Cinque tesi per una riflessione
di Luca Casarini
1 – La Caduta tendenziale del capitalismo
Il contesto di crisi capitalistica nel quale ci muoviamo, ha bisogno di essere approfondito anche nei termini con cui siamo abituati a descriverlo. Dire che la crisi è strutturale, ormai non ci può bastare. Forse dovremmo esplorare di più quella terra di mezzo che si trova tra l’idea del crollo rovinoso, definitivo e istantaneo del sistema, e quella inquietante della sua riproduzione, nonostante la crisi, all’infinito. E’ lì, in quel punto mediano, che non è il risultato dell’equidistanza tra i due estremi, ma li contiene entrambi, che possiamo riscoprire l’utilità del concetto di “tendenza”.
Il sistema capitalistico, tendenzialmente, va verso il default, il big crash. Possiamo dire di essere immersi in cio’ che contraddistingue un passaggio epocale: l’entrata in crisi definitiva del modello che ha dominato l’età moderna verso qualcos’altro che, naturalmente, ancora non si vede. Non vi sono improvvise malattie fulminanti che hanno colpito il sistema economico, politico e sociale sul quale si regola il mondo e lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla natura. La voracità del sistema finanziario che divora l’economia reale non e’ un cancro, ma al contrario e’ l’esito di una lunga parabola, la cui direzione era già stata affrontata da Marx nell’analisi della “caduta tendenziale del saggio di profitto”.
Il capitalismo soffre di sé stesso, e non riesce a sopravvivere a sé stesso. Assumere la tendenza e non cullarsi dell’immagine del crollo o rassegnarsi a quella della fine della Storia, motiva il nostro agire politico: l’uscita dalla crisi non puo’ non combaciare con il superamento del capitalismo. Sapere che alcuni dati oggettivi confermano ciò che soggettivamente cerchiamo da sempre, non è cosa da poco.
A partire da questo va da sé che ogni provvedimento imposto dalla governance europea utilizzando la crisi come leva, si muove all’interno del solco capitalistico per tentare disperatamente di restaurarne un qualche equilibrio, ma si scontra con un problema insormontabile: la cura non funziona, e più il malato è tenuto in vita, più corre verso la morte.
2. La governace europea parla tedesco
In questo contesto la governance europea si è espressa finora attraverso la guida politica della Germania. L’Europa, che è un continente senza costituzione costruito attorno ad una valuta senza stato, è organizzata in una rete governamentale che è espressione dei rapporti di forza tra gli stati che la compongono. Una rete a forte competizione interna, dove non esistono interessi generali, ma solo “club” di potere che via via si formano e si modificano, a partire dagli interessi particolari delle singole entità, delle economie nazionali proiettate dalla piattaforma europea sull’intero mercato globale. Gli interessi della Germania, il paese più forte in termini di relazioni con i nuovi investitori del Bric, si sono innanzitutto concentrati a scaricare su altri partner del vecchio continente le pressioni speculative sui debiti sovrani.
Per mantenere la Germania bisogna far fuori più di una Grecia. Tutti gli altri, Italia compresa, hanno dovuto accodarsi, cercando un ruolo di compartecipi in questo sistema gerarchico e subordinato. Provvedimenti come il fiscal compact, o la negazione dell’emissione degli eurobond, che hanno trasformato la Grecia nel primo stato a sovranità commissariata, sono il frutto di una imposizione tedesca sul resto dei paesi membri. Quindi, in questa fase, possiamo individuare in maniera meno generica “dove risiede la governance”, pur sapendo che in termini sistemici essa si esprime in maniera dinamica e si articola attraverso una rete di poteri ed interessi nella quale si annulla la separatezza tra pubblico e privato. La rete non è tuttavia il luogo dove tutti sono uguali, o hanno lo stesso peso. La Germania si è comportata finora come azionista di maggioranza della Banca Centrale Europea, e ha imposto le scelte.
Ma il contesto della crisi rende privo di “visione lunga” il dispositivo messo in campo. La governance dunque si esprime senza un piano complessivo, rischia di esaurirsi nell’espletamento degli interessi particolari di un singolo paese in quel momento più forte e che utilizzerà il vantaggio per ridurre la sua esposizione alla speculazione sul debito. In questo modo non è possibile parlare di politica europea, se non nei termini della sua assenza: l’Europa è il Colosseo e i suoi membri fondatori o aderenti sono spinti a combattere tra loro all’ultimo sangue. Chi mostra il pollice decidendo la vita o la morte per ora ha le sembianze delle agenzie di rating, degli hedge found, delle banche d’affari, che agiscono sul quadro globale e non solo europeo.
