Contributo dello SPC all’indomani della manifestazione del 1° maggio a Milano

da Globalproject

 

Partiamo dai numeri, non per mero calcolo statistico, ma perché rappresentano un elemento preziosissimo sul piano politico. Trentamila persone hanno manifestato contro il dispositivo Expo, contro i nuovi paradigmi di sfruttamento e finanziarizzazione della vita e dei territori, contro il modello di metropoli gentrificata ad uso e consumo del capitale, contro l’idea che a nutrire il Pianeta siano le multinazionali dell’agricoltura industriale.

Trentamila persone che esprimevano una composizione transnazionale ed eterogenea, che non si è fatta intimidire dal clima di terrore imposto sul “movimento No Expo” da governanti e stampa mainstream e dall’ondata repressiva scatenatasi nei giorni che hanno preceduto la manifestazione.

Trentamila persone non sono piovute dal cielo, che al massimo ci ha regalato oltre quattrocento lacrimogeni. Sono il frutto di un intenso lavoro che da anni è stato messo in piedi dalle realtà milanesi e che negli ultimi mesi è cresciuto di intensità, ha coinvolto tante realtà organizzate di movimento sia a livello nazionale che a livello europeo, costruendo un contesto all’interno del quale l’evento non è mai fine a sé stesso, ma parte di un processo che cresce nella pratica della democrazia dal basso.

Un lavoro che aumenta di valore, se lo collochiamo dentro l’oggettiva difficoltà che negli ultimi anni c’è stata in questo Paese, salvo rarissime eccezioni, di attivare un’opposizione sociale credibile, continuativa e di massa.

Come Spazio Politico Comune siamo stati parte attiva della mobilitazione milanese, articolata in diverse giornate e partita il 30 aprile con il corteo studentesco, costruendo lo spezzone “Scioperiamo Expo”. Lo abbiamo fatto insieme ad altre realtà organizzate di movimento italiane ed europee e soprattutto insieme a tanti precari, studenti, migranti e  working poors che hanno animato il percorso di avvicinamento alle giornate No Expo nelle varie città. Uno spezzone composto da circa 5.000 persone, all’interno del quale vi era una presenza internazionale, a dimostrazione del fatto che la dimensione europea dei movimenti e delle mobilitazioni sociali è un processo già in atto e che si sta sempre più consolidando. Proprio per questo lo spezzone “Scioperiamo Expo” ha deviato verso la sede italiana della Commissione Europea, perchè la UE ci affama, ci toglie diritti, umilia il lavoro e ha ridotto il Mediterraneo ad un cimitero.

L’obiettivo della Commissione Europea crea una continuità simbolica e materiale con la grande mobilitazione del 18 marzo a Francoforte, proseguendo quel percorso di destituzione dal basso della troika e di resistenza alle politiche di austerità. L’azione inoltre, nel modo in cui è stata costruita, attuata e gestita, dimostra che è possibile praticare forme di conflitto che sappiano parlare a tanti e tante, che siano leggibili, comprensibili, riproducibili e che agiscano per il comune e non contro di esso.

Il problema delle pratiche, infatti, non è semplicisticamente riducibile al nodo “del conflitto e del consenso”. Il consenso è un concetto limitativo perchè descrive un’adesione esterna e rischia di ridursi ad una condivisione passiva. Il problema reale è quello del rapporto tra conflitto e legame sociale: una pratica degli obiettivi che non riesce a tradursi in una dinamica costituente di legame sociale non esprime alcun conflitto. Una pratica degli obiettivi che sacrifica a se stessa, alla propria visibilità ed alle proprie gratificazioni i legami sociali, il senso di reciproca appartenenza tra chi ha già maturato la scelta di scendere in piazza e chi ancora, per le mille variabili della propria esistenza, rimane chiuso nel suo appartamento gravato dallo sfratto o dal pignoramento, non solo non esprime alcun conflitto, ma si traduce in un ulteriore fattore di frammentazione sociale e marginalizzazione.

Nei luoghi fisici e politici che conquistiamo con le nostre pratiche di lotta, come è stato lo spezzone “Scioperiamo Expo” nel contesto della manifestazione milanese, la salvaguardia del legame sociale, la sua ricostruzione, la sua ricomposizione intorno al conflitto in atto costituisce non solo una priorità, ma la ragione stessa del nostro agire collettivo. Tutto ciò che dissocia consapevolmente  le pratiche degli obiettivi dal legame sociale non ci appartiene perchè non appartiene ad alcun processo rivoluzionario. La consunta retorica sulla rabbia sociale è oramai solo un argomento utile al grande circo mediatico che si alimenterà sempre di più delle “aree di sfogo” predeterminate ad hoc dalla polizia: d’altra parte l’utilizzo dei “circenses” in funzione del controllo sociale non è certo una delle novità renziane.

La differenza che intercorre tra chi vuole ricostruire legame sociale e chi, invece, individua nella sua rottura il proprio strumento di espressione, non è la differenza che intercorre tra buoni e cattivi, ma semplicemente la differenza tra ciò che cambia e ciò che conserva: una differenza incolmabile. Tutto il resto, sia che si parli di streghe o che si parli di fate, che si racconti di gnomi buoni o di folletti cattivi, non conta niente perchè si tratta solo di favole: possono essere raccontate per avere il ruolo del più duro tutore dell’ordine oppure quello del più fedele interprete di fantomatiche istanze insurrezionali, ma restano sempre favole che non hanno niente a che vedere con le drammatiche condizioni di vita di milioni di persone. Ed è su queste vite e con queste vite che vogliamo e dobbiamo agire, ricomponendo quelle lotte sociali che ci vedono protagonisti ogni giorno, dai nostri territori al cuore dell’Europa politica e finanziaria.

Spazio Politico Comune