sta passando, ma non vedremo né a breve né a medio periodo incrementi dell’occupazione e del Pil. SalvaItalia si avvia alla stessa sorte di FabbricaItalia. Gli ideatori lo sanno benissimo e forse lo sapevano in partenza.

 

PS Il primo effetto del passaggio della riforma –anzi del suo trasferimento alla discussione parlamentare, che dovrebbe legittimare “politicamente” la decretazione autoritaria– sarà l’emarginazione se non la spaccatura del Pd, che perderà in fretta tutti i vantaggi tratti dalla caduta di Berlusconi. Ovvero: non tutto il male viene per nuocere.