La destra liberista o liberale europea, che in sostanza governa tutti i paesi membri, ha deciso di affidarsi ad una tecnica di governance più che ad una politica di governo. Questo appunto, per l’impossibilità di costruire, dentro il capitalismo, una controtendenza alla crisi. La tecnica di governance non prevede un confronto sulla visione politica generale, sui valori, sugli obiettivi sociali. Essa si muove a partire da procedure codificate e unidirezionali. Il governo tecnico è in questa fase, la figura egemonica che esprime la fine di qualsiasi prospettiva politica neokeynesiana nella crisi, e l’affermazione di una nuova forma di liberaldemocrazia autoritaria.
La tecnica si esprime dunque come procedura amministrativa autoritaria. L’esercizio dell’amministrazione, che può essere diretta, controllata, speciale, fallimentare, allude al fatto che non vi sono spazi concessi per alternative di sistema. Lo stesso principio per il quale sia la “tecnica”, e non il processo politico, ad occupare la scena della decisione pubblica, è allo stesso tempo causa ed effetto della crisi della democrazia rappresentativa che accompagna la tendenza in atto. Capitalismo e democrazia, nelle loro forme storicamente determinate, si separano sempre di più. Lasciano lo spazio a nuove Repubbliche senza i partiti, o addirittura contro i partiti, che sono destinate a nascere sull’onda dello stato di eccezione imposto dalla crisi.
3 – Governance come amministrazione autoritaria
I governi che in questo momento sono a capo degli stati europei, sono frutto di imposizioni dirette o indirette. In Grecia addirittura si è stabilita fisicamente l’autorità di controllo della troika bancaria e monetaria centrale, negli altri paesi gli effetti della crisi e delle politiche di austerity, hanno messo in crisi o spazzato via, come in Spagna, i governi precedentemente eletti. Il refrain spendibile sul mercato del consenso, che comprende le opinioni pubbliche ma anche le borse, è quello del “decisionismo”, un modo tecnico per dire autoritarismo. Il processo verticale della azione di governo è segnato da un dibattito pubblico nel quale non sono ammesse alternative. Si deve dunque amministrare ciò che è già stato deciso, perché l’emergenza lo impone, e si deve farlo in maniera meno orizzontale possibile.
” Il popolo ha bisogno di governi che decidono e poi attuano le decisioni”.
L’amministrazione autoritaria che si espande come modello di governance in tutta Europa, trova nella Grecia commissariata il suo esempio più evidente. Ma sarebbe un grave errore pensare che tutto ciò che sta accadendo da quelle parti, sia destinato a rimanere un’anomalia isolata. Il modello di questa europa e’ a geometria variabile e ad intensità diverse, ma sostanzialmente omogeneo. In Italia il governo imposto ha avuto un’altra genesi, forse più preoccupante che altrove. E’ nato dall’interno, e gode per questo di un consenso tra la popolazione ancora molto forte. L’ostinazione di Berlusconi a non voler morire, ci ha messo del suo. L’indignazione, che cominciava a travalicare le anguste visioni dell’antiberlusconismo, è stata rapidamente utilizzata dall’alto per accelerare un processo di cambio di governo senza elezioni. Già i referendum sui beni comuni avevano dimostrato quanto fosse in libera uscita l’opinione tradizionalmente controllata dai partiti. Gli spread alle stelle e l’apocalisse finanziaria dello stato, hanno fatto il resto. In questo senso Monti è l’uomo di questa Europa, come lo sono Napolitano e la Merkel che hanno deciso la sua investitura. Oggi tutti ripetono che con Monti stiamo transitando verso una terza Repubblica che nascerà dal voto del 2013. E si ripete, a ragione, che nulla nel quadro politico, potrà essere come prima. Insieme al crollo verticale del consenso verso i partiti, mai stato così ai minimi termini come oggi, bisogna leggere anche la fine del sistema parlamentare come composizione degli interessi diversi e contrapposti. Nella procedura di governance ammninistrativa autoritaria è l’idea delle parti che non può essere concessa. I partiti devono appoggiare chi decide, e chi decide lo fa non per una parte ma perché tecnicamente capace di farlo. Ecco che l’amministrazione dell’esistente diventa l’unico interesse generale. A poco valgono, sempre in Italia, le rassicurazioni di destra e sinistra sul carattere transitorio del governo tecnico: sono tentativi poco convincenti di riproporre l’unita nazionale in quest’epoca, come sofferta condizione imposta dall’emergenza. In realtà la percezione è quella di un processo costituente imposto dall’alto.
L’azione politica dei governi tecnici si concentra direttamente sui nodi definiti strutturali, come il sistema previdenziale, del welfare, del mercato del lavoro, e costituzionali. Agisce sul futuro oltre che sul presente, modellando ciò che sarà. Così facendo riscrive le relazioni sociali, ridefinisce le sfere del diritto, e impone nuove condizioni di vita mantenendo invariata la concentrazione diseguale della ricchezza. L’inserimento del pareggio di bilancio nella Carta Costituzionale sarà approvato prima in Italia che altrove, e come dicono autorevoli analisti, rappresenta la definitiva dipartita dal modello sociale europeo fin qui conosciuto. Una pietra tombale, già annunciata peraltro dal patto di stabilità imposto agli enti locali, sulle politiche di spesa pubblica.
4 – La forma politica della governance amministrativa autoritaria
La rappresentazione politica del processo di governante che si dispiega in Europa attraverso i governi tecnici, è quella della “Grosse Koalition”. E’ la trasposizione processuale di ciò che sta accadendo in questo momento nel rapporto tra partiti-parlamenti e governi. L’esercizio dell’amministrazione non ha bisogno, e anzi rifugge, dal meccanismo delle parti contrapposte. Alla luce del nuovo interesse generale, la costruzione di grandi coalizioni attorno al banchiere di turno sarà la nuova forma della politica dei partiti. In questo senso il sostegno al governo Monti di oggi, si tradurrà per molti nella costruzione di una nuova creatura politica che necessariamente si esprimerà come grande coalizione dell’arte di amministrare. Grande coalizione decisionista. Per noi, grande coalizione autoritaria.
5 – Che fare?
Questi modesti spunti forse possono servire a definire quali sono in questo momento degli obiettivi politici praticabili per chi si batte contro la governance autoritaria, contro le politiche di austerity e per un’alternativa di sistema.
Innanzitutto lo spazio europeo è un territorio da percorrere e da rendere sempre più striato di relazioni tra movimenti. In questo senso assume una importanza strategica la mobilitazione di Francoforte, proposta da reti, collettivi e associazioni per il prossimo maggio. Dobbiamo investire moltissimo su questo appuntamento, farlo crescere per far crescere la voce di un’altra Europa proprio nel cuore del suo dispositivo di governance. Le lotte contro l’austerity, le resistenze alle cancellazioni dei diritti e delle tutele, devono accompagnarsi alla nuova iniziativa dal basso per il reddito e contro la precarietà e la povertà. Dobbiamo costruire un nostro interesse generale di cittadini europei espropriati di democrazia e ricchezza.
In secondo luogo tutto ciò che rompe l’unanimismo della grande coalizione, in Italia come ovunque, è importante ed utile. In questo senso la lotta contro il Tav in Val di Susa risulta ancora più importante. Evitando di trasformarla in ideologia ma puntando alla sua concretezza e al suo essere l’espressione di un radicamento straordinario in un pezzo del nostro paese, essa può assumere l’importanza di un qualche cosa che costringe a schierarsi, che toglie dalla nebulosa del governo sostenuto dalla grande coalizione, la realtà vera che ci circonda. Grazie alla grande generosità delle genti della Val Susa, oggi il nodo dei beni comuni e della democrazia è ben visibile e non aggirabile. Sostenere in tutti i modi questa esperienza di resistenza all’autoritarismo, significa per noi allargare il più possibile le contraddizioni che permeano la finzione del governo di tutti.
La seconda riflessione è attorno alla Fiom, le cui lotte e posizioni stanno diventando uno spartiacque interessante. Il dibattito sul mercato del lavoro, sugli ammortizzatori sociali e sulla conversione ecologica della produzione va continuato ed intensificato, ma è ciò che la Fiom rappresenta oggi contro la grande coalizione ad accentuare il suo ruolo importante per la ripresa di un discorso politico sull’alternativa. E’ per questo motivo che il 9 marzo è per tutti, oltre che per i meccanici della Fiat e delle altre fabbriche in crisi, una data importante.